Spazi confinati 05: strumenti e formazione per ridurre gli infortuni

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Documenti Inail e strumenti per la formazione. Intervista a Luciano Di Donato, DIT Inail.

IndagineSicurezza”, blog di riflessione e di approfondimento sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro in Italia, ha ospitato in questi anni diversi materiali e interviste realizzate sul tema degli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un ambito, quello degli spazi confinati, che continua a mietere vittime, come recentemente avvenuto, a fine maggio 2021, per due operai che sono morti per esalazioni di vapori tossici all’interno di una vasca di lavorazione. E tutto questo malgrado anche normative ad hoc – come il Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 – che insieme al D.Lgs. 82/2008 dovrebbero garantire una adeguata tutela per i lavoratori che lavorano in questi ambienti.

Se l’ultimo post ha presentato uno studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludiamo questa piccola inchiesta, costruita con interviste da me realizzate per il giornale online PuntoSicuro, con le risposte dell’ing. Luciano Di Donato (Responsabile del Laboratorio II – macchine e attrezzature di lavoro Dipartimento DIT dell’Inail) riguardo ad alcune ricerche e alcuni documenti (tre factsheet) pubblicati dall’Istituto:

  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Aspetti legislativi e caratterizzazione”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Formazione in aula e addestramento in campo”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Prodotti di ricerca dell’Istituto”.

Questi tre factsheet possono offrire molti spunti per chi si occupa, anche dal punto di vista formativo, della prevenzione degli infortuni in questi ambienti. 

L’intervista, realizzata nel mese di maggio 2021, è stata pubblicata su PuntoSicuro nell’articolo “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”.

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In relazione ai tanti infortuni mortali che avvengono negli ambienti confinati il nostro giornale si è spesso soffermato sulle problematicità e carenze, anche a livello normativo. Cominciamo a parlare di questo nuovo progetto Inail partendo dalle norme. Quali sono quelle di riferimento e quali sono le principali criticità?

Luciano Di Donato: In merito a questo primo quesito voglio intendere il termine norma nel senso più ampio della parola e quindi includere in questo termine la legislazione applicabile che oggi è rappresentata dal D.lgs. 81/2008, norma sulla sicurezza del lavoro, e dal Dpr 177/2011, regolamento per la qualificazione delle imprese che operano in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento.

È invece, in corso di sviluppo, un progetto di norma tecnica (UNI) specifica per l’argomento con l’obiettivo di curare alcuni aspetti non completamente definiti dalla legislazione applicabile.

Le principali criticità della nostra legislazione sono:

  • Una mancanza di definizione di ambiente confinato e/o sospetto di inquinamento;
  • L’esistenza di un elenco non esaustivo di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento;
  • La mancata definizione di criteri, modalità, contenuti e durata per la formazione e l’addestramento dei lavoratori.         

I suggerimenti per risolvere le criticità di cui all’elenco possono evincersi da una lettura completa delle risposte a tutte le domande formulate oltre, per evitare ridondanze, dalla lettura dei factsheet prodotti.

Nei factsheet pubblicati sono presentati alcuni dati e si fa riferimento anche agli ambienti “assimilabili” e alla cosiddetta “catena della morte”. Cosa si intende e perché quest’ultima è spesso correlata agli infortuni che avvengono in questi ambienti?

LDD: I dati pubblicati derivano da una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro e non possono considerarsi dati statistici, rappresentano però una importante raccolta di casi che vogliono essere di indirizzo a chi lavora in questo campo. 

Con il termine assimilabili (anche questi riportati negli istogrammi), si intendono tutti quegli ambienti che hanno medesimi pericoli e conseguenti rischi di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento ma non inclusi in quelli descritti nei pertinenti articoli del DLgs. 81/2008

Il termine tragica catena di morte fu usato la prima volta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e pubblicato sulla cronaca della Repubblica dopo il grave infortunio con la morte di 5 lavoratori a Molfetta in una autocisterna. Viene ancora utilizzato perché per la tipologia degli ambienti dove questi infortuni accadono (ristretti, con difficoltà di ingresso e di uscita, inquinati e con una non facile applicazione delle fasi dell’emergenza) se fallisce la procedura di sicurezza (perché non adeguatamente realizzata o addirittura mancante), al primo lavoratore coinvolto seguono altri che nell’intento di soccorrere il compagno cadono vittima della stessa situazione pericolosa.

Se non è stata fatta una adeguata analisi e valutazione del rischio che tenga conto anche di una progettazione dell’emergenza questa catena si ripete. Non a caso parlo di progettazione dell’emergenza perché in alcuni casi si può arrivare a dover dissaldare parte di un serbatoio per salvare l’operatore che per qualsivoglia motivo è diventato non collaborante. 

Come si è sviluppato il vostro lavoro di ricerca e quali sono le criticità che avete riscontrato per la sicurezza in questi ambienti? Quanto è importante la formazione per prevenire efficacemente gli infortuni?

LDD: Le attività di ricerca hanno riguardato dapprima l’analisi dell’incidentalità e letalità correlate con le attività lavorative da svolgere in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e, successivamente, si sono concentrate nello studio di misure tecnico-organizzative per operare in sicurezza in tali ambienti. I risultati delle ricerche hanno permesso la progettazione di un simulatore fisico in grado di riprodurre diverse possibili condizioni di lavoro tipiche che caratterizzano gli ambienti in esame; il simulatore ha, poi, permesso di sperimentare specifici percorsi formativi e di addestramento da erogare agli operatori di settore.

La formazione, sia in aula che in campo, con enfasi all’apprendimento esperienziale consentito anche dall’uso del simulatore, diventa, quindi, un’attività fondamentale per accrescere la consapevolezza dell’operatore relativamente al corretto utilizzo della strumentazione, dei DPI e delle attrezzature di lavoro anche ai fini dell’emergenza. Tutto quanto sopra, col fine di realizzare una efficace applicazione della procedura di lavoro che, può crearsi anche a seconda della tipologia di ambiente per il quale viene richiesta la formazione e l’addestramento.

In cosa consiste la formazione esperienziale che avete messo a punto e come è stata applicata nei percorsi formativi nel 2020?

LDD: I lavoratori apprendono facendo: l’uso del simulatore fisico (passi d’uomo, tecnologia per il controllo delle azioni e per l’alterazione delle condizioni cognitive) nonché delle attrezzature a corredo (barella, fit test, sistema di sollevamento a sbraccio variabile, ecc) hanno consentito una esperienza realistica delle operazioni da compiere in emergenza.

Questa modalità, di fatto, forma le abilità richieste non solo attraverso l’addestramento diretto ma anche risolvendo le incertezze che possono sorgere in campo.

Proprio per questo, a valle dell’addestramento pratico, si è previsto un momento di confronto in aula dedicato a tutti dubbi (appositamente raccolti in forma anonima) insorti durante l’addestramento.

Questo iter aiuta anche i formatori a trovare insieme con i lavoratori e i datori di lavoro coinvolti nuove soluzioni operative, ancora una volta un apprendere facendo. Il percorso aiuta a risolvere gli inevitabili imprevisti che accadono e che, in un ambiente di simulazione protetto e sicuro, non portano ad incidenti (ma portano esperienza). Imprevisti che se accadessero nella realtà potrebbero essere mortali. 

Lei ha sottolineato l’importanza, per la formazione e l’addestramento, del simulatore fisico. Come è stato realizzato? Con quali criteri e risultati?

