Digitalizzazione e nuove tecnologie 02: esoscheletri, vantaggi e rischi

Torniamo a parlare della campagna europea 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale” e degli esoscheletri occupazionali parliamo di esoscheletri. Quali sono gli svantaggi e vantaggi? Le risposte di Alberto Ranavolo (Dimeila, Inail).

Con riferimento alla campagna 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”, promossa dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) sul quotidiano online PuntoSicuro in questi anni ho presentato diverse interviste su singole tecnologie e strumenti digitali già disponibili per le aziende e che possono servire a ridurre alcuni rilevanti rischi, ma che nascondono anche alcune sfide e possibili rischi emergenti da conoscere.

In un precedente post di “IndagineSicurezza” ho pubblicato l’intervista all’Ing. Alessandra Ferraro (Inail, Laboratorio IV – Sicurezza degli Impianti di Trasformazione e Produzione – Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti ed insediamenti antropici) sull’inquadramento tecnico-normativo, anche per comprendere quali sono i requisiti di queste nuove tecnologie e gli obblighi per fabbricanti e datori di lavoro.

Oggi ci soffermiamo su una seconda intervista realizzata durante il “Wearable robotics roadshow”, a cui ho partecipato come giornalista e che si è tenuto il 25 gennaio 2024 al MADE Competence Center i4.0 a Milano.

Parliamo con l’Ing. Alberto Ranavolo (Primo Ricercatore, Laboratorio di Ergonomia e Fisiologia, Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale dell’Inail), per comprendere in quali ambiti di lavoro sono più utilizzati gli esoscheletri, quali sono le difficoltà nella valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico, quali sono i vantaggi e le sfide da affrontare.

Gli esoscheletri possono essere suddivisi per funzione o per tipo di azionamento?

Come scegliere gli esoscheletri giusti?

Quali sono gli articoli o i punti del decreto 81/2008 interessanti per l’uso degli esoscheletri?

Quali sono i Regolamenti o le Direttive dell’Unione europea che possono riguardare gli esoscheletri e quali sono gli aspetti interessanti di queste normative?

Ci sono differenze significative tra la Direttiva Macchine e il Regolamento Macchine sugli aspetti che possono interessare le nuove tecnologie e la loro interazione con i lavoratori?

Quali sono le norme tecniche più rilevanti?

Cosa necessita da un punto di vista tecnico-normativo per diffondere e regolamentare meglio per il futuro l’uso degli esoscheletri nei luoghi di lavoro?

L’intervista testuale è stata realizzata per PuntoSicuro e pubblicata nell’articolo “Esoscheletri: i vantaggi, le sfide e la valutazione del rischio”.

Buona lettura…

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Ricordiamo innanzitutto quanto sono frequenti nel mondo del lavoro le patologie muscoloscheletriche. Perché continuano a rappresentare una delle malattie professionali più diffuse?

Alberto Ranavolo: Nei paesi occidentali del mondo le patologie a carico dell’apparato muscoloscheletrico correlate al lavoro rappresentano circa i due terzi di tutte le malattie professionali. Questo dato è confermato anche in Italia così come si evince dalla relazione annuale del Presidente INAIL del 2021 (1).

L’elevata incidenza di queste malattie è da attribuire alle attività di movimentazione manuale dei carichi (MMC) presenti in molti settori lavorativi come, ad esempio, quelli dell’edilizia, dell’agricoltura e dell’automotive. Si consideri che in Europa, la percentuale dei lavoratori che per almeno un quarto del loro turno di lavoro eseguono attività di MMC oscilla dal 24% del Portogallo al 44% della Romania (fonte Eurofound 2019).       

Veniamo agli esoscheletri occupazionali. Ricordiamo brevemente cosa sono e in quali ambiti di lavoro sono più utilizzati.

A.R.: La letteratura scientifica suggerisce diverse definizioni degli esoscheletri occupazionali sebbene esse siano tutte equivalenti: tecnologie robotiche portatili/dispositivi indossabili/ strutture meccaniche esterne al corpo in grado di supportare i lavoratori durante l’esecuzione di attività di MMC. Tali dispositivi sono utilizzati prevalentemente nell’industria sebbene esistano anche altri campi d’applicazione.

Le attività lavorative per cui vengono prevalentemente utilizzati sono quelle di sollevamento di carichi pesanti, di movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza (attività ripetitive) e di mantenimento di posture fisse e incongrue. Nel primo caso si utilizzano esoscheletri passivi o attivi per il tronco con la finalità di ridurre l’impegno della muscolatura paravertebrale e, indirettamente, il carico che agisce sull’articolazione lombosacrale. Negli altri casi vengono utilizzati principalmente esoscheletri passivi per il sostegno degli arti superiori. Negli ultimi anni la letteratura scientifica internazionale sta evidenziando l’efficacia di questi dispositivi nel breve periodo. Anche in Italia c’è una crescente attenzione a questi strumenti di lavoro anche grazie all’impegno dell’INAIL che ha di recente costituito un gruppo di lavoro interdipartimentale sull’argomento coordinato dalla Dott.ssa Giovanna Tranfo e dall’Ing. Corrado Delle Site.        

Affrontiamo subito un aspetto delicato, quello della valutazione dei rischi. Pur mancando una vera e propria norma per la valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico con l’utilizzo di esoscheletri, mi pare che in questi anni siano state prodotte varie ricerche e pubblicazioni sul tema …

A.R.: Questo è sicuramente uno degli aspetti più critici a cui alcuni gruppi di ricerca italiani ed internazionali stanno lavorando. Infatti, a fronte di una riduzione dell’impegno fisico del lavoratore, non è possibile oggi stimare la riduzione del livello di rischio da sovraccarico biomeccanico in attività eseguite con un esoscheletro rispetto alle stesse attività eseguite senza. Questa criticità è attribuibile al fatto che i metodi per la valutazione strumentale del rischio da sovraccarico biomeccanico elencati negli standard internazionali di ergonomia della ISO 11226 e della serie ISO 11228 non offrono la possibilità di valutare il rischio in presenza di esoscheletri. Difatti, questi metodi sono stati sviluppati in un’epoca in cui gli esoscheletri non esistevano. Va inoltre evidenziato che alcuni tentativi in corso per ovviare a questa lacuna sono poco esaustivi e in alcuni casi errati.

Per contro, un approccio particolarmente promettente è quello strumentale. I metodi di valutazione strumentale sono costituiti da tecnologie hardware e software che oggi sono particolarmente pronte ad un loro utilizzo sul campo. Esistono infatti dei tool di reti di sensori miniaturizzati e wireless e di algoritmi di intelligenza artificiale in grado di effettuare una stima del livello di rischio basata sul reale impegno del lavoratore durante l’esecuzione delle sue attività lavorative. Relativamente a ciò si segnalano molteplici pubblicazioni scientifiche internazionali, due documenti INAIL (2, 3) ed una pre-norma in ambito CEN (4) scritta grazie alle attività del progetto europeo Horizon 2020 SOPHIA. Questi approcci per il monitoraggio del lavoratore stimano il livello di rischio in tempo reale e ciò può anche permettere di somministrare degli stimoli al lavoratore per informarlo circa il suo impegno fisico.    

Forniamo qualche indicazione pratica. Cosa deve fare il valutatore che si trova in un’azienda in cui una parte degli operatori per lo svolgimento delle attività utilizza esoscheletri? Quali sono le difficoltà e le differenze rispetto ad una normale valutazione dei rischi ergonomici?

A.R.: Così come esposto sopra, la principale differenza risiede nella impossibilità di utilizzare i metodi tradizionali di valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico. Ad esempio, la nuova versione della ISO 11228-1 relativa alle attività di sollevamento di carichi pesanti dichiara esplicitamente la non utilizzabilità degli approcci tradizionali nel caso di lavorazioni eseguite con gli esoscheletri. Per questo motivo sarà importante che gli operatori della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro apprendano le modalità con cui è possibile effettuare questa valutazione con approcci strumentali

Che competenze deve possedere un valutatore per fare questa tipologia di valutazioni? Esistono metodologie innovative per la valutazione del rischio biomeccanico?

A.R.: Gli approcci innovativi di valutazione del rischio biomeccanico presuppongono sicuramente un percorso di formazione e addestramento sebbene essi siano di semplice utilizzo. Questo percorso può aumentare la consapevolezza dell’operatore sulla necessità di eseguire misure precise ed accurate. Non va nascosto comunque che questo tipo di trasformazione è solo agli inizi e per tale motivo andrà governata con pazienza, serietà e competenza.

Con la campagna europea sul lavoro sano e sicuro nell’era digitale si stanno approfondendo i vantaggi, ma anche i rischi, connessi all’utilizzo occupazionale degli esoscheletri. A suo parere quali sono i principali vantaggi di queste nuove tecnologie nella prevenzione di infortuni e malattie professionali?

A.R.: I vantaggi sono ascrivibili ad una indiscussa e scientificamente evidente efficacia degli esoscheletri occupazionali nella riduzione, nel breve periodo, dello sforzo fisico del lavoratore durante l’esecuzione di attività di MMC. Per questo motivo questi dispositivi indossabili stanno rappresentando una nuova opzione di intervento di ergonomia di concezione e di correzione con la finalità di ridurre l’insorgenza delle malattie professionali a carico del sistema muscoloscheletrico. 

Quali sono, invece, le principali sfide o i rischi che questi esoscheletri possono comportare?

A.R.: Gli esoscheletri occupazionali possono alterare la naturale strategia motoria del lavoratore, possono modificarne l’assetto biomeccanico ed alterarne le richieste cardiovascolari. Questi fattori di rischio emergenti possono implicare problematiche non ancora note e per tale motivo si sta ponendo attenzione ad eventuali effetti avversi.        

Parlando di tecnologie relativamente nuove, non ci potrebbero essere effetti nel lungo periodo che non sono ancora noti?

A.R.: Nel medio e lungo periodo il lavoratore che utilizza sistematicamente un esoscheletro potrebbe, paradossalmente, affaticarsi di più o rischiare di cadere dovendo controllare un centro di massa traslato rispetto a quello fisiologico. Inoltre, ulteriori criticità potrebbero essere associabili ad un ridotto scambio termico con l’ambiente soprattutto in contesti lavorativi estremamente caldi. Infine, sono da monitorare approfonditamente le zone del corpo che entrano in contatto con l’esoscheletro. Su di queste, insistendo per un tempo prolungato delle forze altrimenti assenti, potrebbero generarsi patologie dermatologiche ed ortopediche.

Quale sarà, a suo parere, il futuro degli esoscheletri. Diventeranno presto una panacea per la riduzione dei disturbi muscoloscheletrici nei luoghi di lavoro o hanno ancora costi e criticità che richiedono più tempo per la loro diffusione?

A.R.: Sebbene questa sia una domanda a cui è molto difficile rispondere con esattezza, credo che il costo non possa rappresentare una barriera per una loro diffusione nei luoghi di lavoro. Un investimento fatto per la salute dei lavoratori è di sicuro un giusto investimento. Credo inoltre che gli esoscheletri occupazionali possano rappresentare un ausilio valido per i lavoratori solo se messi in relazione ad una corretta organizzazione del lavoro.

Sono anche sufficientemente confidente che i futuri sviluppi tecnologici possano aiutare questo processo di diffusione rendendo gli esoscheletri occupazionali sempre più leggeri, adattabili al corpo del lavoratore ed intelligenti.    

Bibliografia

  1. https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/pubblicazioni/rapporti-e-relazioni-inail/relazione-annuale-anno-2021.html
  2. Ranavolo A, Chini G, Draicchio F, Varrecchia T. LA VALUTAZIONE STRUMENTALE E IN TEMPO REALE DEL RISCHIO DA SOVRACCARICO BIOMECCANICO. COLLANA SALUTE E SICUREZZA Tipolitografia Inail – Milano, novembre 2023, ISBN 978-88-7484-821-8.
    1. Papale, G. Chini, F. Draicchio, A. Fiorelli, L. Fiori, A. Ranavolo, A. Silvetti, A. Tatarelli, R. Trovato, T. Varrecchia.
  3. METODOLOGIE INNOVATIVE PER LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO BIOMECCANICO. ISBN 978-88-7484-704-4 © 2021 Inail. Stampato dalla Tipolitografia Inail di Milano • Edizione 2021 • Progetto editoriale: Inail-Dimeila • Editing e grafica: A. Luciani
  4. Kåre Sørensen, Robert Fox, Chris Hayot, Arash Ajoudani, Emir Mobedi, Marta Lorenzini, Alberto Ranavolo, Giorgia Chini, Alessio Silvetti, Tiwana Varrecchia, Aleid Ringelberg, Francesco Draicchio, David Rodriguez Cianca, Diego Torricelli, Tom Turcksin – Guideline for introducing and implementing real-time instrumental-based tools for biomechanical risk assessment – Ref. No.:CWA 17938:2023 E. ICS 13.100; 13.180 – 2023 CEN: EUROPEAN COMMITTEE FOR STANDARDIZATION. CEN-CENELEC Management Centre: Rue de la Science 23, B-1040 Brussels.