LDD: L’idea del simulatore, è nata diversi anni fa attraverso una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro che aveva, come obiettivo, la realizzazione di un serious game per innalzare le capacità di comprensione dei pericoli e conseguenti rischi dei lavoratori qualificati per operare in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento. La sua realizzazione è stata la risposta concreta ad un periodo di infortuni gravi e mortali che si ripetevano con grande frequenza e che coinvolgevano un numero, per incidente, molto elevato di lavoratori (un lavoratore e quattro colleghi/soccorritori morti in un solo caso – strage di Molfetta).

Il simulatore è stato realizzato utilizzando un container trasportabile dotato di strumentazione di controllo e con sistemi di alterazione della capacità cognitive dei lavoratori che possono manifestarsi anche durante l’esercitazione, simulando di fatto, una condizione critica in itinere. Molti casi di infortunio evolvono nelle fasi di lavorazione per il cambio nel tempo delle condizioni dell’ambiente o addirittura (vedi attività di saldatura o lavorazioni sul piano stradale) dove i fumi e/o gas invadono l’ambiente che era stato preventivamente bonificato.

L’idea del trasporto è stata vincente perché già alcune multinazionali (appena prima dell’avvio della pandemia) hanno portato presso la loro sede il simulatore formando, con la nostra assistenza, il personale operante e qualificato per quelle tipologie di lavoro.

I criteri che ne hanno guidato la progettazione sono stati quelli di avvicinarsi quanto più possibile, in un ambiente protetto, alle condizioni reali operative anche per il salvataggio in emergenza. I risultati, per ora – benchè i dati non siano sufficienti per poter parlare di statistica – sono davvero interessanti. Le interviste pre formazione/ addestramento e quelle in uscita hanno mostrato che il sistema funziona e si innalzano le capacità di attenzione ai pericoli e rischi dei lavoratori impiegati oltre ad un innalzamento della cultura della sicurezza perché praticata appunto in modo esperienziale. 

Nei factsheet si parla sia di simulazione fisica che di simulazione virtuale e di realtà aumentata. Quali sono le differenze e le specificità?

LDD: I vantaggi principali e rappresentativi della realtà virtuale ed aumentata sono essenzialmente quelli di poter ricreare un qualsivoglia ambiente anche molto complesso con l’obiettivo di: effettuare valutazioni e scelte appropriate, fare una panoramica della situazione, considerando le condizioni del momento e il rischio correlato, esercitarsi a stimare il rischio potenziale correlato all’evoluzione della situazione; allenarsi a reagire a contingenze e fallimenti generati stocasticamente (cioè guasti, incendi, esplosioni, ecc.).

Pur essendo una tecnologia di cui non dobbiamo fare a meno, ed il laboratorio ha già lavorato su questo aspetto e continua a produrre soluzioni, attualmente non risolvono in modo completo ed esaustivo la fase di addestramento dei lavoratori ma rappresentano un ottimo rinforzo delle attività in aula. 

Il simulatore fisico consente di replicare le sensazioni fisiche relative ad operazioni tipiche: uso delle imbragature, uso della barella con movimentazione dell’operatore, uso del sistema di sollevamento a sbraccio variabile per le operazioni di recupero e salvataggio, nonché le possibili alterazioni delle prestazioni cognitive. Una formazione specialistica per essere tale deve preparare efficacemente e in modo completo alle condizioni di rischio standard e meno prevedibili. L’uso della realtà aumentata e virtuale per la rappresentazione di ambienti diversi e, di un simulatore fisico per la riproduzione di sensazioni fisiche e alterazioni cognitive in contesti lavorativi differenti, sono complementari e di fatto rappresentano un efficace sistema per ottenere una formazione che sia la più completa possibile.

Nei documenti prodotti avete parlato anche del Fit Test. Ricordiamo innanzitutto cos’è e perché è importante…

LDD: Prima di dire che cosa è le rispondo sul perché è importante eseguire il Fit test: è importante perché serve a verificare che le maschere e i facciali monouso delle vie respiratorie forniscano la giusta protezione e cioè che aderiscano bene al volto di chi li indossa. Infatti, barba, baffi, eventuali cicatrici o piccole difformità faciali ne possono compromettere l’efficacia.

Il Fit Test determina appunto la capacità della maschera o del facciale di mantenere la tenuta quando il lavoratore è in movimento. Per questo motivo gli utenti sottoposti al test devono completare diversi esercizi. Un DPI che si sposta durante il movimento potrebbe non essere in grado di mantenere la tenuta.

Esistono due tipi di test: qualitativi e quantitativi: nel caso di un Fit Test quantitativo (QNFT), che può essere utilizzato per qualsiasi maschera e facciale monouso aderente, questo prevede l’utilizzo di uno strumento per misurare le perdite intorno al volto e produce un risultato numerico chiamato Fit Factor che ci fornisce l’idoneità o meno del dispositivo per l’operatore che indossa il dispositivo.

Nelle attività in cui è necessario accedere a spazi confinati con dispositivi di protezione delle vie respiratorie questi test sono eseguiti?

LDD: Non è semplice rispondere a questa domanda. Alcuni casi di infortunio grave e mortale hanno individuato la causa nella scelta sbagliata del DPI (facciale filtrante, piuttosto che facciale isolato in un ambiente dove non c’era un adeguato livello di ossigeno) ma questo, non denota appunto, un corretto uso se finalizzato al modo di indossare il facciale piuttosto una scorretta analisi del rischio. Il fit test non è ritenuto cogente dalla nostra legislazione, ma ritengo, sia una pratica importante da seguire dove possano esserci ambienti di lavoro inquinati e/o con carenza di ossigeno.

Tutto, comunque, deve essere inizialmente valutato nell’analisi del rischio da effettuare prima di qualunque intervento.    

Concludiamo ricordando gli strumenti che l’Inail ha predisposto, oltre al progetto di alta formazione, informazione e addestramento, per gli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili. Ci saranno sviluppi futuri per questa attività di ricerca? E cosa auspicarsi per un miglioramento reale della prevenzione degli infortuni in questi ambienti a rischio elevato?

LDD: In relazione agli sviluppi della ricerca, stiamo già lavorando alla integrazione nel simulatore di sistemi di AG (Augmented Reality) e VR (Virtual Reality) con tecnologie integrate per simulare, in un ambiente virtuale, lo sforzo fisico che oggi non è possibile provare.

Infine, il miglioramento della prevenzione degli infortuni in questo caso passa attraverso:

  • Una prevenzione assistita;
  • Una definizione di criteri certi di formazione informazione ed addestramento del personale;
  • Una continua attività di ricerca per trovare nuovi sistemi e tecniche sicure per operare in questi ambienti.

Per il primo punto, possiamo citare le attività INAIL nella direzione di sconti sui premi assicurativi, nello specifico, nell’ultimo modello OT 23 – prevenzione degli infortuni mortali (non stradali) – è stata inserita la sezione A1 orientata agli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento mettendo in evidenza, tra le possibilità per ottenere questi sconti, la dimostrazione di avere sia la strumentazione (compresi robot) che formazione anche con simulatori. Questa è prevenzione, perché consente ai fruitori, di innalzare il grado di sicurezza con cui affrontare queste attività lavorative.

Per il secondo punto dalle attività con il simulatore vorrebbero arrivare delle proposte concrete, basate sull’esperienza della ricerca sul campo con cui proporre nelle sedi opportune un percorso formativo addestrativo virtuoso e di eccellenza che possa diventare un riferimento legislativo da seguire.

Infine, ad integrazione di quanto già risposto nella prima parte della domanda, un aspetto importante è l’attività di ricerca nel campo della robotica che, dove possibile, deve sostituire l’ingresso dell’uomo in questi ambienti. Anche su questo obiettivo, per altro molto ambizioso, il laboratorio sta lavorando.   