Il link al sito della campagna “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”.

Intervista di Tiziano Menduto

L’articolo originale che contiene l’intervista: “Esoscheletri: i vantaggi, le sfide e la valutazione del rischio”.

NB: L’intervista è precedente alla pubblicazione del rapporto tecnico UNI/TR 11950:2024 “Sicurezza e salute nell’uso degli esoscheletri occupazionali orientati ad agevolare le attività lavorative”. Su questo rapporto tecnico pubblicherò più avanti una intervista fatta a Luigi Monica (Inail, DIT) durante la manifestazione Ambiente Lavoro a Bologna.

Digitalizzazione e nuove tecnologie 01: normativa ed esoscheletri occupazionali

Con riferimento alla campagna europea 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”, parliamo di esoscheletri. Come sceglierli? Quali sono le indicazioni normative? Le risposte di Alessandra Ferraro (DIT, Inail).

Su “IndagineSicurezza” iniziamo a parlare di un importante campagna europea che affronta un tema, la digitalizzazione, che sta avendo e avrà sempre più un rilevante impatto nel mondo del lavoro, anche in materia di salute e sicurezza.

Con riferimento alla nuova campagna 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”, promossa dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) – e che approfondiremo in prossimi post – sul giornale online PuntoSicuro in questi mesi ho presentato varie interviste realizzate sia sullo svolgimento della campagna, sia su singole tecnologie e strumenti digitali già in parte disponibili per le aziende e che possono servire a ridurre alcuni rilevanti rischi, ma che nascondono anche alcune sfide e possibili rischi emergenti da conoscere.

E per poter presentare alcune informazioni esoscheletri occupazionali – tecnologie robotiche portatili/ dispositivi indossabili/ strutture esterne al corpo in grado, ad esempio, di supportare i lavoratori durante la movimentazione manuale dei carichi – ho partecipato come giornalista al “Wearable robotics roadshow”, che si è tenuto il 25 gennaio 2024 al MADE Competence Center i4.0 a Milano dove si è parlato, in particolare, di queste nuove tecnologie.

All’incontro hanno partecipato come relatori anche due ricercatori dell’Inail per fornire sia un quadro tecnico-normativo di riferimento di queste nuove tecnologie, sia alcune indicazioni sull’utilizzo e la funzione degli esoscheletri.

Presentiamo oggi un’intervista – già presentata da PuntoSicuro – all’Ing. Alessandra Ferraro (Inail, Laboratorio IV – Sicurezza degli Impianti di Trasformazione e Produzione – Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti ed insediamenti antropici).

L’intervista affronta i temi da lei trattati durante l’evento, l’inquadramento tecnico-normativo, un aspetto basilare per comprendere quali sono i requisiti di queste nuove tecnologie e gli obblighi per fabbricanti e datori di lavoro.

Gli esoscheletri possono essere suddivisi per funzione o per tipo di azionamento?

Come scegliere gli esoscheletri giusti?

Quali sono gli articoli o i punti del decreto 81/2008 interessanti per l’uso degli esoscheletri?

Quali sono i Regolamenti o le Direttive dell’Unione europea che possono riguardare gli esoscheletri e quali sono gli aspetti interessanti di queste normative?

Ci sono differenze significative tra la Direttiva Macchine e il Regolamento Macchine sugli aspetti che possono interessare le nuove tecnologie e la loro interazione con i lavoratori?

Quali sono le norme tecniche più rilevanti?

Cosa necessita da un punto di vista tecnico-normativo per diffondere e regolamentare meglio per il futuro l’uso degli esoscheletri nei luoghi di lavoro?

L’intervista testuale è stata realizzata per PuntoSicuro e pubblicata nell’articolo “Esoscheletri occupazionali: qual è il quadro tecnico-normativo di riferimento?”.

Buona lettura…

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Cerchiamo innanzitutto di conoscere meglio gli esoscheletri. Come possono essere suddivisi per funzione o per tipo di azionamento?

Alessandra Ferraro: Gli esoscheletri possono essere classificati per la loro funzione e per la tipologia di azionamento. Per quanto riguarda la funzione questa può essere il supporto, il potenziamento o la cura della persona che si attua rispettivamente attraverso la ridistribuzione di forze sul corpo, l’aumento della forza della persona, il riposizionamento o il rinforzo delle funzioni corporee. 

Oltre a queste tre funzioni ultimamente si assiste alla realizzazione di esoscheletri per la cosiddetta extended reality, che consentono, al contrario di quelli precedentemente annoverati, la percezione di carichi e sforzi realizzati in un ambiente virtuale che in tal modo viene esteso rispetto alla realtà attraverso questa ulteriore dimensione. In tale contesto il laboratorio IV del Dit ha sviluppato con un bando di ricerca in collaborazione (Bric 2019 ID 37) un progetto “SIDE-Sviluppo di un esoscheletro per dinamica simulata e interfaccia aptica” mediante il quale è stato realizzato un prototipo per cui è stata depositata domanda di brevetto.

Per quanto riguarda la tipologia di azionamento si hanno esoscheletri attivi azionati ad esempio mediante energia elettrica, idraulica o pneumatica, ma anche esoscheletri passivi in cui l’energia è generata esclusivamente dal movimento dell’utilizzatore attraverso l’impiego di molle e assorbitori.

Immagino che un aspetto importante degli esoscheletri sia la scelta giusta per il tipo di attività da svolgere. Ci sono tipologie di esoscheletri più adatti a particolari attività o movimenti?

A.F.: Gli esoscheletri destinati ad essere utilizzati per l’esecuzione di un’attività lavorativa (cosiddetti esoscheletri occupazionali) devono essere idonei per la destinazione d’uso prevista, per l’ambiente in cui sono utilizzati e non creare rischi supplementari per l’operatore (es. impigliamento, trascinamento, etc…). La maturità tecnologica di queste attrezzature è indispensabile per poterne osservare un utilizzo diffuso.

In linea generale l’evoluzione degli esoscheletri dai primi modelli a quelli di più recente costruzione ha migliorato l’indossabilità (riduzione di peso, libertà nei movimenti, adattabilità, etc.), ma anche l’autonomia degli esoscheletri attivi. In linea generale gli esoscheletri passivi sono più leggeri e meno ingombranti, pertanto, più facilmente accettabili.

Per cercare di comprendere il quadro tecnico-normativo interessante per queste nuove tecnologie partiamo dal D.Lgs. 81/2008. Quali sono gli articoli o i punti del decreto interessanti per l’uso degli esoscheletri?

A.F.: Gli esoscheletri occupazionali si configurano come attrezzature di lavoro e pertanto ricadono nell’ambito di applicazione del titolo III del D.lgs. 81/2008 per la parte relativa all’uso delle attrezzature di lavoro.

In particolare, l’articolo 70 richiede che qualsiasi attrezzatura di lavoro debba essere conforme alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle Direttive comunitarie di prodotto. Importante, dunque, è avere chiaro il quadro giuridico-regolamentare di riferimento per l’esoscheletro messo a disposizione di un lavoratore.

All’atto della scelta delle attrezzature di lavoro, il datore di lavoro deve prendere inoltre in considerazione le condizioni i rischi presenti nell’ambiente di lavoro ed i rischi derivanti dall’impiego delle attrezzature stesse. Quando si fornisce una nuova attrezzatura, anche indossabile, ci si devono aspettare benefici ed i nuovi rischi devono essere opportunamente gestiti.

Veniamo ora alla normativa europea. Quali sono i Regolamenti o le Direttive dell’Unione europea che possono riguardare gli esoscheletri e quali sono gli aspetti interessanti di queste normative?

A.F.: A seconda della loro funzione e della destinazione d’uso gli esoscheletri possono essere inquadrati nel campo di applicazione della Direttiva 2006/42/CE relativa al prodotto macchina (a partire dal 20 gennaio 2027 dal Regolamento (UE) 2023/1230) o del Regolamento (UE) 2017/745 relativo ai dispositivi medici. Quest’ultimo stabilisce le norme relative all’immissione sul mercato, la messa a disposizione sul mercato o la messa in servizio dei dispositivi medici per uso umano e degli accessori per tali dispositivi nell’Unione. «Dispositivo medico» è qualunque strumento, apparecchio, apparecchiatura, software, (…) o altro articolo, destinato dal fabbricante a essere impiegato sull’uomo, da solo o in combinazione, per una o più delle seguenti destinazioni d’uso mediche specifiche. Tra le varie destinazioni d’uso contemplate vi sono la prevenzione, il trattamento o l’attenuazione di malattie, di una lesione o di una disabilità.

Ciò che mi sentirei di evidenziare è il fatto che, qualora una persona indossi un esoscheletro con destinazione d’uso sia medica che non medica, ad esempio perché lavora in un contesto industriale, questo dispositivo deve soddisfare cumulativamente sia i requisiti applicabili ai dispositivi con destinazione d’uso medica sia i requisiti applicabili ai dispositivi con destinazione d’uso non medica. Il Regolamento Dispositivi Medici si preoccupa chiaramente dei rischi derivanti da qualcosa che muove la persona o che comunque è in contatto diretto con lei.

Ci sono differenze significative tra la Direttiva Macchine e il Regolamento Macchine sugli aspetti che possono interessare le nuove tecnologie e la loro interazione con i lavoratori?

A.F.: Il Regolamento relativo al prodotto macchina contiene un interessante aggiornamento del requisito relativo ai rischi dovuti a elementi mobili. In particolare, richiede che le misure adottate tengano conto anche delle tensioni psichiche che possono essere causate dall’interazione con la macchina. Gli esoscheletri sono a contatto diretto con l’operatore e la loro interazione con il soggetto che l’indossa deve essere a maggior ragione studiata ed approfondita.

In letteratura si trovano studi volti alla realizzazione di algoritmi che siano in grado di anticipare i movimenti futuri dell’operatore o di parti del corpo che hanno suscitato, soprattutto negli ultimi anni, un forte interesse.  Questa è un’attività estremamente complessa, in quanto devono essere considerati molti fattori, legati sia alla natura del corpo umano che al contesto circostante, ma anche molto interessante nel campo della sicurezza e trasversale rispetto ai contesti applicativi.

Veniamo alle norme tecniche. Quali sono quelle più importanti in relazione agli esoscheletri?

A.F.: In linea generale per gli esoscheletri, come anche per tutti i prodotti che vengono immessi sul mercato o messi in servizio, avere norme tecniche specifiche per la sicurezza armonizzate alle Direttive o Regolamenti di riferimento supporta e agevola la valutazione dei rischi che il fabbricante è tenuto a fare e fornisce un riferimento dello stato dell’arte per le misure adottabili.

Ad oggi l’unica norma di riferimento armonizzata alla Direttiva Macchine è la UNI EN ISO 13482:2014 Robot e dispositivi robotici – Requisiti di sicurezza per i robot per la cura personale, oltre la serie di riferimento per i sistemi robotici industriali (UNI EN ISO 10218), nel quale non è però considerata l’indossabilità del dispositivo.

A livello di standard internazionali, non armonizzati alla direttiva di riferimento, si hanno diversi contributi interessanti. Ad esempio, vi è la serie di norme ISO 18646 che tratta i criteri prestazionali e relativi metodi di prova per robot di servizio. La parte 4 tratta specificatamente gli esoscheletri che supportano la parte bassa della schiena (Lower-back support robots).

Inoltre, la American Society for Testing & Materials (ASTM International) ha prodotto, in seno al comitato tecnico F48, istituito per lo sviluppo e l’aggiornamento di standard per esoscheletri, numerosi documenti.

In conclusione, cosa necessita, a suo parere e anche da un punto di vista tecnico-normativo, per diffondere e regolamentare meglio per il futuro l’uso degli esoscheletri nei luoghi di lavoro?

A.F.: Sicuramente l’emanazione di norme tecniche di riferimento che coprano le diverse tipologie di dispositivi robotici indossabili, considerando che tali norme dovrebbero contenere anche informazioni specifiche per la destinazione d’uso e sulle modalità d’uso di tali dispositivi, costituisce un valido supporto nella valutazione dei rischi che deve essere svolta dal fabbricante, ma anche nelle considerazioni che il datore di lavoro deve fare nel momento in cui mette a disposizione un esoscheletro per lo svolgimento di attività lavorative.

Inoltre, gli studi sulla predizione del movimento dell’uomo in un contesto in cui si utilizzano dispositivi robotici indossabili ed in cui l’operatore e le macchine si muovono in spazi sempre più condivisi, consentiranno un miglioramento della sicurezza delle soluzioni e dei sistemi implementati.

Intervista di Tiziano Menduto

L’articolo originale che contiene l’intervista: “Esoscheletri occupazionali: qual è il quadro tecnico-normativo di riferimento?.