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”

Link ai tre factsheet prodotti dall’Inail

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Formazione alla sicurezza 6: qualità della formazione e nuovo accordo RSPP

Nel discontinuo peregrinare del mio blog attraverso i temi della formazione alla sicurezza mi sono soffermato in alcuni precedenti post sul tema della qualità.

La qualità della formazione è un elemento fondamentale, essenziale, della prevenzione nei luoghi di lavoro. Una formazione inefficace, magari svolta solo per conformità alla normativa, ma senza interesse per la sua qualità, per i risultati che può dare in termini di prevenzione, non è solo tempo e denaro perso, ma è anche l’anticamera di un incidente o di una malattia professionale.

Il problema è che, come i precedenti post hanno evidenziato attraverso una lunga intervista a tre rappresentanti della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), in Italia ci sono “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti” (estratto di un documento CIIP).

Proprio in relazione a queste amare constatazioni, torno a parlare oggi di qualità della formazione in riferimento all’approvazione del nuovo Accordo tra Governo, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano finalizzato alla individuazione della durata e dei contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione, ai sensi dell’articolo 32 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni”. Un accordo che, pur essendo principalmente rivolto al mondo degli RSPP/ASPP, viene a modificare significativamente tutta la normativa sulla formazione alla sicurezza in Italia.

 

In che direzione avviene questa modifica?

Il legislatore ha tenuto conto del deficit di qualità della formazione erogata in Italia?

L’Accordo guida i formatori e le aziende verso una formazione più efficace?

 

Non è facile rispondere a questa domanda.

L’Accordo è recente, è stato pubblicato a metà agosto in Gazzetta Ufficiale ed entra in vigore nei primi giorni di settembre.

Approvato e reso operativo nei mesi estivi, come buona parte della normativa sulla sicurezza, questo accordo deve essere ancora conosciuto, recepito, digerito e applicato.

Si rincorrono – dopo le anticipazioni dei media – i primi commenti.

 

Con riferimento a quanto apparso sulla rivista online PuntoSicuro, è possibile citare il commento dell’ingegnere Carmelo G. Catanoso che sottolinea come vi siano elementi “che sono stati totalmente trascurati e che avranno un impatto significativo sui processi formativi dedicati alle figure dei RSPP e degli ASPP e, soprattutto, sull’efficacia della loro azione all’interno delle aziende”.

Anche perché nella grande maggioranza delle aziende italiane l’RSPP è individuato nel datore di lavoro o in un consulente esterno. Nella maggior parte dei casi “ci si trova di fronte ad un esercito della prevenzione costituito da un solo soggetto, spesso con una carica esclusivamente onoraria auto conferita (datore di lavoro), con medio-bassa scolarità, poca o nulla esperienza specifica alle spalle, in genere poco sensibile ai bisogni formativi e quasi sempre impegnato nelle altre attività della propria impresa”.

Un altro commento al nuovo accordo è arrivato da Rocco Vitale, presidente dell’associazione AiFOS.

Commento che, ad esempio, ricorda che l’Accordo “viene a colmare una lacuna, evidente, del D.I. del 6 marzo 2013” sui requisiti dei formatori. Ora con il nuovo accordo i requisiti di docente formatore qualificato sono obbligatori per lo svolgimento dei corsi rivolti a RSPP, ASPP, datori di lavoro, RLS, dirigenti, preposti, lavoratori, coordinatori.

Il commento, in tema di qualità, si sofferma anche sull’organizzazione dei corsi, sulla metodologia di insegnamento e apprendimento e sulle indicazioni metodologiche per la progettazione ed erogazione dei corsi, probabilmente la parte più significativa ma meno conosciuta dell’Accordo.

Infatti si ricorda che “a differenza del vecchio accordo che dedicava poche righe, ovvie, su come garantire un equilibrio tra lezioni frontali ed esercitazioni e favorire metodologie di apprendimento basate sul problem solving”, ora “abbiamo un testo sul quale riflettere, studiare ed applicare non quale mero assolvimento formale”, per arrivare a risultati che possano incidere sui comportamenti non sicuri e sugli infortuni.

Proprio per dare risalto a questo aspetto dell’accordo ripropongo ora, parzialmente, un mio articolo pubblicato su PuntoSicuro l’11 luglio 2016 e dal titolo “Il testo del nuovo accordo stato regioni sulla formazione”.

Un articolo in cui presento le “Indicazioni metodologiche per la progettazione ed erogazione dei corsi”: un allegato pensato per i corsi RSPP/ASPP ma che può ben dare spunti per la progettazione di corsi a tutti i lavoratori, dando indicazioni per una idonea analisi dei bisogni formativi.

Buona lettura.

Tiziano Menduto


Nelle “Indicazioni metodologiche per la progettazione ed erogazione dei corsi” sono affrontati inizialmente i profili di competenza degli ASPP/RSPP e sono poi riportate indicazioni sui bisogni formativi.

Riguardo a questi ultimi si indica che le competenze professionali del ASPP/RSPP “si incentrano in sintesi su tre aree di competenza: una gestionale/organizzativa, una tecnico-specifica, e una relazionale strettamente integrate tra loro, per le quali si possono in sintesi indentificare i seguenti bisogni formativi:

– conoscenza della normativa di salute e sicurezza sul lavoro e dell’organizzazione della prevenzione (ruoli, responsabilità, processi);

– capacità di individuare e valutare adeguatamente i rischi e di collaborare a definire e a programmare adeguate misure di prevenzione e protezione in relazione ai diversi contesti lavorativi sia dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale;

– capacità relazionali, comunicative, per adempiere al meglio alla promozione della salute e sicurezza anche in situazioni potenzialmente conflittuali e nel rispetto delle esigenze di tutte le parti in gioco”.

In particolare il modulo B del nuovo percorso formativo per RSPP/ASPP “dovrà essere progettato al fine di:

– sviluppare nel concreto conoscenze, comportamenti e abilità tecnico-professionali improntati alle norme e ai principi di sicurezza e di igiene;

– evidenziare le peculiarità delle diverse realtà aziendali comprese nei vari settore produttivi al fine di stimolare una corretta individuazione dei pericoli e delle possibili misure di prevenzione e protezione adeguate;

– sviluppare capacità di problem-solving e adeguati metodi di approccio ai problemi dell’igiene e della sicurezza;

– fornire strumenti operativi per la valutazione e la gestione delle diverse tipologie di rischi

– evidenziare il ruolo dei comportamenti aziendali in relazione alla sicurezza

– sviluppare relazioni orientate a sostenere la prevenzione dei rischi”.

 

Rimandando ad una lettura integrale del testo, parliamo ora di progetto formativo.

Si indica che “declinati i profili di competenza e i bisogni formativi generali degli RSPP e ASPP e considerando le competenze di base acquisite con la frequenza del Modulo A propedeutico, è necessario strutturare il percorso formativo mediante la progettazione, che traduce il bisogno formativo in una coerente e pertinente risposta formativa, tenendo presente l’ambito dell’obiettivo generale, riportato nel d.lgs. 81/2008, di ‘trasferimento di conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e all’identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi’”.

In particolare il progetto formativo deve rispondere ad una “serie di requisiti quali:

conformità, intesa come rispondenza ai vincoli normativi e legislativi, alle specifiche e ad eventuali standard di riferimento;

coerenza, intesa come adeguatezza dal punto di vista metodologico, tecnico, e delle scelte progettuali, organizzative e gestionali in rapporto agli obiettivi formativi;

pertinenza, intesa come adeguatezza di risposta alle finalità della formazione nel campo della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro;

efficacia, intesa come capacità dei progetto di realizzare i risultati attesi dal punto di vista didattico e delle competenze professionali, con particolare riferimento al ruolo che il soggetto destinatario della formazione riveste nel contesto dell’organizzazione aziendale”.