NB: L’intervista è precedente alla pubblicazione del rapporto tecnico UNI/TR 11950:2024 “Sicurezza e salute nell’uso degli esoscheletri occupazionali orientati ad agevolare le attività lavorative”. Su questo rapporto tecnico pubblicherò più avanti una intervista fatta a Luigi Monica (Inail, DIT) durante la manifestazione Ambiente Lavoro a Bologna.

Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Alessandro Negrini e all’Ing. Serenella Corbetta del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.


Come raccontato in un precedente post, il lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, non è solo una conseguenza della pandemia e dell’emergenza COVID-19. Il modello organizzativo del lavoro a distanza è molto di più: è una nuova prospettiva, un “mutamento copernicano” con cui il mondo del lavoro deve confrontarsi per il presente e per il futuro. E non solo in riferimento alla scelta, o meno, di adottarlo, ma anche in relazione alle nuove strategie di prevenzione e alle corrette prassi di valutazione dei rischi di una realtà che la normativa attuale fatica ancora a riconoscere e gestire adeguatamente, almeno per quanto riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Per cercare di conoscere meglio questo mondo ho già segnalato il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI. E ho presentato – nel post “Covid e smart working 01: criticità e prospettive future” – una intervista ad alcuni dei suoi autori, gli ingegneri Gaetano Fede e Stefano Bergagnin.

Se in quella intervista mi sono soffermato sulle caratteristiche del lavoro agile e sulle carenze normative, nell’intervista che presento oggi- con due componenti del GTT “Smart working e lavori in solitudine”, gli ingegneri Alessandro Negrini e Serenella Corbetta – affronto alcuni aspetti più operativi relativi allo smart working.

Ricordo che l’intervista è stata realizzata e pubblicata per PuntoSicuro nell’articolo “Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”.  


Possiamo dare qualche consiglio alle aziende che si trovano a dover valutare i rischi dello smart working anche in relazione all’attuale contesto emergenziale?

Ing. Alessandro Negrini: Come molti strumenti innovativi legati all’organizzazione d’impresa, anche il lavoro agile richiede una solida pianificazione fondata su quelli che possiamo considerare i tre pilastri di qualsiasi processo di sviluppo destinato al successo: una comunicazione efficace, una formazione graduale (quanto continua nel tempo) e l’accesso a nuove tecnologie scalabili con cui poter prendere confidenza via via che si procede lungo la curva d’apprendimento.

Il primo consiglio, quindi, è di agire in modo ponderato nonostante l’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria: lo smart working impone di definire chiaramente a priori sia gli obiettivi che le risorse destinate ad alimentare quello che sarà un cambiamento strutturale, importante e – soprattutto – articolato nel tempo. Questo per non confondere la flessibilità con l’improvvisazione.

Quali sono i rischi più sottovalutati o meno conosciuti nel lavoro a distanza e nello smart working in particolare?

Ing. Alessandro Negrini: Parlando di sicurezza occupazionale in genere, i rischi psicosociali sono spesso trattati alla stregua di una tematica di secondo piano: forse perché è complicato parlare in modo oggettivo di questioni spesso legate alla sfera emotiva, personale. La remotizzazione del lavoro, tuttavia, accentua molte di queste criticità e ci pone davanti alla necessità di affrontarle in modo aperto proprio attraverso la comunicazione e la formazione.

Più nello specifico, una valida gestione dei rischi psicosociali dovrebbe poter stabilire precisi confini tra “pubblico” e “privato” sia in termini di orari che di strumenti di comunicazione anche e soprattutto in funzione delle specifiche necessità individuali: ciò equivale a riconoscere – innanzitutto – che, se anche lo smart working impone un ampio ricorso alla digitalizzazione, questo non implica necessariamente l’estraniamento, l’isolamento o la frustrazione. Si può lavorare (e si deve) in modo agile favorendo un’interazione sociale più ricca ed equilibrata che affianchi il principio d’inclusione a quello della creazione di un mero valore economico.

Certo è che il primo radicale cambiamento di prospettiva (un mutamento copernicano, in un certo senso) prescinde dalle scelte tecnologiche e si fonda, anzi, sulle persone stesse: sullo svecchiamento di una mentalità aziendale che, troppo spesso, considera lo stress (nelle sue varie espressioni) come una componente strutturale dell’attività lavorativa in sé. In questo dobbiamo riconoscere che molti dei problemi associati al lavoro agile (parliamo, fra l’altro, di tecnostress, di burnout, di ansia da controllo/ micro-management) sono gli stessi punti dolenti che, mal gestiti, portano una parte delle aziende ad uscire dal mercato perché insistono tout court nel rifiutare nuovi approcci alla gestione d’impresa sulla base di un equivoco di fondo: la convinzione che un’attività lavorativa bilanciata e “a misura d’uomo” costituisca un’utopia, al pari di un modello organizzativo (come lo smart working) focalizzato sulla qualità del risultato anziché su logore metriche di stampo quantitativo.

Nelle linee di indirizzo si parla di “boundary”, di confine tra spazio lavorativo e spazio domestico. Quali sono i problemi connessi alla gestione degli spazi lavorativi negli ambienti privati e nelle abitazioni?

Ing. Alessandro Negrini: : Nel momento in cui l’impresa diviene “liquida“, i confini fisici dello spazio lavorativo tradizionale si fanno indistinti e, soprattutto, non consentono più di ragionare secondo i vecchi criteri che permettevano di definire un’attribuzione diretta di responsabilità (es. incidente in sede o in itinere, vigilanza di terzi o autonoma ecc.) oltre a stabilire un’implicita compartimentazione tra sfera lavorativa e dimensione privata (fisicamente collocate in luoghi diversi).

Il lavoro agile mette in discussione questi stessi confini e, al contempo, impone di concordarne di nuovi con l’impresa, offrendo – a mio avviso – la preziosa opportunità di superare la standardizzazione tipica dei modelli tradizionali, per focalizzarsi finalmente sugli elementi che davvero possono favorire il benessere individuale dei lavoratori in base alle loro specifiche esigenze di vita.

La gestione dei rischi che interessano i lavoratori agili assume, d’altronde, un’ottica di ampio respiro improntata ad una diversa concezione di welfare, tenendo in conto che la frequente sovrapposizione tra ambiente privato e ambiente di lavoro induce a trasferire le abitudini personali (salutari e non) anche al contesto professionale. Questa tendenza impone la necessità di individuare le fonti di rischio per la salute psico-fisica dei lavoratori secondo una prospettiva a lungo termine e, a mio parere, con un approccio che definirei “olistico” cioè teso a superare la logica dei “compartimenti stagni” menzionata poco fa.

In questo, stimo di rilievo gli esperimenti promossi negli scorsi mesi da alcune imprese che hanno varato programmi di miglioramento della salute aziendale volti a garantire ai propri dipendenti in smart working tutta una serie di iniziative (es. formazione nutrizionale e sugli effetti nocivi del fumo, attività fisica ed educazione posturale on-line ecc.) che ne migliorassero lo stile di vita nonostante la nuova sfida costituita dalla remotizzazione emergenziale. Le implicazioni anche a livello di welfare sociale (es. il contributo alla diffusione di una cultura della salute, l’opportunità di un invecchiamento attivo ecc.) sono evidenti, quanto interessanti.

Come affrontare la valutazione dei rischi nel lavoro agile? Come operare una valutazione in “luoghi di lavoro e in condizioni non controllabili e non monitorabili” direttamente?

Ing. Serenella Corbetta: Ai sensi del D.Lgs. 81/2008, il Datore di lavoro è tenuto alla verifica della conformità dell’ambiente di lavoro ma per quanto concerne i lavoratori agili e la loro prestazione di lavoro “anywhere”, appare evidente la quasi impossibilità di verificare lo stato di tutti i luoghi di lavoro privati in cui operano i lavoratori agili o i luoghi all’aperto.

E’ pertanto utile ricorrere a strumenti di autocontrollo con ausilio di check list compilate dal lavoratore, che deve essere evidentemente reso partecipe e consapevole della valutazione.

La check list deve essere di facile comprensione identificando in primis il luogo prevalente dello svolgimento dell’attività e declinando poi i potenziali rischi da analizzare, contribuendo così ad innalzare il grado di consapevolezza del lavoratore: indicativamente le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, degli spazi di lavoro, degli arredi, del rischio elettrico, incendio , dei fattori organizzativi , di conciliazione spazi vita lavoro, del lavoro in solitario, delle modalità organizzative.

Questa check list sarà poi utile a definire l’informativa – richiesta sempre dall’art. 22 della L. 81/2017- ai lavoratori stessi sui rischi generali e specifici dell’attività lavorativa in modalità agile.

Nella prima parte dell’intervista abbiamo accennato alla riduzione degli infortuni in itinere, ma ci sono esempi di infortuni durante le attività di smartworking?

Ing. Serenella Corbetta: Nel settembre scorso, l’INAIL è stata sollecitata da una richiesta di indennizzo per una lavoratrice caduta dalle scale, mentre effettuava una telefonata di lavoro e svolgeva la sua attività in modalità agile. Alcuni chiarimenti sull’infortunio in smartworking si ricavano dalla circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017, dove è precisato che il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio proprio dell’attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni del profilo professionale del lavoratore.

E’ necessario ricordare che l’art. 22 della Legge 81/2017- attuale normativa sul lavoro agile – prevede espressamente che il datore di lavoro garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori che svolgono l’attività in modalità agile.

Anche in questo caso riteniamo importante, da un lato una check list redatta secondo i suggerimenti che abbiamo prima elencato e dall’altro disciplinare nell’accordo le modalità e i luoghi dove il lavoratore potrà svolgere l’attività lavorativa, con una adeguata e dettagliata informativa sui rischi.

Diciamo qualcosa anche sullo stress lavoro correlato nello smart working. Spesso si è parla di tecnostress e di diritto alla disconnessione. Sono temi che avete affrontato anche nelle linee di indirizzo?

Ing. Serenella Corbetta: Certo, il documento da ampio spazio al diritto della disconnessione, ovvero “il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psico- fisiche”.

Il lavoratore agile è particolarmente esposto all’intensificazione dei ritmi (iper connessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero) all’isolamento e alla connotazione labile dei confini tra spazi/tempi lavorativi e non lavorativi, variabili in parte compensati dall’autonomia nella gestione del tempo.

È il Datore di lavoro che deve evitare che il lavoratore agile, che svolge la propria attività lavorativa da remoto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici, sia sottoposto a stress da eccesso di lavoro o tecno stress disciplinando lo speculare “dovere di disconnessione” nel quadro della nuova organizzazione del lavoro.

Veniamo, infine, a un altro importante argomento trattato nelle linee di indirizzo: la formazione. Che tipo di formazione necessita per uno smart worker?

Ing. Serenella Corbetta: La formazione è certamente un elemento cardine per il miglioramento della consapevolezza dei rischi dello smart worker e deve essere finalizzata ad un cambiamento effettivo degli atteggiamenti e dei comportamenti dei lavoratori che devono acquisire la consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei contesti in cui lavorano. La formazione è l’unico strumento a disposizione delle aziende per tutelare i lavoratori agili aumentando le loro conoscenze e competenze in merito alla sicurezza in ambienti completamente diversi dal tradizionale ufficio aziendale ed è fondamentale per l’azienda che non può garantire il continuo monitoraggio dei luoghi di lavoro.

Ricordiamo che nell’informativa INAIL sullo smart workingil lavoratore è tenuto ad adottare un comportamento coscienzioso e prudente, escludendo luoghi che lo esporrebbero a rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici della propria attività svolta in luoghi chiusi”.

La prestazione all’aperto comporta rischi di cui il lavoratore potrebbe non avere la percezione: rischio furto, rapina, aggressione, per citarne alcuni di cui il lavoratore deve essere conscio nella scelta del luogo dove operare la propria prestazione.

Il dipendente ha l’obbligo di osservare le direttive aziendale e collaborare all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte dal Datore di Lavoro utilizzando gli strumenti tecnologici in sua dotazione, in conformità alle policy aziendali, per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali (art. 22 comma 2 lg 81/2017). La violazione degli obblighi di collaborazione, oltre alla rilevanza disciplinare, potrebbe determinare una limitazione di responsabilità in capo al datore di lavoro.

È pertanto implicito nel disposto normativo l’obiettivo di rendere consapevoli e partecipi i lavoratori all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte e solo un valido percorso formativo ad hoc, può permettere il raggiungimento dell’obiettivo.

Parliamo di una riprogettazione del processo formativo dello smart worker, dando certamente spazio alla formazione sui rischi tradizionali, ma pensando anche a percorsi di autoformazione guidati dal Rspp o da formatori qualificati, che declinino diversi momenti di autovalutazione delle proprie condizioni lavorative anche tramite interviste e somministrazioni di check list, training on the job o mentoring.

È necessario poi una grande attenzione ai nuovi contenuti di digital divide, diritto al distacco, problem solving e capacità di gestire il cambiamento. Riteniamo che l’aggiornamento formativo dello smart worker, partendo dal percorso tracciato dall’Accordo Stato Regione del 21/12/2011 che prevede 6 ore nel quinquennio, debba essere declinato con un monte ore annuale, esplicitato nell’accordo individuale con il lavoratore che diviene parte attiva del processo stesso con lavori a progetto che stimolino la capacità di acquisire competenze, riconoscere fonti attendibili, identificare i propri indicatori di perfomance.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Intervista di Tiziano Menduto

Covid e smart working 01: criticità e prospettive future

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Gaetano Fede e all’Ing. Stefano Bergagnin del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.

Non c’è ormai alcun dubbio sul fatto che molte conseguenze sul mondo del lavoro della pandemia siano ormai quasi irreversibili, specialmente in termini di innovazione e riorganizzazione lavorativa. Il rischio biologico connesso al COVID-19 ci ha avvicinato ad un nuovo possibile modello lavorativo a distanza che tuttavia necessita di adeguate tutele e di una normativa moderna e adeguata, anche in materia di prevenzione.

Proprio per cercare di ragionare su questi aspetti, aiutare aziende e lavoratori a migliorare la prevenzione e proporre eventuali modifiche normative sono state pubblicate dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI) le “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working”. Un documento – a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo “Smart working e lavori in solitudine” del CNI – che ho pensato fosse utile approfondire attraverso alcune mie interviste pubblicate dal giornale online PuntoSicuro.

Nella prima intervista presentata oggi – pubblicata nell’articolo “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future” – ho posto alcune domande all’Ing. Gaetano Fede (Consigliere CNI e Coordinatore del Gruppo di Lavoro Sicurezza) e all’Ing. Stefano Bergagnin (Gruppo di Lavoro Sicurezza CNI) cercando di comprendere quali possano essere le carenze nella tutela dei lavoratori agili, quali siano i rischi del fraintendimento tra smart working e telelavoro e, specialmente, quali lacune si annidino in una normativa, la Legge n. 81 del 22 maggio 2017 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato“, che, come ricordato nell’articolo, “non sembra essere al passo del cambiamento richiesto dalle conseguenze della pandemia”.

L’intervista vuole comprendere anche cosa è possibile fare per migliorare le tutele dei lavoratori e quali siano gli eventuali vantaggi del lavoro a distanza, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere.

Nelle prossime settimane riporterò sul blog anche una seconda intervista sul lavoro agile con particolare attenzione ad aspetti più operativi, come la formazione dello smart worker e l’analisi e valutazione dei rischi, con riferimento al tecnostress e al confine tra spazio lavorativo e domestico.

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Partiamo dalle motivazioni che hanno portato il CNI a occuparsi di smart working… Quali sono a vostro parere le principali lacune e carenze, normative e culturali, che possono portare a sottovalutare o a non tutelare adeguatamente i rischi dei cosiddetti lavoratori agili?

Ing. Gaetano Fede: C’è da sottolineare innanzitutto che la veloce diffusione del lavoro a distanza a partire dall’inizio del periodo pandemico del COVID19 nel nostro Paese ha colto tutti impreparati considerato che il telelavoro, e soprattutto lo smartworking, in Italia non erano diffusi come in altri Paesi.

Il GdL sicurezza del CNI aveva tuttavia già attivato un GTT (Gruppo Tematico a Tempo) in merito proprio allo smartworking e al lavoro in solitudine, che a volte coincidono, perché ritenemmo, già 2 anni fa, che fosse necessario un approfondimento sui rischi per i lavoratori che svolgono la propria attività secondo tali modalità.

Con il diffondersi della pandemia e l’incremento del lavoro a distanza abbiamo ritenuto ancora più urgente sviluppare il lavoro delle linee di indirizzo con la massima urgenza, in quanto l’unica norma in vigore in merito al lavoro agile è la Legge 81/2017, a nostro avviso non sufficientemente dettagliata per fornire indicazioni su come valutare e gestire i rischi che sono presenti, a volte in modo diverso, anche per chi lavora esternamente alla sede aziendale.

Nelle vostre linee di indirizzo si fa riferimento al “diffuso fraintendimento” tra le diverse modalità del lavoro agile e del telelavoro. Quali sono le differenze tra queste due modalità di lavoro e i rischi di questa confusione?

Ing. Gaetano Fede: Ci sono diversi aspetti in comune tra lavoro agile e telelavoro, ad esempio il fatto che si lavori a distanza, ma vi sono differenze fondamentali che non sono mai state messe in evidenza e di conseguenza quando i “media” trattano il tema del lavoro a distanza, così diffuso in questo periodo, lo indicano semplicemente come smartworking.

Tuttavia non è così, perché vi sono due differenze fondamentali.

In primo luogo l’assoluto vincolo di orario presente nel telelavoro ma non previsto, o previsto soltanto parzialmente, per il lavoro agile. Inoltre il lavoro agile (sostanzialmente coincidente con la definizione smartworking) prevede che vi sia sempre un obiettivo concordato tra lavoratore e azienda (o ente perché è applicato anche nel settore pubblico), aspetto questo che il telelavoro non prevede. Mettere insieme due diverse tipologie di lavoro a distanza rischia pertanto di confondere pericolosamente le acque, anche in relazione ai nuovi rischi che ne possano derivare.

A suo parere nella riorganizzazione lavorativa seguita alla pandemia qual è stata la reale proporzione, nella diffusione del lavoro a distanza, tra le nuove realtà di telelavoro o di lavoro agile?

Ing. Gaetano Fede: Non ci sono ancora dati governativi ufficiali dai quali possiamo attingere.

Al momento sui quotidiani si parla di circa 6 milioni di lavoratori a distanza (qualcuno continua a dire in smartworking e, come sopra detto, non è corretto), ma abbiamo potuto appurare, avendo rapporti giornalieri con enti pubblici, che in questi ambiti non si tratta quasi mai di lavoro agile ma semplicemente di telelavoro, modalità già presente da anni ma poco utilizzata.

Anche nel privato la condivisione di obiettivi tra lavoratori e azienda non viene spesso definita e ufficializzata. Senza dubbio la percentuale di lavoratori agili tra gli attuali 6 milioni è decisamente minoritaria.

Parlando di prevenzione il lavoro in smart working e in telelavoro hanno indubbiamente anche dei vantaggi rispetto al lavoro svolto nei classici ambienti lavorativi, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere. Ci sono dati a questo proposito? Qual è il suo parere sulla diffusione del lavoro a distanza anche successivamente all’emergenza?

Ing. Gaetano Fede: I dati INAIL del 2020 non sono ancora ufficiali e pertanto non possiamo sapere se effettivamente gli infortuni in itinere sono diminuiti, ma ci aspettiamo sicuramente che la riduzione sia stata significativa. A tal proposito evidenziamo anche un minore impatto ambientale (diminuzione dell’inquinamento atmosferico) legato senza dubbio al lockdown scaturente dalla pandemia; tutti abbiamo notato negli ultimi 15 mesi un’aria più pulita e una maggiore visibilità! Se riducessimo gli spostamenti per un numero importante di lavoratori a distanza, sicuramente tale situazione sarebbe comunque costante nel tempo.

Il lavoro a distanza sarà certamente predominante nel prossimo futuro, come già prevedono le modalità di importanti aziende multinazionali, che lo alternano con giornate in presenza; solo così saranno più facilmente raggiungibili gli obiettivi condivisi e saranno più gestibili i rischi, sia in merito agli aspetti propriamente tecnici, sia per gli aspetti collegabili alle delicate tematiche della “socialità” e dello “stress lavoro correlato”.

Le linee di indirizzo sottolineano che la Legge n. 81/2017, benché relativamente recente, risente di “un approccio di vecchio stampo”. Quali sono a suo parere gli aspetti su cui il legislatore dovrebbe intervenire per rendere la norma più efficace?

Ing. Stefano Bergagnin: L’abbiamo definita “vecchio stampo” semplicemente perché riprende il principio risalente al primo recepimento con il D.Lgs. 626/94 della direttiva quadro europea sulla sicurezza, la 89/391/CEE, che prevedeva praticamente buona parte della responsabilità sulla valutazione dei rischi a carico del “datore di lavoro”. In merito al lavoro agile siamo decisamente ancora in queste condizioni, quando invece l’approccio dovrebbe essere diverso, anche per ragioni pratiche.

Facciamo un esempio: come può un datore di lavoro (anche se con la collaborazione del RSPP) effettuare una completa e approfondita valutazione dei rischi per il lavoratore che magari opera da casa sua? Non è senza dubbio sufficiente l’informativa di cui parla la Legge 81/2017; non è possibile effettuare una buona valutazione dei rischi basandosi semplicemente su un’informativa annuale come prevede la nostra norma. All’estero, in alcuni casi, la collaborazione del lavoratore stesso, tramite la trasmissione di dati specifici utili alla redazione del documento in merito alla valutazione dei rischi, è obbligatoria.

Il mondo sta cambiando repentinamente, la sede di lavoro non sarà più per molti la sede aziendale, c’è bisogno di un nuovo paradigma, di una maggiore collaborazione tra le parti per il bene, in primo luogo, del lavoratore.

Qual è il suo parere su quello che si è fatto, in questa fase di emergenza, per favorire, insieme alla diffusione del lavoro a distanza, anche un’adeguata tutela? Si poteva fare di più?

Ing. Stefano Bergagnin: E’ difficile dare un giudizio in merito: c’è chi ha agito bene e chi ha sottovalutato le possibili conseguenze. In alcuni grandi gruppi industriali c’è stata senza dubbio una collaborazione tra aziende e sindacati, si sono definiti obiettivi, condizioni di lavoro, approfondimenti e la conseguenza è stata la focalizzazione di problemi specifici che possono condizionare il lavoro a distanza.

Parallelamente, soprattutto nel pubblico e nelle aziende di piccole dimensioni, il problema non è stato affrontato, la condivisione tra azienda/ente e lavoratori è stata minima soprattutto in relazione all’improvviso diffondersi della pandemia e del necessario spostamento a distanza del lavoratore, senza neppure trattarne le conseguenze e, addirittura, confondendo e/o sovrapponendo telelavoro e smartworking.

Sono previsti, come è stato per le linee di indirizzo per gli spazi confinati, futuri aggiornamenti? Quali sono i prossimi progetti su cui lavorerà il CNI in materia di smart working?

Ing. Stefano Bergagnin: Senza dubbio ci sarà un futuro aggiornamento perché siamo in piena evoluzione. Ci aspettiamo in primo luogo un aggiornamento della normativa e un approfondimento da parte del legislatore ma nel frattempo noi del GdL e dello specifico GTT sullo smartworking continueremo a studiare l’evoluzione tecnologica legata al lavoro agile e la gestione dei rischi ad esso collegati. Non è escluso un sondaggio, tra i nostri iscritti esperti nel settore, al fine di raccogliere importanti e dettagliati contributi/criticità dai vari territori del nostro Paese.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Intervista di Tiziano Menduto

Spazi confinati 03: un nuovo strumento per la prevenzione

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una intervista, realizzata nel 2019, presenta le linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri.

Come ricordato nel “Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ai sensi dell’art. 3 comma 3 del d.p.r. 177/2011” e nelle schede informative pubblicate dal sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi INFOR.MO., gli ambienti confinati possono presentare diversi rischi per la salute e la sicurezza.

Ad esempio:

  • asfissia per carenza di ossigeno;
  • intossicazione per esposizione ad agenti chimici pericolosi;
  • esposizione ad agenti biologici;
  • caduta dall’alto dell’infortunato;
  • contatto con organi lavoratori in movimento;
  • scivolamento dovuti alla difficoltà di accesso/uscita, alla carenza/assenza di illuminazione naturale, alla presenza di tubazioni/cavi/materiali o di fondo vischioso/scivoloso;
  • seppellimento per caduta di polverulenti dall’alto;
  • ustione/congelamento per esposizione a sostanze corrosive, a temperature elevate o molto basse;
  • annegamento in presenza di melma/fanghi o variazioni improvvise di livello di altri fluidi;
  • folgorazione per presenza di connessioni elettriche.

E analizzando gli infortuni mortali in ambienti confinati si rileva che i fattori di rischio più frequenti sono gli errori nelle modalità operative, la mancata fornitura o il non utilizzo dei DPI necessari e le carenze strutturali e organizzative degli ambienti lavorativi.

Proprio a partire dagli elevati rischi per i lavoratori di questi ambienti ho pensato di dedicare il terzo post sugli spazi confinati ad alcuni interessanti strumenti che possono favorire la prevenzione.

Sto parlando delle linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri (CNI) dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati o a rischio di inquinamento”, di cui presento una breve intervista sulla prima versione ufficiale (sono già stati pubblicati alcuni aggiornamenti). Intervista all’Ing. Stefano Bergagnin (Ordine Ingegneri di Ferrara – componente del gruppo di lavoro Sicurezza del CNI e coordinatore del gruppo tematico temporaneo sui lavori in ambienti confinati) e all’Ing. Adriano Paolo Bacchetta (esperto in materia di spazi confinati e fondatore e coordinatore del sito www.spazioconfinato.it).