E seguendo un approccio modulare “nella progettazione dovranno essere definiti con dettaglio, per ciascuna unità didattica:

– gli obiettivi specifici e i risultati attesi;

– i contenuti e la durata;

– la strategia formativa e le metodologia didattica;

– gli strumenti didattici di supporto e il materiale didattico;

– le modalità e i criteri di verifica dell’apprendimento;

– le modalità di verifica della qualità formativa (mediante questionari di gradimento)”.

Rimandando ad altri approfondimenti il tema della strategia formativa, del documento progettuale e delle verifiche, concludiamo questa presentazione dell’allegato IV dei nuovi accordi sottolineando che è necessario, in merito al progetto formativo, “identificare gli obiettivi specifici relativi alla singola unità didattica; tipicamente gli obiettivi vengono declinati mediante parole chiave come trasferire, illustrare, far conoscere, far acquisire, fornire, favorire, definire, delineare etc”.

E strettamente correlati agli obiettivi sono i ‘risultati attesi’ dall’azione formativa “che dovranno essere coerenti con tali obiettivi, conseguibili con la partecipazione al percorso formativo. Il raggiungimento dei risultati attesi dipende in buona misura dalla coerenza e adeguatezza progettuale, in termini di contenuti didattici e strategia formativa. I risultati attesi non dovranno limitarsi alla semplice acquisizione di nozioni, ma dovranno riflettere gli aspetti relativi al sapere agire, alla soluzione dei problemi e agli aspetti relazionali durante le attività che si è chiamati a svolgere”.

Link all’articolo di PuntoSicuro “Il testo del nuovo accordo stato regioni sulla formazione” 

Formazione alla sicurezza 5: si può valutarne la qualità?

Concludo con questo post la pubblicazione dell’intervista che ho realizzato qualche mese fa per il giornale PuntoSicuro a tre degli estensori di un documento della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP): Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).

È stata una lunga intervista divisa in tre parti – questa di oggi è la terza parte – che affronta una delle probabili cause che rendono spesso vana qualunque strategia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: la scarsa qualità di alcuni dei percorsi formativi, in materia di sicurezza, proposti nelle aziende ai lavoratori.

Una scarsa qualità che potrebbe essere alla base del ritorno di fiamma degli infortuni mortali denunciati all’Inail che nel 2015, secondo alcuni dati recentemente forniti dall’Inail, sarebbero aumentati del 16% rispetto al 2014.

E le aziende? Non sono le aziende che dovrebbero cogliere, al di là dei concetti di qualità – in parte raccontati nella terza parte dell’intervista – l’efficacia o meno di quanto erogato?

Non sono loro a poter confrontare gli indici infortunistici? Non sono loro a verificare il gradimento o l’opinione dei lavoratori? Non sarebbero proprio loro – dirigenti e datori di lavoro – ad avere il vero interesse che quanto si è speso per formare abbia un effettivo ritorno?

Purtroppo spesso questo non accade.

 

Veniamo dunque alla terza e ultima parte dell’intervista che si sofferma in particolare su due temi: la valutazione di efficacia della formazione alla sicurezza con gli “indicatori di performance” (KPI – Key Performance Indicator) e la qualificazione dei formatori.

Riporto, come sempre, una parziale trascrizione dell’intervista, come pubblicata su PuntoSicuro lo scorso 29 gennaio con l’articolo “Formatori: indicatori di performance e qualificazione”.

Link alla prima parte dell’intervista.

Link alla seconda parte dell’intervista.

 

Una vostra proposta riguarda gli “Indicatori di performance” dei processi di formazione professionale con cui misurare confrontare i percorsi formativi erogati. Cosa sono questi indicatori?

Arnaldo Zaffanella: Bisogna misurare. Se c’è qualcosa da valutare, occorre un sistema di misura. (…). La formazione è un processo di crescita e quindi necessariamente parte da un livello. E dunque, prima di far formazione, bisogna misurare a che livello siamo e poi misurare di nuovo dopo la formazione. Si dovrebbe trovare una differenza tra prima e dopo l’erogazione della formazione…. Ma non basta. Perché un conto è quello che uno ha appreso e un conto è quello che poi uno fa nella realtà. E quindi ci deve essere una misura anche una volta che il lavoratore rientra nel proprio luogo di lavoro. Sono tanti i lavoratori che ritengono di aver fatto un bel corso di formazione, ma poi, tornati in azienda, tornano alle vecchie abitudini. Ed è questo che dicono, le norme, gli schemi internazionali,… È chiaro che parlando di sicurezza e di prevenzione, un tema che riguarda tutte le professioni e tutte le attività umane, che non ci possono essere pochi indicatori che vadano bene per tutto. Bisogna vedere di cosa parliamo. Siamo su una nave? Siamo in un cantiere? Siamo in un ospedale? Siamo in un campo?

È logico che gli indicatori di performance, gli indicatori di qualità, devono essere definiti caso per caso. E gli strumenti di misura devono essere indicati subito, all’inizio del processo. Io progetto un percorso formativo. Bene, ma come lo misuro? Lo diciamo subito, così da saper cosa misurare e vedere se è stato raggiunto il risultato. (…)

Riguardo a tali indicatori ci sono già esperienze, indicazioni e esempi? E non ci sono difficoltà valutative anche con gli indicatori di performance? Quali sono le criticità di questi indicatori? Come applicarli?

Arnaldo Zaffanella: (…) Io direi innanzitutto che prima bisogna vedere da che punto si parte. Quali sono le conoscenze… Poi c’è anche il livello di esperienza. Siamo di fronte ad una persona che ha già svolto delle esperienze, magari incomplete, o non ne ha? Qual è la sua sua capacità di mettere insieme, di coniugare le esperienze acquisite?

Insomma ci sono dei processi di valutazione iniziali che ci consentono di avere in quadro della situazione di partenza. (…) Dunque i KPI (i Key Performance Indicators, indicatori di performance, ndr) li definiamo in sede di progetto, in sede di analisi del fabbisogno… (…). Questo modo di procedere, che potrebbe essere definito caso per caso, è un modo che sottolinea l’importanza della progettazione del percorso formativo, un percorso formativo che nasca da un’analisi dei bisogni.

La formazione non è un processo generale, è personale. Quando, ad esempio, si valuta la formazione da parte del giudice, non si guarda alla formazione generale, si guarda alla formazione della persona. Se era adeguata o meno.

La formazione dell’adulto, non è come quella dei bambini che a scuola hanno tutti la stessa età, magari fanno lo stesso percorso e arrivano da una stessa classe.

Quando si va in un’azienda e si mettono insieme più operatori, il contesto è estremamente vario e i fabbisogni sono estremamente diversi. E i percorsi possono essere sufficienti per qualcuno e non per altri. (…)

Nel vostro documento voi chiedete anche di migliorare i criteri di verifica della “Qualificazione dei Formatori”. Cosa non va oggi nella normativa sulla qualificazione dei formatori? I criteri proposti a vostro parere come potrebbero essere cambiati? Quali sono i riferimenti europei?

Giancarlo Bianchi: Per fare una formazione efficace bisogna avere formatori qualificati. Ma in che senso qualificati? Utilizziamo, da questo punto di vista, le nuove direttive europee che incominciano a precisare innanzitutto il linguaggio comune. Perché se non distinguiamo con precisione cosa vuol dire “conoscenza”, “abilità” e “competenza” in un ambito armonizzato europeo, poi quando parliamo o andiamo a far lezione, non ci capiamo.