L’intervista è stata realizzata, per il  giornale online PuntoSicuro, durante la manifestazione “Ambiente Lavoro” che si è tenuta a Bolognadal 15 al 17 ottobre 2019 dove i due ingegneri erano relatori al convegno “Ambienti confinati: stato dell’arte e proposte del CNI per la gestione del rischio specifico”, organizzato dall’Ordine Ingegneri di Bologna con il patrocinio del CNI.

In particolare l’intervista, di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, è stata pubblicata nell’articolo “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Nelle prossime settimane continuerà la pubblicazione di altri post e contributi sul tema.

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Gli spazi confinati e le carenze normative

Nella presentazione del documento si sottolinea che in materia di ambienti confinati e a rischio di inquinamento a tutt’oggi gli strumenti di gestione ancora non sono sufficienti, immagino che queste linee di indirizzo vogliano affrontare questa carenza…

Stefano Bergagnin: Si, questo è proprio L’obiettivo della pubblicazione e il titolo “linee di indirizzo” è finalizzato a questo scopo, cioè vuole fornire a tutti i tecnici – ma non solo tecnici, ovviamente anche ai datori di lavoro, ai committenti, ai coordinatori per la sicurezza e anche alle imprese, le imprese che svolgono questo tipo di interventi – degli strumenti per gestire, auspichiamo correttamente, quello che è un rischio che purtroppo rimane ancora molto di attualità perché gli infortuni non calano e questo è forse dovuto anche (…) a una carenza normativa. Perché effettivamente tutti gli aspetti tecnici che sono assolutamente necessari per un rischio di una gravità così importante dovrebbero essere disponibili.

Noi abbiamo cercato di fornire più strumenti possibili e tra l’altro questa è anche una linea di indirizzo molto corposa, il contributo dei tecnici del gruppo di lavoro è stato veramente molto interessante, a cominciare proprio da quello di Adriano che è uno dei maggiori esperti e ha fornito sicuramente strumenti utili.

Noi ci siamo spinti con il documento soprattutto su alcuni aspetti che, a nostro avviso, erano carenti, perché poco approfonditi nella normativa.

Addirittura, se parliamo della formazione, era previsto un accordo Stato-Regioni che non è mai uscito. Quindi abbiamo cercato di fornire strumenti anche in questo senso.

Tra le altre cose (…) c’è anche una app importante che abbiamo messo in allegato e che è la prima app – ne usciranno probabilmente anche delle altre – ed è interessante soprattutto per l’identificazione degli spazi confinati ed è stata presentata a cura di Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, con tanti altri contributi. (…)

So che l’ing. Bacchetta si è occupato spesso della normativa in materia di ambienti confinati e/o sospetti d’inquinamento. Cosa possiamo dire della normativa che c’è e di quella che ancora manca? Quali sono le criticità?

Adriano Paolo Bacchetta: “Diciamo che la normativa che c’è è come se non ci fosse – io lo dico dal 2011 – fondamentalmente quello che abbiamo è frutto di una necessità immediata per dare risposta agli incidenti a cavallo del 2009-2010 (depuratore di Mineo, Truck Center e altri) che però non ha risposto alle esigenze. Anzi ha creato una serie di complicazioni e una serie di adempimenti meramente burocratici che, personalmente, io valuto poco idonei ad una risposta funzionale.

Questo capita quando si lasciano campi assolutamente non definiti, interpretativi.

Basti pensare (…) a quelli che prima erano degli ambienti che dovevano essere controllati per rischio di inquinamento e sono diventati a sospetto di inquinamento DPR 177/2011, ad esempio le gallerie. Ma ci immaginiamo una galleria, il traforo o la variante di valico? Come lo classifichiamo? Teoricamente andrebbe messo lì, ma è sbagliato. Poi ci sono gli ambienti dove può esserci il rischio di gas deleteri: qualsiasi stabilimento industriale dove fisicamente c’è una fumana che esce da una macchina potrebbe a ragione essere valutato come un ambiente dove può essere applicato il  decreto 177/2011. Una follia.

E questo oltre agli errori nei riferimenti (…), basti pensare che il titolo stesso del decreto è “ambienti confinanti”. Quindi in realtà, almeno gli errori formali potevano metterli a posto.

E poi c’è quella veramente vergognosa mancanza della definizione dei requisiti degli aspetti formativi (…). Ad oggi c’è in giro di tutto, tutti fanno tutto, (…) e dopodiché anche il Ministro l’altro giorno ha detto che è “importante la formazione”. Siamo d’accordo ma ad oggi non esiste una specifica di chi può farla, quanto deve durare, quali sono gli argomenti.

Quindi inutile parlare di formazione quando nel caso specifico degli ambienti confinati non c’è neanche la definizione. (…)

Stefano Bergagnin: Mi ha interessato moltissimo quanto ha detto Adriano, proprio nell’ultima parte del suo intervento.

L’aspetto formazione noi lo abbiamo approfondito, proprio anche nelle linee di indirizzo, indicando con la maggior precisione possibile anche i contenuti.

Ovviamente non potevamo sbilanciarsi sulle ore necessarie, … Però almeno abbiamo dato una definizione molto precisa dei contenuti minimi che devono essere affrontati proprio in questo ambito.

Il riconoscimento degli ambienti confinati e il ruolo degli operatori

Come avete affrontato il tema del riconoscimento degli spazi confinati nei luoghi di lavoro…

Stefano Bergagnin: Forse uno dei paragrafi più importanti è proprio quello sulla definizione. È un paragrafo corposo perché dare una definizione di spazio confinato non è semplice. Non è semplice perché anche le norme internazionali danno definizioni che sono un po’ diverse. C’è sì una certa omogeneità che abbiamo cercato di individuare, ma non è assolutamente semplice.

Noi più che altro abbiamo voluto allargare quello che è lo spazio di indirizzo, cioè capire quali potrebbero essere gli ambiti che senza dubbio potrebbero diventare o sono uno spazio confinato o a rischio d’inquinamento.

C’è anche un elenco, dentro le linee di indirizzo, di esempi di situazioni che potrebbero essere sicuramente definibili come spazi confinati. Abbiamo anche chiarito alcuni aspetti, tra questi anche il discorso “gallerie” che ha una sua normativa e che non riteniamo debba entrare in quest’ambito. O il discorso delle stive, le stive nei porti, … Anche lì c’è una normativa particolare. Abbiamo comunque dato indicazione che a volte quella che è la valutazione del rischio potrebbe trarre strumenti utili da una linea di indirizzo come la nostra, ma siamo in un ambito diverso e questo l’abbiamo specificato.

Poi ci sono strumenti che potrebbero servire, come l’app che citavo prima, anche soltanto per capire se l’intervento che viene organizzato con un’impresa appaltatrice, in una sede aziendale o anche in un cantiere, sia classificabile o meno.

L’app è utilissima ma visto che le app comunque compariranno sul mercato anche nel settore della sicurezza e della salute, bisogna fare molta attenzione. Perché questa è una app (…) che è stata fatta appunto da Alma Mater con il contributo, tra l’altro, dell’INAIL regionale, con il consenso dell’ASL della nostra regione. E questo è importante perché offre la garanzia che queste siano delle app con un livello di qualità elevato. (…)

Mi pare che nelle linee di indirizzo abbiate anche parlato del datore di lavoro committente e del rappresentante del datore di lavoro committente… Cosa si è detto nel vostro documento riguardo ai ruoli dei vari attori della sicurezza?

Stefano Bergagnin: Noi innanzitutto abbiamo evidenziato (…) che tra i soggetti destinatari delle linee di indirizzo ci sono gli RSPP/ASPP, ci sono i datori di lavoro committenti, ci sono i datori di lavoro delle imprese appaltatrici, delle imprese esecutrici di certi lavori. E abbiamo anche chiarito un dubbio che (…) era quello relativo appunto all’applicabilità della norma anche quando non c’è un contratto d’appalto; cioè quando i lavori in spazi confinati li fanno direttamente i dipendenti. La norma è applicabile anche lì. Ci sono anche dei passaggi – mi pare che fosse una circolare importante che abbiamo citato anche nel testo – in cui è stato chiarito che anche all’interno di un’azienda, se c’è questa tipologia di lavori, bisogna garantire le stesse misure di sicurezza che vengono previste negli altri casi (…). È quindi fondamentale che anche questo chiarimento ci sia e lo abbiamo inserito nelle linee di indirizzo. 

Il ruolo del medico competente e il DPR 177/2011

Veniamo a soffermarci su un tema che affronterà nel convegno Adriano Paolo Bacchetta, quello dei medici competenti. Quale ritiene sia il ruolo del Medico Competente nell’applicazione del DPR 177/2011?

Adriano Paolo Bacchetta: Partiamo dal presupposto che non siamo certamente noi (…) a dettare il passo ad un’altra categoria professionale importante come i medici. Quindi non siamo noi a dire cosa devono fare, però noi possiamo dire cosa auspichiamo di avere come supporto.

E certamente quello del medico competente, nel caso specifico delle attività in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, è un ruolo importante. (…)

Ad esempio c’è il problema della definizione di quali sono le attività del FOP, del First on Place ovvero sia del primo soccorritore, che deve intervenire su un soggetto che ha avuto un malore, un infortunio, qualcosa all’interno dell’ambiente confinato. Si parla di un operatore laico, quindi sostanzialmente né un sanitario, né un parasanitario; fondamentalmente un soggetto che ha una formazione che non va oltre, al momento, a quella prevista dal decreto 388 … (…). In realtà, a oggi, il medico competente o il laureato in medicina che viene contattato per fare il corso ai lavoratori fa il corso e poi queste persone devono intervenire su un collega, piuttosto che un dipendente dell’impresa appaltatrice nell’ambiente confinato. Però lì, obiettivamente, se non c’è il medico che dà delle indicazioni puntuali non può essere certamente il tecnico a definire la modalità operativa, i sistemi di immobilizzazione o quant’altro necessario. (…)

No, l’intervento di soccorso va studiato e chiaramente. C’è il tecnico che si occuperà delle progressioni su fune, di definire le strutture, gli apprestamenti, tutto quello che è necessario; ma poi serve comunque la controparte medica che dica “quando sei lì ti devi comportare in un certo modo”. È questo è il primo problema. Poi ce ne sono altri…

Nel documento sono proposti anche degli strumenti per i medici competenti?

Adriano Paolo Bacchetta: Qua la cosa si fa un pelo più complessa, perché in realtà io sono stato autore, Insieme ad altri esperti, tra l’altro della Fondazione Maugeri di Pavia, (…) di un articolo dove abbiamo proposto un profilo sanitario per gli addetti negli spazi confinati.

Al momento stiamo cercando di trovare ancora l’applicazione e non mi risulta che esista un profilo, ad esempio, per la definizione dell’idoneità sanitaria. Quando l’articolo 66 del decreto 81/2008 in fondo mi dice che lo spazio deve avere un’apertura sufficientemente larga da poter estrarre un lavoratore privo di sensi – quindi sostituendo la originale indicazione del DPR 547 che dava il 30 x 40 ellittico o il diametro 40 come dimensione – di fatto mi dice tutto e non mi dice niente. L’unica cosa certa è che un soggetto di 140 kg, che ha una circonferenza di 1,60 metri, non può essere idoneo a lavorare in ambiente confinato se il punto d’accesso è un punto 30 x 40.

Quindi quando il medico dice che l’addetto è idoneo a lavorare in ambienti confinati, lui deve sapere esattamente quali sono questi ambienti e qual è la modalità d’accesso e uscita. Perché se a lui non viene detto che, ad esempio, gli addetti devono entrare nelle attrezzature a pressione attraverso un passaggio ellittico da 30 x 40, magari si vede davanti un tipo Schwarzenegger e obiettivamente dice che è idoneo agli spazi confinati. Ma da un punto di vista antropometrico, no, perché non ci può entrare e se poi devo tirarlo fuori senza problemi… Poi sarà compito del datore di lavoro andare a spiegare all’organo di vigilanza come ha fatto a rendere idoneo un addetto e dichiarare implicitamente, nel momento in cui accetta che lui entri, che lo poteva tirare fuori quando era inerme.