Quindi la prima cosa è l’uniformità di linguaggio con definizioni europee portate a livello italiano. Sapendo con precisione che conoscenze, che competenze e che abilità deve avere un formatore, gli si fa fare un percorso di qualificazione formale, con esami finali, in modo che si riesca a creare  un elenco di formatori qualificati. (…) E poi i formatori devono essere valutati dagli allievi sulle capacità reale di tenere l’aula, di utilizzare una didattica attiva con strumenti attivi, diversi dal passato. Sto parlando ad esempio del BIM (Building Information Modeling, ndr), dell’uso dei personal computer e dei tablet, …

L’aula può essere tenuta in modo molto più proattivo e molto più attivo, utilizzando le nuove tecniche e metodologie. Si può arrivare ad un elenco di soggetti qualificati e verificati costantemente, che poi vengono inseriti – secondo il decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13 – in un associazione professionale dei formatori, la quale ha l’obbligo, nei confronti dei committenti, di garantire che i formatori siano soggetti qualificati secondi e terzi (qualificati da soggetti secondi e soggetti terzi, secondo quanto contenuto nella Legge 4/2013, ndr) e non autocertificati. E in più i formatori devono fare una formazione permanente. In questo modo si danno garanzie agli utenti e committenti che questi siano soggetti in grado di fare una formazione efficace.

Nel passato la CIIP è riuscita a incidere sulle scelte del legislatore in materia di tutela della salute e sicurezza? Ad Come far conoscere e presentare le proposte in materia di prevenzione?

Norberto Canciani: (…) La CIIP in questi anni ha avuto una buona capacità propositiva agendo indirettamente, cioè agendo sui soggetti decisionali. Ad esempio siamo stati utili bloccando alcune situazioni, come nel caso della modifica dell’Accordo Stato-Regioni sulla formazione degli RSPP. Su questo decreto noi abbiamo premuto affinché la Commissione Consultiva non approvasse un documento che, secondo noi, era carente sotto tanti punti di vista. Però la CIIP riesce a incidere indirettamente nel momento in cui ha degli interlocutori che stanno ad ascoltare quello che dice. (…) Forse è arrivato il momento di esserci. (…)

E’ stata riformulata la composizione della Commissione Consultiva, che ha un ruolo importante, (…) e forse è arrivato il momento che ci siano anche delle competenze tecnico-scientifiche. Noi abbiamo chiesto di esserci. Abbiamo chiesto che ci sia una rappresentanza delle associazioni tecnico-scientifiche, culturali e professionali. E’ arrivato il momento di aver un luogo dove andare a presentare delle proposte in modo ufficiale. (…)

Insomma in definitiva potremmo dire che non solo è necessario un miglioramento della qualità dell’offerta formativa in Italia, ma anche che necessitano strumenti per conoscere, al di là del modello formativo scelto, l’efficacia della formazione erogata…

Arnaldo Zaffanella: Queste conclusioni sono giuste. Non c’è una formazione buona e una formazione cattiva. La formazione è un processo di evoluzione individuale, è quasi un “prodotto artigianale (…). Ci vuole un processo di personalizzazione e ci vuole poi un processo di verifica…

Link all’articolo di PuntoSicuro “Formatori: indicatori di performance e qualificazione” 

Link alla prima parte dell’intervista.

Link alla seconda parte dell’intervista.

Formazione alla sicurezza 3: le criticità e le soluzioni

Dopo aver presentato alcune criticità della formazione alla sicurezza in Italia, attraverso un documento di Sebastiano Calleri(Responsabile Salute e Sicurezza della Cgil), dopo aver raccolto le interessanti proposte della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), una associazione che raccoglie alcune tra le più rappresentative associazioni professionali e scientifiche in materia di salute e sicurezza, è venuto il momento di fare alcune riflessioni.

E interessanti riflessioni e analisi sono gli ingredienti di un’intervista – della durata quasi di un convegno (circa un’ora e trenta minuti) – che ho realizzato per il giornale PuntoSicuro a tre degli estensori del documento CIIP: Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).

L’intervista, inizia delineando quel “mercato e business della formazione” e affrontando quella carenza di attenzione ai “bisogni formativi” a cui la CIIP vuole porre urgente rimedio attraverso le sue proposte. Si sofferma anche sulle “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti” (estratto del documento CIIP).

 

In questo post presento la prima parte dell’intervista che è stata pubblicata su PuntoSicuro lo scorso 14 gennaio con l’articolo “Il discount della formazione e l’assenza di efficacia e qualità” e che risponde a diverse domande:

– Perché in questi anni il mercato della formazione ha visto l’emergere anche di realtà carenti a livello di qualità ed efficacia?

– Chi sono i soggetti accreditati ad erogare la formazione? E perché si è diffusa l’abitudine della delega? Con che risultati?

– Cosa può servire per migliorare i controlli sulla formazione alla sicurezza?

– Ci sono le capacità, le competenze, le risorse, le linee guida per poter effettivamente vigilare sulla formazione?

– Si valutano correttamente i bisogni formativi?

– Ci sono norme tecniche che possono supportare le aziende, i formatori, i percorsi formativi?

L’intervista su YouTube:

Questa è una breve trascrizione parziale dell’intervista pubblicata e presentata su PuntoSicuro:

Con riferimento al documento prodotto il 10 dicembre dalla Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, affrontiamo il tema delle criticità della proposta formativa in Italia. Cerchiamo di comprendere la situazione attuale…

Giancarlo Bianchi : (…)Oggi l’80% dei problemi che nascono dagli incidenti o dagli infortuni dipendono da non corretti comportamenti degli operatori. Comportamenti che possono dipendere anche da carenze organizzative progettuali.

La formazione è lo strumento essenziale per cambiare i comportamenti. Tuttavia attualmente la formazione viene gestita prevalentemente per cambiare le conoscenze iniziali rispetto alle conoscenze finali, ma non nell’ottica di un cambiamento comportamentale. (…)

Affrontiamo più nel dettaglio il tema delle criticità, anche in riferimento alla normativa italiana e, in specifico, agli Accordi Stato-Regioni in materia di formazione…

Norberto Canciani: (…)Il problema è questi Accordi Stato-Regioni si sono verificati inefficaci per gli obiettivi per cui erano nati. Probabilmente questo eccesso di definizione – di normazione, direbbe qualcuno – ha portato a stravolgere il senso stesso e gli obiettivi. Cosa è successo?

Intanto probabilmente c’è una scorretta individuazione dei soggetti abilitati ad erogare la formazione. E’ stata fatta una individuazione solamente sulla base di criteri generali senza entrare nel merito delle competenze specifiche. Per fare un esempio, sono stati individuati come soggetti erogatori della formazione anche enti e soggetti che non sono nati per erogare formazione. Mi riferisco, ad esempio, ad alcune associazioni datoriali o sindacali che nascono con un obiettivo diverso, una mission diversa e che però per definizione, per legge, sono abilitati ad erogare formazione.

Cosa è successo dunque in questo periodo?

E’ successo che proprio per l’incapacità di alcuni di questi soggetti ad essere soggetti formatori si è assistito alla delega di funzioni. Per cui molti di questi soggetti che avevano l’autorizzazione per legge a fare formazione, non avendone le competenze, si sono avventurati in una serie di deleghe ad altri soggetti formativi più o meno abilitati. Addirittura, in alcuni casi, arrogandosi anche il diritto di abilitare altri soggetti formativi. Non dimentichiamo che in Italia i soggetti formatori o sono legittimati, autorizzati a monte dalla legge stessa (sono essenzialmente i soggetti istituzionali) o sono accreditati a livello regionale.

In questi anni è successo che molti soggetti che non erano né legittimati né accreditati, si sono avventurati nell’erogare formazione a tutti i livelli. Con le conseguenze del caso. Perché tra tanti soggetti anche competenti si sono annidati personaggi più o meno competenti, più o meno onesti e si è assistito ad un proliferare di attestati, di corsi. E anche di corsi malfatti, fatti da docenti non qualificati, fatti non seguendo i criteri stabiliti dalla norma e, specialmente, fatti senza tener conto dell’efficacia della formazione.

La situazione verificata al momento è abbastanza drammatica, perché la formazione è diventata un business, ma i risultati di questa formazione, in termini di prevenzione,  non si vedono assolutamente. Per questo motivo come CIIP abbiamo definito, a monte, cosa vuol dire formazione, seguendo i canoni della norma… Ma non solo, facendo riferimento anche alle buone prassi relative alla formazione. E quindi abbiamo ritenuto, oltre a definire in un documento più corposo questi aspetti, di cercare di sollecitare i controlli e di presentare un istanza e le proposte che di cui più avanti parliamo…

Quali sono altre conseguenze di questa situazione della formazione in Italia?

Arnaldo Zaffanella: (…) Bisogna tener conto anche dei problemi che ha chi fa formazione seriamente, perché chi la fa seriamente si trova in concorrenza delle proposte molto molto veloci e molto poco costose, una sorta di discount della formazione. È chiaro che vendere attestati è qualcosa di diverso dal fare una formazione come si deve. Una formazione che, dobbiamo ricordarci, è di tipo specifico, operativo, comporta anche un addestramento. Non è semplicemente far vedere la normativa. (…)

Quanto diceva Norberto è legato al fatto che la normativa vigente è prevalentemente portata ad avere i crediti, ad avere l’attestato. Ma chi entra però nei contenuti della formazione? Probabilmente c’è qui un aspetto da mettere a fuoco…

Come misurare l’efficacia della formazione?

Si sa che ogni processo – ingegneristico, medico, …di qualsiasi tipo – ha bisogno di essere erogato, ma poi è necessario misurarne l’efficacia. Come la misuriamo? Con l’attestato? (…)

Cosa serve per migliorare i controlli sulla formazione alla sicurezza? Ci sono le capacità, le competenze, le risorse, le linee guida per poter effettivamente vigilare sulla formazione?

Norberto Canciani: (…) Che tipo di controlli chiediamo? Intanto che venga messo in atto un Piano Nazionale dei Controlli sulla formazione. Sono stati fatti Piani nazionali su alcune tipologie di controlli, in materia di sicurezza sul lavoro, e sarebbe opportuno che venga organizzato un piano nazionale sulla formazione. Quando si organizzano questi piani nazionali dei controlli vengono stabiliti delle procedure, dei protocolli operativi, …

E’ chiaro che il controllo sull’efficacia della formazione non è una cosa semplice. Proprio per questo come CIIP ci stiamo lavorando e abbiamo prodotto un documento. In sostanza si chiede che i controlli innanzitutto vengano fatti in maniera sistematica. Che vengano fatti non attenendosi solo all’acquisizione dei certificati, degli attestati, di cui abbiamo appena parlato. E chiediamo che i controlli siano fatti entrando nel merito dei progetti formativi organizzati dalle singole aziende, dai singoli enti formatori. Possibilmente facendo controlli anche presso gli enti formatori autorizzati, accreditati, certificati, … La terminologia varia perché noi nelle nostre proposte siamo un po’ più articolati, come vedremo dopo. La sostanza è: controlli che puntino non alla verifica dell’esistenza dell’attestato, ma ai contenuti e alle modalità con cui è stata erogata l’attività di formazione. E anche ai risultati.

La partita sui risultati e sull’efficacia è una partita molto complessa. Ma ci sono delle esperienze. Io ho lavorato presso l’Asl di Milano e, per un periodo ho anche coordinato l’attività di controllo. E ho seguito un progetto che doveva ridefinire dei metodi per andare a controllare i risultati della formazione. Ricordo sempre che la norma non dice che il datore di lavoro deve erogare un corso di formazione ai propri lavoratori, ma la norma dice che il datore di lavoro deve realizzare e garantire una formazione adeguata e sufficiente. La norma definisce cosa si intende per formazione. La formazione non è trasferire delle informazioni. E’ un processo educativo che quindi deve portare ad una modifica dei comportamenti. Se questo non avviene, la formazione non si è verificata, la formazione non è avvenuta e il datore di lavoro non ha ottemperato a quanto previsto dall’articolo 37 del decreto 81/2008.

Nella lettera e nell’intervista si parla di un “mercato della formazione” che rincorre il minor costo senza alcun riferimento a criteri di qualità ed efficacia… Non c’è anche una responsabilità delle aziende? Secondo voi in Italia ci si rende conto di quanto si potrebbe risparmiare facendo buona formazione?

Arnaldo Zaffanella: No, non ci si rende abbastanza conto di questo. Sul tema della formazione c’è un comportamento molto difforme e disomogeneo tra grandi imprese, piccole/medie imprese e professionisti. E qui si apre un dibattito molto ampio… Sicuramente la domanda di formazione è diversa. Qual è quella giusta? Dipende dal tipo di sensibilità, dalla tipologia del lavoro, … Noi non dobbiamo metterci a inventare il modello giusto.

Esistono a livello internazionale, ne ha accennato il presidente Giancarlo Bianchi, delle normative che stabiliscono come si fa formazione professionale, non solo nel campo della prevenzione. Formazione che è distinta dalla formazione che viene chiamata formale. E quando si parla di formazione professionale  si parla di training, non di learning. Training vuol dire anche addestramento, vuol dire preparare le persone a operare in modo diverso.

Ci sono, approvate da anni, dall’UNI, norme che hanno recepito in Italia questo modo di procedere. Ad esempio la norma 29990:2011, che sostanzialmente dice come deve essere fatta la formazione e parla anche di organizzazione dei centri di formazione… Che sia interno o esterno, ci deve essere un’organizzazione, un’analisi dei fabbisogni formativi… (…)

Si parla anche della preparazione del docente, il profilo del docente. Come misurarlo? Sono cose già scritte, che sono da applicare… Chiaramente non c’è un modello solo, ma bisogna cominciare… Ultimamente tra l’altro, a livello internazionale, in campo normativo c’è un nuovo approccio. Non è che io sono a posto perché compilo un modulo e sono tutti “si” (…). Occorre valutare caso per caso cosa serve, soprattutto nel caso della formazione professionale perché è agente correttivo di situazioni critiche…” (…).

Link all’articolo di PuntoSicuro “Il discount della formazione e l’assenza di efficacia e qualità”

 

 

 

 

Formazione alla sicurezza: le proposte della Consulta interassociativa

Dopo aver introdotto nei giorni scorsi, attraverso un documento di Sebastiano Calleri (Responsabile Salute e Sicurezza della Cgil), il tema della formazione alla sicurezza in Italia, delle sue deviazioni, degli aspetti d’ombra, delle carenze a livello normativo e di vigilanza, non potevo che continuare l’approfondimento sul tema formazione proponendo altri punti di vista e analisi. E, perché no?, presentando delle proposte. Anche perché le proposte in Italia sono, purtroppo, una merce rara.

Le critiche e, specialmente, le proposte su cui mi soffermo oggi sono tratte da un documento prodotto il 10 dicembre 2015 dalla Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), una associazione che raccoglie alcune tra le più rappresentative associazioni professionali e scientifiche in materia di salute e sicurezza.