La situazione è molto complessa e quindi il medico, da quel punto di vista, deve adottare un protocollo che al momento non c’è.  L’unica pubblicazione che c’è è quella che abbiamo fatto noi nel 2015. Ora aspettiamo…

La gestione delle emergenze negli spazi confinati

A proposito di emergenze mi pare che quest’anno si sia parlato di soccorso ad Ambiente Lavoro anche in un convegno nazionale sul soccorso industriale…

Adriano Paolo Bacchetta: Questa del convegno è una logica evoluzione – sia di spazioconfinato.it sia di tutto quello che è stato fatto negli anni – che di fatto tiene conto di una necessità. A oggi per alcuni interventi (…) le aziende che non ritengono di avere del personale adeguatamente preparato formato o equipaggiato per poter fare interventi di soccorso utilizzano tipicamente dei professionisti, a tutti gli effetti, che svolgono il ruolo di soccorritori industriali. (…) Il problema è che, anche in questo caso, manca una specifica regolamentazione dei requisiti e qualificazioni (…) e noi gettiamo le basi ufficialmente (…) per cominciare a definire anche in Italia quella che può essere una ipotesi di profilo professionale del soccorritore industriale. Ma questo non basta, (…) l’associazione si sta muovendo per definire dei protocolli di formazione aggiuntiva a quella obbligatoria di legge per queste persone che normalmente fanno gli addetti di linea e quando suona la sirena automaticamente scattano e diventano vigili del fuoco e soccorritori sanitari.(…)

Cosa si dice nel documento del CNI riguardo alla gestione delle emergenze?

Stefano Bergagnin: Ci tenevo a rendere evidente che anche nel documento forse il paragrafo “Gestione delle emergenze” è quello più fitto, perché secondo noi è importantissimo. Soprattutto su questo tema la normativa è veramente carente perché non specifica addirittura le diverse tipologie di emergenza che, invece, sono note da decenni anche dalle norme internazionali. Noi le abbiamo riprese, (…) noi le abbiamo confermate, le abbiamo specificate meglio e a mio avviso, questo è un parere personale, questo è uno dei paragrafi che sarà più utile proprio come linea di indirizzo.

Adriano Paolo Bacchetta: Rispetto a tutto quello che abbiamo detto, c’è una cosa importante che dico a tutti. Chiunque si approccia a questo tema deve dimenticarsi di pensare di avere il software, l’app o cose del genere per cui uno che non ne sa niente, che non è cultore della materia, non ha esperienza della materia, comprando il software risolve i problemi. (…)

Gli ambienti confinati sono ambienti dove la professionalizzazione delle persone che progettano gli interventi e in particolar modo gli interventi di soccorso deve essere adeguata. Quindi da un punto di vista pratico invito ad acculturarsi, a leggere, studiare, venire ai convegni, fare comunque tutto quello che è necessario per evitare di fare documenti replica. E io ne vedo un quintale di roba fotocopiata, tagliuzzata, presa da internet e cose del genere. Quindi con sostanziale evidenza della mancanza totale di cultura e di conoscenza. (…)

(…)

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Problemi normativi 03: interferenze, DUVRI e PSC

Per ricordare come le nostre leggi in materia di sicurezza sul lavoro a volte non solo siano complicate da un punto di vista lessicale, ma contengano veri e propri aspetti oscuri, che lasciano troppo spazio all’interpretazione e all’arbitraria applicazione, pubblico oggi un’intervista, realizzata per PuntoSicuro, su un tema delicato: la gestione delle interferenze nei luoghi di lavoro.

Come devono essere gestite? Con quali documenti? Con il Documento unico per la valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI) e/o il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC)?

Che non ci sia chiarezza nella norma e convergenza nelle opinioni degli operatori ho potuto rendermene conto partecipando – come conduttore della Tavola Rotonda finale – al workshop “Articolo 26 e titolo IV del D.Lgs 81/08 a confronto nella gestione degli appalti” organizzato il 14 luglio 2016 a Modena, nell’ambito del progetto “A Modena la sicurezza sul lavoro, in pratica”. Un workshop cui si affrontava proprio il tema della gestione di appalti e interferenze con riferimento alla normativa e alla stesura di DUVRI e PSC.

Benché si volesse fare chiarezza su questi temi, si sono evidenziate durante il workshop alcune differenze interpretative della normativa. Differenze che mostrano come questo tema necessiti di ulteriori approfondimenti o, secondo alcuni relatori al workshop, di futuri interventi interpretativi/normativi che individuino, senza ombre o dubbi, ambiti e soluzioni idonee da utilizzare per gestire le interferenze. Intervento normativo che, a distanza di un anno, non è ancora avvenuto.

E proprio per cercare di fare chiarezza su questi temi ho intervistato, per PuntoSicuro,  Fabrizio Lovato, presidente di Federcoordinatori, un sindacato dei coordinatori per la sicurezza del lavoro che era rappresentato a Modena da un consigliere nazionale del sindacato (Nicola Nicolini).

Nell’articolo apparso su PuntoSicuro, dal titolo “Gestione delle interferenze: quando elaborare il DUVRI e il PSC?”, riporto anche alcune utili tratte dal documento Inail “L’elaborazione del DUVRI – Valutazione dei rischi da interferenze”, curato da Raffaele Sabatino con la collaborazione di Andrea Cordisco.

Il documento, che vuole chiarire la differenza esistente tra il DUVRI e il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) e sulle eventuali problematiche che possono insorgere da “un’eventuale sovrapposizione dei due documenti”, indica che:

– “il PSC si applica esclusivamente ai lavori edili e di genio civile nei quali sia prevista la presenza, anche non contemporanea, di più Imprese esecutrici. Il DUVRI e il PSC non sono quindi, assolutamente, lo stesso documento; essi, pur riferendosi ad aspetti analoghi afferenti alla sicurezza sul luogo di lavoro sono riferiti, il primo, a qualsiasi ambiente di lavoro, mentre il secondo, esclusivamente al cantiere edile”;

– in alcuni casi “la stesura del PSC esonera da quella del DUVRI, pur tuttavia occorre precisare che anche nel cantiere edile, il PSC non sempre costituisce il documento unico per la pianificazione della sicurezza, dovendo essere comunque necessaria l’elaborazione del DUVRI. Esistono infatti molti casi in cui i documenti vanno redatti entrambi, occupandosi ciascuno della prevenzione e protezione dai rischi da interferenze nel cantiere”.

Veniamo ora all’articolo di PuntoSicuro e alla parte  relativa all’intervista a Fabrizio Lovato.

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto


 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Sappiamo che il DUVRI e il PSC sono documenti differenti che operano in contesti diversi. Secondo la sua esperienza di coordinatore ci sono dubbi sul fatto che un’attività possa o meno essere considerata un lavoro edile e di ingegneria civile con applicazione del Titolo IV del D.Lgs. 81/2008?

 Fabrizio Lovato: “No, nessun dubbio, la norma quando definisce un cantiere è chiara. È un cantiere temporaneo o mobile qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile”.

 Nel workshop si è parlato di DUVRI e PSC ricordando quando è necessario elaborare un documento o l’altro. Tuttavia ci sono casi in cui i due documenti potrebbero essere compresenti e, in qualche modo, sovrapporsi… In quali casi può succedere? E questa sovrapposizione è un errore normativo o ha una qualche effettiva funzione di prevenzione dei rischi?

FL: “È possibile che in determinate situazioni, si abbia la compresenza (non sovrapposizione) di entrambe i documenti: DUVRI e PSC. Basti pensare a lavori relativi ad interventi di manutenzione edile da eseguirsi all’interno di una struttura industriale che deve comunque continuare ad essere operativa. Per gestire la sicurezza all’interno del cantiere verrà elaborato il PSC mentre per gestire e coordinare la sicurezza tra l’azienda e il cantiere (il cantiere, non le singole aziende) verrà elaborato il DUVRI.

In nessun modo comunque i due documenti potranno essere sovrapposti in quanto il DUVRI è il documento iniziale che il Coordinatore tiene in considerazione mentre sta elaborando il PSC, e gli fornisce informazioni in merito allo stato dei luoghi e ai rischi presenti in cui il cantiere si dovrà insediare. Mentre nella fase esecutiva è lo strumento che consente al CSE il dialogo con il datore di lavoro committente ospitante. I due documenti non sono dunque sovrapponibili quanto piuttosto complementari!”.

 Per chiarire le cose faccio riferimento ad un esempio riportato nell’articolo “ Gestione delle interferenze: normativa, dubbi e difficoltà delle imprese”, uscito su PuntoSicuro il 14 settembre scorso. Nell’articolo, riportando il contenuto di una relazione, si indica, ad esempio, che “quando il cantiere è ubicato presso una ditta che svolge l’attività lavorativa anche durante le opere del cantiere stesso, si ritiene che il PSC debba prendere in considerazione anche questo tipo di interazione rendendo, di fatto, inutile il DUVRI (il documento di valutazione dei rischi da interferenza che il datore di lavoro committente è tenuto a redigere in tutti gli altri casi di interferenza con altre attività). In questo caso, quindi, sarà il Coordinatore per la Progettazione che dovrà tenerne conto in fase di redazione del PSC, sarà quello incaricato della Esecuzione a verificare nel tempo, durante lo svolgimento dei lavori, che il piano venga rispettato, che sia adeguato all´effettiva situazione di rischio, che tutte le ditte presenti (e che influiscono sul cantiere) siano rispettose del piano stesso”.

Tuttavia l’esempio riportato a mio parere è fuorviante in quanto caso “limite”, ossia l’unica attività interferente nella mia azienda è il cantiere … possibile, ma improbabile. Mi domando: l’azienda dell’esempio, non ha fornitori, manutentori o ospiti per la normale gestione della sua attività? Non ha imprese di pulizie, o aziende che fanno manutenzione agli impianti fissi (elettrico o idraulico), o il gestore del distributore delle bevande?

Riporto anche alcune indicazioni tratte da una Linea guida INAIL:

– “Il DUVRI è redatto dal DLC, e non dalle Imprese o lavoratori autonomi, affidatarie del/dei contratto/i d’appalto, d’opera o di somministrazione (o “ordini d’acquisto” utilizzati per aggirare l’indicazione normativa, nda); questi ultimi dovranno in ogni caso cooperare onde permettere al DLC di evidenziare tutti i possibili rischi da interferenza e fornendo tutti i documenti attestanti l’idoneità tecnico professionale richiesti dall’art. 26;

– Il DUVRI deve essere redatto o aggiornato ogniqualvolta siano posti in essere dei contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione, anche non formalizzati, che implichino la presenza di Imprese operanti all’interno dell’Azienda, anche se non si ravvisano particolari rischi da interferenza: in questo caso il documento dovrà evidenziare l’assenza di rischio (contratto cosiddetto non rischioso);

– Il DUVRI è un documento UNICO per tutti gli appalti e per questo DINAMICO, in quanto deve essere aggiornato in caso si ravvisino nuovi rischi da interferenza, all’ingresso di nuove Imprese, ove si presentino variazioni nella struttura e nella tecnologia delle varie Imprese, in caso di acquisto ed utilizzo di nuove attrezzature da parte dell’Azienda, ecc.”.

Come dicevo: è improbabile che l’esempio portato corrisponda alla realtà, e quindi se la gestione della prevenzione è vera, TUTTE le aziende hanno la necessità di gestire le interferenze. Certo il risultato di questa attività (il DUVRI) sarà piccolo o grande in relazione alla complessità della valutazione, ma la sua esistenza a mio giudizio è indubbia.  Come è indubbio che tale documento diventi un documento d’ingresso del PSC che ad esso dovrà dedicare una parte specifica che riguarda il fondamentale scambio d’informazioni tra il datore di lavoro committente (con il DUVRI) e il coordinatore prima in progetto (con il PSC) e poi durante l’esecuzione per gli aggiornamenti.

 Nel workshop modenese sono state sollevate infatti alcune perplessità riguardo alla possibile compresenza/sovrapposizione tra i due documenti. Lei cosa ne pensa? Dietro queste differenze di opinioni c’è una diversa interpretazione della normativa? Qual è la corretta lettura del secondo comma dell’articolo 96 del TU, comma che qualcuno potrebbe leggere come esonero dal DUVRI tutte le volte in cui esiste un PSC?

FL: “Ribadisco che i documenti non sono sovrapponibili in quanto ognuno ha la propria area di azione.

Nello specifico l’art. 96 (e siamo in Titolo IV – cantieri temporanei o mobili) vuole chiarire i confini di operatività dell’uno e dell’altro documento. Se stiamo parlando di Cantiere avremo il PSC e i POS come documenti di riferimento, ed è con le loro regole che ci si ‘parla’ all’interno del cantiere, non con il DUVRI. Se parliamo dell’esempio precedente (intervento edile all’interno di un sito industriale), in questo caso avremo il DUVRI (azienda-cantiere) quale documento di riferimento che interesserà le attività e le aree esterne al cantiere, ma limitrofe a questo e che possono avere un’interazione con esso”.

Accade spesso nei cantieri in cui lavorate che si debbano elaborare due diversi documenti, il DUVRI e il PSC? E laddove siano necessari entrambi ma, ad esempio, manca il DUVRI, cosa fa un coordinatore?

FL: “Sovente, e soprattutto in caso di ristrutturazioni o ampliamenti industriali e condominiali (quando c’è la presenza del custode dipendente), capita di avere entrambi i documenti.

Il DUVRI per il coordinatore è il documento iniziale che prende in considerazione per l’elaborazione del PSC e nel caso in cui non sia presente lo richiede al datore di lavoro committente”.

 All’opposto nel caso di mere forniture di materiale ed attrezzature potrebbe non necessitare né DUVRI né POS. Anche in questo caso lei ritiene che sia corretto o siamo di fronte a una lacuna normativa? E come può essere garantita, in questo caso, una informazione reciproca sulle possibili interferenze? 

FL: “La normativa non può (e non deve) regolamentare tutto, ma deve fissare i principi. Laddove non vi sia una norma specifica per la gestione in sicurezza di un’attività, quale può essere per esempio la fornitura di materiale in cantiere o la realizzazione delle campionature, il Coordinatore avendo chiari i principi di prevenzione può definire una, o più procedure che le imprese e i fornitori dovranno rispettare”.

 Lasciamo da parte la norma e torniamo alle vostre esperienze. In alcuni commenti sul nostro giornale si indica che il DUVRI passa “sopra la testa” degli interessati, è un “monumento di carta” del tutto inutile, volto solo a cercare di ridurre le responsabilità aziendali. Cosa potrebbe rendere questo monumento meno formale e più effettivo ed efficace?

 FL: “Anzitutto occorre distinguere l’attività di ‘valutazione dei rischi interferenti’ dalla redazione del ‘Documento di valutazione dei rischi interferenti’. Nella prima viene fatta la valutazione dei rischi ma non viene registrata da nessuna parte. Ciò non significa che il datore di lavoro non abbia adottato misure di sicurezza tali per i cui i lavoratori non risultino tutelati.

Nel secondo caso viene elaborato un documento che riporti la valutazione dei rischi interferenti con indicate tutte le misure di sicurezza da attuare ma ciò non implica che il datore di lavoro li abbia valutati o che attui quanto indicato.

Il fatto di produrre un ‘monumento di carta’, o un documento fine a se stesso, serve a dimostrare agli organismi di vigilanza che tale attività è stata effettuata. Se ci limitassimo a fare vedere il nostro buon operato, le modalità operative, gli apprestamenti messi a disposizione ma non presentassimo alcun documento scritto tutta la nostra ‘buona condotta’ non verrebbe presa in considerazione e non ci salverebbe da una sanzione.

La cultura della sicurezza deve essere le fondamenta del ‘monumento’ che ogni datore di lavoro deve predisporre e realizzare”.

So che lei ha partecipato, come esperto, alla stesura dei nuovi modelli standardizzati/semplificati di POS/PSC e PSS. Non si è pensato a modelli standardizzati/semplificati di DUVRI?

 FL: “C’è da dire che a differenza del PSC, POS e PSS per i quali l’All. XV del D.Lgs. 81/2008 e smi ne definisce i contenuti minimi, per il DUVRI non vi è questa precisazione.

Diversi enti, tra cui ricordiamo Regione Lombardia e Inail, hanno elaborato delle linee guida relative la redazione del DUVRI lasciando comunque al datore di lavoro committente la possibilità di elaborare il documento come meglio riteneva.

In fine, ma come si dice non per ultimo, dobbiamo ricordare che l’art.26 per la parte relativa al DUVRI è stata ‘semplificata’ dall’art. 32 del DL n.69 del 21.06.2013 recante ‘disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia’, infatti per i lavori a basso rischio in sostituzione del DUVRI è stata introdotta la figura dell’incaricato che però deve essere in possesso di formazione aggiornata, di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, di esperienza e competenza professionale, adeguata e specifica in relazione all’incarico … un genio ! Che però per dare evidenza di assolvimento dell’incarico al suo datore di lavoro … dovrà redigere un DUVRI! E se non lo fa spontaneamente glielo chiederà il datore di lavoro al fine di verificare il suo operato … perché nel nostro paese (di apparenze) i fatti non sono sufficienti, ci voglio i documenti a provarlo”.

Concludiamo infine con qualche considerazione. Qual è l’attenzione, nelle aziende e tra i committenti, per adempimenti come DUVRI e PSC?  I documenti vengono realizzati solo quando è un obbligo di legge o anche quando è necessario?

FL: “Capita, talvolta, che i datori di lavoro/committenti non siano a conoscenza degli obblighi di predisposizione del DUVRI e del PSC, non per disinteresse nel riguardo del tema sicurezza, ma semplicemente per ignoranza nei confronti della materia.

Occorre una maggiore informazione che come Federcoordinatori abbiamo cercato di fornire tramite l’istituzione dello “Sportello del committente” – attività di consulenza specialistica gratuita alla cittadinanza, ma che non ha trovato il supporto delle pubbliche amministrazioni”.

E, infine, ritiene che sia utile un intervento interpretativo/normativo per togliere dubbi in merito a quali documenti elaborare per affrontare il rischio di interferenze?

FL: “No, tutt’altro! Ritengo che il legislatore debba fermarsi e non continuare ad emettere decreti attuativi e di specifica che fanno perdere il riferimento ai principi regolamentari di partenza.

Infine smettiamo di abusare della parola ‘semplificazione’ al fine di una ricerca utopistica della perfezione legislativa, perché: ‘La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere’ (Antoine de Saint-Exupéry).

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011

Torniamo a parlare in questo blog delle criticità e oscurità della nostra normativa sulla tutela della salute e sicurezza in Italia e lo facciamo affrontando alcune differenze interpretative del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un articolo di PuntoSicuro del 7 novembre 2016, con riferimento ad un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”), si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”. E l’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Tuttavia sempre sul quotidiano online PuntoSicuro altri hanno segnalato che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista ho realizzato un’intervista a più voci con domande elaborate anche dai vari intervistati:

– Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza);

– Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza);

– Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia).

Nei giorni scorsi ho presentato la prima parte dell’intervista, pubblicata su PuntoSicuro il 18 gennaio 2017, con le risposte di Massimo Peca, oggi riporto la seconda parte dell’intervista con le risposte di Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini

Anche in questo caso l’intervista è stata pubblicata su PuntoSicuro, con il titolo “Ambienti confinati e DPR 177/2011: si certificano i contratti d’appalto?”.

Buona lettura.

Tiziano Menduto

 


Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto


La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Massimo Peca:

 

  1. Come può incidere la sola verifica della regolarità del rapporto di lavoro, da lei sostenuta, accertata mediante la procedura di certificazione, sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (obiettivo del DPR 177/2011) non considerando l’obbligo previsto dal comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 (DUVRI/PSC/POS/contratto di appalto e tutto quello che ne consegue nel merito dei contenuti) e la valutazione da effettuare, in particolare, dell'”organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio” richiesta dalla circolare 48/2004 del MLPS?

 Carmelo G. Catanoso: Va premesso che per la gestione della sicurezza nei lavori in appalto all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, il datore di lavoro committente è gravato (art. 26 comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008), nei confronti degli appaltatori o dei lavoratori autonomi, dagli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale e di informazione riguardo i rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate. Inoltre, il successivo comma 2 richiede al datore di lavoro committente, agli appaltatori ed ai subappaltatori di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi nonché di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. La cooperazione e il coordinamento devono essere promossi elaborando il DUVRI.

Naturalmente, visto che si sta parlando di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, quanto appena detto dovrà essere specificatamente modellato sulla particolare e pericolosa tipologia di lavori da eseguire attraverso una contestualizzazione “spinta” del DUVRI.

Pertanto, visto che l’art. 26 si applica ai contratti d’appalto di lavori, servizi e forniture ed ai contratti d’opera, appare evidente che, ad esempio, un appalto per l’esecuzione della sostituzione di un galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio, possa ritenersi “coperto” dalla citata norma, sempre che il datore di lavoro committente, gli appaltatori e/o i subappaltatori intendano adempiere concretamente ad essa, tenendo conto delle specificità del lavoro da eseguire.

Quindi, il vero problema non è far certificare un contratto d’appalto ma adempiere concretamente ad obblighi che la legislazione vigente già prevede.

Quindi, un datore di lavoro committente deve scegliere con oculatezza il proprio appaltatore verificando preventivamente l’idoneità tecnico professionale, dove la sussistenza documentata di tutti i requisiti fissati dal D.P.R. n° 177/2011 occupa, visto il lavoro da effettuare, una parte fondamentale, e poi attuare quanto operativamente richiesto dall’art. 26 comma 1, lett. b) e comma 2. Il tutto deve poi essere consolidato all’interno del DUVRI che dovrà prevedere anche quanto previsto all’art. 3 del D.P.R. n° 177/2011 e dovrà essere contestualizzato in funzione della specifica operazione da eseguire nell’ambiente sospetto d’inquinamento o confinato. La contestualizzazione del DUVRI potrà avvenire con il Permesso di Lavoro che se, ben strutturato e concretamente applicato, prevedrà quanto necessario per eseguire i lavori in sicurezza, ivi compresa la gestione di eventuali emergenze.

Analogo discorso se i lavori che espongono i lavoratori al rischio derivante da attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati si debbano svolgere in un cantiere edile o d’ingegneria civile dove, le regole da applicare per il principio di specialità sono quelle del Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008. Qui sarà il CSP a prevedere ed integrare nel PSC le regole previste dal D.P.R. n° 177/2011 mentre toccherà al committente verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa che eseguirà i lavori anche in riferimento ai requisiti previsti per operare negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Sarà poi il CSE a verificarne, sul campo, la concreta applicazione.

Quindi, se le norme oggi vigenti (art. 26 e Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) sono applicate correttamente e compiutamente, l’eventuale certificazione dei contratti di appalto da parte degli organi abilitati alla certificazione (art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003), risulta inutile e costituisce solo un aggravio burocratico. Infatti, se per sostituire il galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio citata nell’esempio, un appaltatore impiega meno di un’ora, rispettando quanto previsto nel Permesso di Lavoro, altrettanto non può dirsi per la certificazione di questo appalto, visto che l’istruttoria ha solo l’obbligo di concludersi e comunicarne l’esito entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta e ciò con le conseguenze facilmente immaginabili.

Inutile, poi, segnalare che la maggior parte degli organi abilitati, indicati all’art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003, non hanno neanche lontanamente le competenze per effettuare una verifica tecnica su documenti presentati e ciò senza neanche dimenticare che, ad oggi, non esiste uno standard unico che indichi quali debbano essere i documenti tecnici da presentare con la richiesta di certificazione.

In conclusione, si reputa che le norme di legge oggi vigenti, se correttamente e compiutamente applicate, sono ampiamente in grado di rendere superflua la certificazione dei contratti d’appalto, fermo restando, visto quanto oggi previsto dal D.P.R. n° 177/2011, l’obbligo di certificazione del contratto di lavoro se diverso da quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infine, non sarebbe una cattiva idea creare un apposito Albo delle imprese che operano negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, alla stregua di quanto fatto per l’amianto e la bonifica da ordigni bellici e “normare” seriamente questa tipologia di lavori modificando il D. Lgs. n° 81/2008 con l’introduzione di uno specifico Titolo.

Le risposte di Carmelo G. Catanoso alle domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto? Perché?

Carmelo G. Catanoso: Il D.P.R. n° 177/2011 richiede la certificazione solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia stato costituito con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; in questo caso, il regolamento prevede che i relativi contratti di lavoro siano certificati ai sensi del D. Lgs. n° 276/2003. L’oggetto della certificazione è il rapporto di lavoro mentre è solo al comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n° 177/2011, che viene ribadito il divieto, per le attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, del ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del D. Lgs. n° 276/2003. Su questo argomento è chiara anche la Nota del MLPS n. 37/0011649 del 27/06/2013.

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati? Perché?

Carmelo G. Catanoso: La certificazione, richiesta dal D.P.R. n° 177/2011, riguarda solo i contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato e non altro (ad eccezione dei subappalti). L’obiettivo è chiaro ed è quello di evitare di avere personale “reclutato all’occasione” per operare all’interno di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, non in possesso di adeguate competenze (conoscenze e capacità documentate) e requisiti psicofisici adeguati. Analoga logica c’è dietro la previsione della certificazione del subappalto; si vuole evitare che un’impresa appaltatrice dopo aver acquisito i lavori da svolgersi in ambienti confinati o sospetti d’inquinamento, subappalti gli stessi ad un’altra impresa senza che questa sia in possesso dei requisiti minimi indicati dal D.P.R. n° 177/2011 nonché mezzi, organizzazione, personale per operare in questi particolari e pericolosi ambienti. Ricordo, infine, che per quanto riguarda la verifica dell’idoneità tecnico professionale, esiste una norma di rango superiore (art. 26 comma 1, lett. a) del D. Lgs. n° 81/2008) che già individua precisi obblighi a carico del datore di lavoro committente che appalta lavori all’interno della propria azienda o unità produttiva. Stesso discorso se i lavori in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati sono eseguiti all’interno di un cantiere edile o d’ingegneria civile (Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) non solo da un committente che è anche datore di lavoro ma anche da un committente che datore di lavoro non è (art. 90 comma 9 del D. Lgs. n° 81/2008). Infine, vale la pena di ricordare che in questo caso, l’allegato XVII renderebbe superflua anche la certificazione del subappalto, visto che al p. 3 viene chiesto al datore di lavoro dell’impresa affidataria di verificare l’idoneità tecnico professionale del subappaltatore con gli stessi criteri che sono stati utilizzati dal committente nei suoi confronti (p. 1 dell’allegato XVII). In conclusione, le norme esistono già e basterebbe applicarle concretamente e seriamente senza bisogno di aggiungerne altre che, sovrapponendosi alle esistenti creano confusione e forniscono, a chi non ha mai voluto far nulla, un ennesimo alibi per continuare a non fare nulla.