La consulta, come ricordo anche in un mio articolo di presentazione del documento su PuntoSicuro, denuncia con chiarezza le “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti”. Una denuncia forte e importante che contrasta le derive della proposta formativa in Italia e dà più forza a chi cerca di operare correttamente lavorando sulla qualità della formazione proposta.

Nel prossimo post presenterò più nel dettaglio anche una lunga intervista, realizzata per PuntoSicuro, a tre esponenti CIIP che entra nel dettaglio dei rilievi, delle motivazioni, delle aspettative correlate alle diverse proposte contenute nel documento.

Intanto vi invito a leggere l’interessante documento CIIP.

Buona lettura…

Tiziano Menduto


La formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro: problematiche applicative e proposte

Il D.Lgs. 81/08 ha definito gli obblighi relativi alla FORMAZIONE PROFESSIONALE in materia di Salute e Sicurezza sul Lavoro e gli Accordi della Conferenza Stato Regioni hanno articolato le modalità specifiche per l’attuazione di una formazione efficace.

I primi Accordi, che risalgono al 2006, hanno definito le modalità per la formazione delle figure professionalmente deputate alla gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro in azienda (Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione – RSPP), mentre gli Accordi Stato-Regioni approvati nel 2011 hanno determinato la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione, nonché dell’aggiornamento, dei lavoratori, dei preposti e dei dirigenti.

In tutti i casi, proprio per evidenziare l’importanza di una formazione efficace come strumento portante ed insostituibile del sistema di “Prevenzione e Protezione”, negli Accordi citati sono state definite anche le metodologie per la erogazione dei diversi percorsi formativi.

In questi anni si è potuto constatare che si sono sviluppate ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in “formazione a distanza” privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti.

Tali anomalie hanno potuto svilupparsi proprio a causa della mancanza o della inadeguatezza dei controlli che hanno consentito il dilagare di situazioni illegali.

Tuttavia, lo stesso contesto legislativo ha contribuito allo sviluppo di pratiche illegali in quanto, con l’individuazione di soggetti autorizzati “ex lege” alla erogazione di attività di formazione pur privi di competenze specifiche, l’esercizio della delega o della sub delega è diventata la norma.

Si è così assistito a deleghe “in bianco” che enti bilaterali di dubbia rappresentatività o associazioni datoriali e sindacali hanno distribuito, senza alcun controllo reale delle competenze dei delegati e, soprattutto, del corretto svolgimento del percorso didattico.

Tutto ciò ha determinato uno sviluppo di un “mercato” della formazione con la rincorsa al minor costo senza alcun riferimento a criteri di qualità, efficienza ed efficacia.

Naturalmente i datori di lavoro che si avvalgono di tali offerte pseudo formative sono, di fatto, vittime di veri e propri raggiri ma, in molti casi contribuiscono al dilagare di pratiche illecite in quanto sollecitano la produzione di attestati e documenti non preoccupandosi dei contenuti e dell’efficacia di quanto acquistato.

Tale prassi spesso è attuata anche in aziende dotate di certificazione del sistema di qualità e, in alcuni casi, anche con altri sistemi di gestione certificati.

La nuova edizione della norma UNI ISO 9001:2015 introduce la necessità di organizzare la gestione di ogni processo aziendale in funzione di una “Valutazione preventiva di tutti rischi”. La nuova Norma individua e richiama specificatamente la formazione professionale del personale quale aspetto particolarmente rilevante nell’analisi di questi rischi ai fini della continuità operativa aziendale, così come la qualificazione dei fornitori selezionati e quindi, tra questi, i formatori incaricati dal datore di lavoro.

Avvalersi di fornitori non qualificati per la formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro comporta, di fatto, anche la non conformità del sistema di gestione.

La qualificazione dei fornitori di percorsi formativi non può essere certificata da un soggetto non abilitato, ma dovrebbe perseguire criteri univoci. La Norma UNI ISO 29990.2011 (Servizi per l’apprendimento relativi all’istruzione e alla formazione non formale – requisiti base per i fornitori del servizio) costituisce indubbiamente uno strumento adeguato per questa certificazione, riconosciuto a livello internazionale e poco conosciuto purtroppo in Italia.

 

Proposte

– Individuazione di soggetti autorizzati “ex lege” solamente tra enti, istituzioni o strutture private che svolgono attività di formazione in modo istituzionale (Regioni/ASL, INAIL, Università, Scuole Superiori di Formazione, ecc.), dotati di specifica conoscenza e competenza nel settore.

– Tutti gli altri soggetti che svolgono attività di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sia autonomamente che in collaborazione con soggetti legittimati, devono dimostrare/certificare la competenza (accreditamento regionale con certificazione competenze e/o sistema di gestione, secondo standard riconosciuti in Italia e negli altri Paesi)

– Tutti i soggetti accreditati/certificati possono operare sull’intero territorio nazionale (riconoscimento reciproco accreditamenti regionali).

– Programmare un Piano Nazionale dei Controlli (organismi di vigilanza ASL) mirato alla “formazione efficace”. Controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati. Definizione di metodi per la verifica dell’efficacia della “funzione educativa” della formazione erogata.

– Istituzione del libretto formativo individuale elettronico con inserimento dei percorsi formativi realizzati a cura dei soggetti formatori abilitati.

– Predisporre un protocollo di verifica sulla efficacia della formazione e-learning e avviare controlli sull’erogazione di questi percorsi formativi.

– Vietare l’acquisizione di crediti “formativi” attraverso la partecipazione a momenti con funzione “informativa/divulgativa” (convegni, seminari, ecc.).

– Definire precisi “Indicatori di performance” dei processi di formazione professionale con cui misurare confrontare i percorsi formativi erogati.

– Migliorare i criteri di verifica della “Qualificazione dei Formatori” in linea con gli standard europei (EQF).

Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, 10 dicembre 2015

Formazione alla sicurezza: il diritto dei lavoratori ad una formazione efficace

È indubbio che la formazione dei lavoratori e di tutti gli attori della sicurezza nelle aziende sia uno dei principali strumenti di tutela della salute e sicurezza nelle aziende. È indubbio che solo una formazione efficace possa contribuire a modificare realmente i comportamenti pericolosi e a migliorare le buone prassi e la prevenzione nei luoghi di lavoro. È indubbio anche che una buona formazione non dipenda solo dalla conformità alla legge, ma anche dalla qualità dei contenuti erogati, dalla modalità con cui sono comunicati, dalle competenze dei formatori.

Malgrado tutte queste certezze, la situazione della formazione alla sicurezza nel nostro paese non gode di buona salute.

Certo esistono ottime proposte formative (in aula, in e-learning, …), ma queste proposte rischiano di annegare in un mercato della formazione in cui le aziende rincorrono il minor prezzo senza preoccuparsi della qualità di quanto si propone ai lavoratori. Una situazione che nasce dalla miopia degli imprenditori che non vedono come solo una buona formazione possa diminuire gli alti costi della non sicurezza e che rischia di creare grossi problemi economici a chi propone alle aziende formazioni qualitativamente valide (e inevitabilmente più costose).

In questo mercato della formazione, come racconta un documento della CIIP che presenterò nei prossimi giorni, sono presenti “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti”.

Proprio di fronte alle necessità di denunciare queste zone di elusione, di superare il tema delle conformità di legge per arrivare ai veri obiettivi della formazione, ho deciso di dedicare alcuni dei prossimi post del mio blog informativo, ad una sorta di reportage, di breve indagine sulla situazione della formazione alla sicurezza nel nostro paese.

E iniziamo oggi presentando un documento elaborato da Sebastiano Calleri, Responsabile Salute e Sicurezza del principale sindacato italiano, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil).

Un contributo che speriamo possa essere utile per chiarire la situazione della formazione in Italia e per ribadire come il diritto alla formazione dei lavoratori debba essere inteso solo come diritto ad una formazione valida ed efficace.

Buona lettura.

Tiziano Menduto


Il diritto alla formazione dei lavoratori (e non solo): un problema ancora aperto

di Sebastiano Calleri, Responsabile nazionale salute e sicurezza nei luoghi di lavoro-CGIL

 

Si è appena chiusa la annuale fiera “Ambiente e lavoro”, che si tiene ogni anno a Bologna, e il tema della formazione in SSL anche quest’anno è stato al centro di molte (troppe) iniziative e discussioni. E molto bene ha fatto la CIIP, con una lettera documentata e circostanziata, a denunciare gli abusi o le semplici scorrettezze o addirittura le vere e proprie illegalità che si perpetrano in questo campo ad opera di operatori scorretti e fin troppo tollerati.

Il fatto è, come sempre, che nonostante ci sia stato un evidente miglioramento ed avanzamento delle prescrizioni normative (ovviamente non ancora perfetto, ma si sa che la perfezione è rara avis in questo mondo) attraverso l’81/08 e i famosi accordi Stato-Regioni c’è ancora molto cammino da fare. Questo non tanto perché le norme non siano chiare ma perché esiste una diffusa mentalità imprenditoriale e non solo che cerca in qualche modo di eludere i costi e gli obblighi che comporta un godimento pieno del diritto stesso da parte di tutti i lavoratori e lavoratrici (NB: intendo come tali anche i dirigenti, i preposti e le altre figure del SPP aziendale).

Pensiamo anche alle problematiche tuttora irrisolte (nonostante l’attività legislativa) della formazione in caso di somministrazione di lavoro o di contratti precari, nel caso di lavoratori autonomi che prestino la propria opera in contesti produttivi complessi, o alla ultima previsione del Jobs Act riguardante il non esplicito obbligo di formazione e addestramento alla mansione in caso di demansionamento da parte del DL. E perfino al mancato aggiornamento dell’accordo Sato-Regioni riguardante gli RSPP, che registra ancora nella sua bozza attuale molte critiche sia da parte imprenditoriale che da parte sindacale che istituzionale.

Eppure assistiamo ad un fiorire incredibile di iniziative formative e di corsi di tutti i livelli, e a stanziamenti robusti dal punto di vista economico da parte ad esempio dell’Inail. Ma sono molti i problemi che si riscontrano riguardo a questa tematica: nei relativamente pochi anni che ci separano dalla novella del corpus normativo si è potuto constatare che si sono sviluppate ampie zone di elusione ed evasione degli obblighi, con il quasi generalizzato ricorso a soluzioni di pura apparenza.

Un caso frequentissimo è il rilascio di attestati formativi di comodo a valle di iniziative meramente burocratiche e prive di contenuti utili o fianco realistici, con docenze affidate a formatori non accreditati né accreditabili alla funzione e la vendita di corsi in “formazione a distanza” privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti non pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti e delle aziende italiane. Bisogna dire anche per completezza ed obiettività che tali non conformità hanno potuto svilupparsi proprio a causa della mancanza o della inadeguatezza dei controlli che hanno consentito il dilagare di situazioni illegali, e della forza lobbistica potentissima di alcune associazioni o aziende.

Ovviamente, questa situazione ha agito a scapito della qualità dei corsi stessi e ha impedito agli operatori qualificati, non competitivi in termini di tempi, criteri e modalità di erogazione della formazione stessa di poter essere presenti ed apprezzati dal mercato. Inoltre, alcune pratiche difformi dalla normativa come l’acquisizione di crediti formativi attraverso la partecipazione a convegni, anche poco rilevanti e ancor meno partecipati o di buona qualità, sono diventate sempre più frequenti fino al punto che, in alcune bozze di revisione degli Accordi Stato-Regioni che regolano la materia, tale modalità viene ritenuta accettabile.

Bisogna dire che la scorsa consiliatura della Commissione consultiva ex art.6 D.Lgs.81 ha raggiunto un avanzamento importante: si sono infatti sanciti (dopo un percorso durato anni) i requisiti minimi del formatore abilitato a tenere i corsi in oggetto. Proprio durante quel processo assistemmo al tentativo da parte delle piccole imprese di provare ad introdurre il principio che in questi contesti la formazione potesse essere erogata direttamente dal datore o dal Rspp, senza alcuna esigenza di verifica e certificazione (che ovviamente, penserà qualcuno, non sono garanzie assolute di effettivo svolgimento o di qualità). Questo avrebbe però a nostro avviso determinato una ancora più vasta elusione dell’obbligo, anche perché è facile comprendere che i tempi della produzione e le esigenze organizzative avrebbero facilmente sopravanzato una sottovalutata efficacia prevenzionistica delle attività in questione.

Eppure non ci sarebbe bisogno di ribadire a persone avvedute e ai cultori della cosiddetta “cultura della sicurezza” che, come gli studi effettuati al riguardo mostrano chiaramente, una corretta ed efficace formazione (generale e specifica) è una delle prime fonti di diminuzione degli infortuni e delle malattie professionali. Ma evidentemente l’esigibilità del diritto e la correttezza di svolgimento dello stessa formazione non è tenuta in debito conto neanche dalle istituzioni statali e regionali preposte alla vigilanza, se moltissime denuncia a questo riguardo rimangono inascoltate. C’è da dire anche, però, che alcune previsioni della regolamentazione non rendono la sorveglianza e la sanzione conseguente molto facile. Mi riferisco ad esempio alla poco regolata ma diffusissima forma della modalità on-line di svolgimento dei corsi, che nelle sue pieghe lascia troppa possibilità di elusione da parte delle aziende.

In conclusione, ci sembra di poter affermare che sono opportune e accoglibili tutte le iniziative di finanziamento e di supporto ai processi formativi, ma bisognerebbe mettere in campo qualche sforzo in più per reprimere i diffusissimi comportamenti non corretti o peggio, e poi sfruttare in maniera forse migliore la possibilità della arcifamosa e arcifamigerata “collaborazione” con gli Organismi paritetici e gli Enti bilaterali. Prima che qualcuno smetta di leggere questo articolo a seguito di queste ultime righe, individuando una qualche “captatio benevolentiæ” a favore delle organizzazioni sindacali, provo a motivare questa affermazione. Gli organismi paritetici e gli enti bilaterali con competenze in materia di SSL sono enti formati dalle associazioni imprenditoriali e sindacali maggiormente rappresentative, che firmano i CCNL, e che quindi conoscono bene i contesti produttivi ed organizzativi nei quali questa formazione si deve svolgere. La previsione legislativa che assegnava la possibilità alle aziende di poter avvalersi della collaborazione di questi per l’elaborazione dei piani e per il loro svolgimento, non era una norma vessatoria (come impropriamente affermato da qualcuno) visto il fatto che non è neanche originaria di sanzione, ma una possibilità di sviluppare appunto iniziative in favore della famosa e sbandierata e troppo spesso citata “cultura della sicurezza”.

Credo che proprio a questo aspetto dovremmo porre attenzione in favore di un maggiore sviluppo delle attività di formazione di qualità ed aderenti ai bisogni educativi dei settori specifici. E’ una esigenza dei lavoratori e delle aziende, è un concreto campo di lavoro fruttuoso. Ed è anche un contributo “bilaterale” e “bipartisan” che sarebbe ora che fosse compreso, sviluppato ed implementato tenendo nel giusto e corretto conto le esigenze di produttività e di competitività generali.

Sebastiano Calleri