La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011?

Carmelo G. Catanoso: In questo caso non c’è differenza di opinione o d’interpretazione, perché oggi ciò che è soggetto a certificazione è il rapporto di lavoro e l’eventuale subappalto. Niente altro. Altrimenti, il rischio che si corre è quello di far passare per obbligo di legge ciò che obbligo di legge non è.

In merito all’applicabilità ed alle interpretazioni delle leggi in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in Italia, in generale, va detto che il nostro sistema prevenzionale è un sistema da “manutenzione a guasto”: dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.

Sia il D. Lgs. n° 81/2008 (pubblicato dopo i tragici fatti di Torino nel dicembre 2007)  che lo stesso D.P.R. n°177/2011 (pubblicato dopo i tragici fatti di Molfetta, Cagliari, Mineo, Capua, ecc.), sono la prova che in Italia si legifera solo sotto spinte emozionali ed emergenziali (molo probabilmente, il prossimo intervento riguarderà, dopo i 10 morti di Modugno (BA), le fabbriche di fuochi artificiali).

Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il “prodotto” non è mai granché per almeno un paio di motivi:

– si lavora di fretta, dopo fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;

– non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole “normare” e che, quindi, hanno conoscenza approfondita “dal di dentro” delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.

E quando parlo di “attori” che operano sul campo, non mi riferisco ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc.. Parlo di soggetti “indipendenti” in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.

Comunque, vista l’attuale situazione, quel che ne viene fuori, con questi presupposti, sono “regole” frutto di visioni che risentono sia del poco tempo disponibile che, soprattutto, delle conoscenze esperienziali dei soggetti coinvolti nella redazione ma che, pur indubbiamente pregevoli, essendo maturate in campi particolari (in genere in attività ispettive), non possono che risentirne nella percezione e visione delle dimensioni e complessità effettive del problema.

Pertanto, ciò che ne scaturisce, è quasi sempre un prodotto frutto di una visione particolare che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise con gli attori che saranno chiamate ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.

Esempio emblematico è proprio quello degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati dove il “mandato” per il legislatore era relativo alla definizione di un Regolamento per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ma che invece si è esteso, con l’art. 3 (procedure di sicurezza), in un ambito che evidentemente non padroneggiava a sufficienza, visto, ad esempio, quanto scritto a proposito delle attività informative di cui al comma 1. Eppure sarebbe bastato dare un’occhiata alla tanta letteratura tecnica ed alla tanta esperienza operativa soprattutto in chi, il problema Spazi Confinati, lo vive “dal di dentro”.

 

La risposta di Flavia Pasquini(Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

  1. Secondo la vostra Commissione e in relazione alla normativa vigente è corretto ritenere obbligatoria, ai sensi del DPR n. 177/2011, la certificazione dei contratti di appalto e subappalto? Ci sono casi in cui, a vostro parere, non è mai da ritenere obbligatoria? E in questi casi è comunque opportuna?

Flavia Pasquini: In mancanza, per quanto consta, di pronunce giurisdizionali e chiarimenti Ministeriali sul punto, ad avviso della Commissione una interpretazione sistematica del DPR n. 177/2011 dovrebbe condurre a ritenere obbligatoria la certificazione, oltre che di tutti i subappalti in luoghi confinati, anche degli appalti laddove siano possibili e/o rintracciabili interferenze (temporali o spaziali). In ogni caso, anche considerando possibili difformità di interpretazione da parte degli organi ispettivi e nell’ottica di un ulteriore controllo sulla qualificazione dell’impresa esecutrice, anche in mancanza di interferenze può comunque risultare cautelativo ed opportuno procedere alla certificazione del contratto di appalto. Inoltre, nel caso di appalto a un consorzio (è simile l’ipotesi della A.T.I. negli appalti pubblici), laddove l’appaltatore proceda ad affidare l’attività in luogo confinato ad una consorziata, sebbene quest’ultimo negozio di affidamento non sia tecnicamente un subappalto, ad avviso della Commissione è comunque opportuna la certificazione, in considerazione della sostanziale vicinanza tra il negozio di affidamento e il subappalto.

La risposta di Flavia Pasquini alla domanda di Massimo Peca:

  1. Qual è la ragione per cui la vostra Commissione, tra i vari documenti, chiede alle aziende che intendono ottenere la certificazione (sia del rapporto di lavoro che per gli appalti), quelli inerenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; come e da chi vengono valutati?

Flavia Pasquini: Benché non tenutavi ai sensi dell’interpretazione letterale del citato DPR n. 177/2011 e senza per ciò stesso potersi né volersi sostituire nei controlli e nelle responsabilità in carico alla committente principale per effetto dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, la Commissione ritiene che il proprio ruolo non possa esaurirsi nella sola verifica formale della correttezza del documento contrattuale. I documenti vengono valutati da parte dei membri della Commissione.

Le risposte di Flavia Pasquini alle domande di Carmelo G. Catanoso:

  1. Non ritiene che il legislatore sia andato oltre il proprio mandato quando, in aggiunta ai requisiti per la qualificazione delle imprese (viste le previsioni degli articoli 6, comma 8, lettera g), e 27 del D. Lgs. N. 81/2008), ha inserito l’art. 3 del DPR n° 177/2011 riguardante le procedure di sicurezza la cui vaghezza e imprecisione ha generato molta confusione e il proliferare di interpretazioni non certo univoche?

Flavia Pasquini: L’art. 3 in questione prevede la disciplina delle procedure di sicurezza in senso stretto all’interno del terzo comma. Tali procedure si riferiscono alle procedure di emergenza che, considerati la specificità dell’attività ed i rischi ad essa connessi, appaiono coerenti con la ratio della norma di realizzare un sistema di qualificazione delle imprese. Infatti, le procedure di emergenza costituiscono un elemento organizzativo fondamentale per potere operare nel settore.

  1. Cosa ne pensa dell’introduzione di un apposito “Albo” per le imprese e i lavoratori autonomi qualificati per operare negli ambienti confinati e negli ambienti sospetti d’inquinamento?

Flavia Pasquini: Potrebbe sicuramente trattarsi di un utile strumento, soprattutto in un’ottica di semplificazione degli oneri e degli adempimenti a carico delle imprese. In caso di affidamento di lavori, servizi e forniture, infatti, la normativa vigente (cfr. art. 26 d.lgs. 81/2008) pone in capo al datore di lavoro committente l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dei lavoratori autonomi e delle imprese appaltatrici. Posto che quest’obbligo riguarda anche l’affidamento di attività da eseguirsi all’interno di ambienti sospetti di inquinamento o confinati, l’istituzione di un apposito Albo presso il quale siano tenuti ad iscriversi i soggetti che intendano operare in quest’ultimo settore potrebbe incidere positivamente sull’efficienza del relativo mercato, riducendo gli oneri di verifica e di produzione documentale incombenti sulle imprese per ogni singolo appalto. Ciò, ovviamente, a condizione che l’iscrizione all’Albo sia subordinata alla verifica del possesso di tutti i requisiti prescritti dal D.P.R. n. 177/2011.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la prima parte dell’intervista…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la seconda parte dell’intervista…

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Indagine competenze Stato/Regioni 11: la riforma cosa cambierà?

Ci avviciniamo lentamente al referendum che dovrà decidere la sorte, abbastanza incerta, della riforma costituzionale.

Ricordo che nella riforma è prevista la modifica al Titolo V della seconda parte della Costituzione, all’interno di un disegno di legge costituzionale più complessivo finalizzato al superamento del bicameralismo perfetto. E tra le materie che potrebbero tornare allo Stato, come competenza normativa esclusiva, ci sono anche le competenze relative alla “tutela e sicurezza del lavoro”.

Con questo blog, in questi anni, non ho svolto una vera e propria inchiesta sul tema della riforma costituzionale, ma ho proposto vari approfondimenti per raccontare le opinioni, l’iter, i tempi, gli obiettivi. Ho cercato di migliorare l’informazione, specialmente, ma non solamente, con riferimento a quanto da me pubblicato sul quotidiano online PuntoSicuro.

E su PuntoSicuro è “andata in scena” nei giorni scorsi una mia intervista realizzata in ottobre ad Ambiente Lavoro a Bologna al dirigente della Regione Toscana Marco Masi.

Marco Masi, che partecipava come relatore all’incontro “Cambia la Costituzione: problemi e prospettive per la sicurezza sul lavoro”, ha una grande esperienza, dal punto di vista regionale, sui vantaggi e limiti del ruolo che le Regioni hanno avuto, anche in ambito normativo, in materia di sicurezza e salute.

Volevo conoscere – dopo le tante interviste fatte a rappresentanti del Ministero del Lavoro – non solo la sua opinione sull’eventuale ritorno alla competenza esclusiva dello Stato, ma anche – laddove l’esito del referendum fosse positivo – cosa cambierebbe in Italia nella tutela di lavoratori e lavoratrici.

E la sua risposta, malgrado alcune domande “provocatorie”, è chiara: a breve non cambierà molto perché comunque con la Riforma Sanitaria (Legge 23 dicembre 1978, n. 833) le Regioni si sono presi carico del ‘cittadino che lavora, e come tale è creditore di attenzione ed entra nella tutela del sistema sanitario’.

Tuttavia nessuno può comprendere oggi cosa cambierà invece a lungo termine. Dipende da quali norme future saranno varate e da quali saranno le intenzioni dei prossimi governi, perché, ad esempio, uno dei temi che potrebbe essere toccato – e non lo è oggi con la riforma – è quello delle competenze ispettive.

 

Buona visione dell’intervista (o buona lettura della trascrizione parziale) che è stata pubblicata con l’articolo “Sicurezza sul lavoro: cambierà qualcosa con la riforma costituzionale?” nel numero del 9 novembre 2016 di PuntoSicuro.

 

Tiziano Menduto

 

 


 

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

(…)

 

Qual è la sua opinione sul fatto che le Regioni potrebbero non avere più la competenza normativa in materia di salute e sicurezza?

Marco Masi: (…) “Il Titolo I del decreto 81 in realtà affronta i temi del confronto Stato-Regioni e consegna un sistema complessivo della prevenzione sul lavoro italiana. Siamo nel 2008. Nel 2001 entra la modifica costituzionale, che lei ha richiamato, e che dà alle Regioni normazione concorrente. Ma il decreto 81 è una norma che definisce con chiarezza quali sono gli istituti in cui questi due soggetti – e tutte le componenti sociali interessate al grande tema della prevenzione – possono trovare sintesi ed elaborare, attraverso linee guida o buone prassi, quelli che sono il concetto delle soft law, della normativa secondaria, per poter meglio applicare norme generali previste dall’81. Quindi un modo anche moderno di affrontare la normativa sul lavoro.

Spesso tuttavia la materia concorrente è stata considerata piuttosto antagonista, competitiva. Ma non ci può essere competizione tra istituzioni sui grandi temi sociali, come la sicurezza e salute sul lavoro. La materia concorrente permette alle regioni di applicare meglio le norme generali previste dal decreto 81. E a volte questo può non servire se la norma generale è fatta bene.

E quindi insisto, ne abbiamo discusso proprio oggi, l’81 contiene, per esempio nella Commissione consultiva permanente, il modo di rapportarsi tra le componenti: i ministeri, le parti sociali, le regioni e le province autonome”.

 

Certo che una buona collaborazione tra Stato e Regioni può dare ottimi risultati. Ma l’eventuale passaggio delle competenze normative in modo esclusivo allo Stato, non potrebbe rendere ancora più efficace il raggiungimento degli obiettivi e dei principi del decreto 81?

M.M.: “Uno dei principi che definisce il decreto 81 (…) indica che la salute e sicurezza non è del lavoro dipendente. Non è del lavoro dipendente nella grande o piccola impresa. La salute e sicurezza è dell’individuo che lavora, a prescindere dal contratto, a prescindere dalla differenza di genere. (…) Anche uno studente è lavoratore in un’attività di laboratorio, anche un volontario, nel prestare la sua importante opera, è un lavoratore e quindi un creditore di attenzione in termini di prevenzione salute e sicurezza. L’81 ha affermato questo principio sovrano. È un principio che deve essere un faro per orientare tutti noi verso una normativa efficace. Una normativa che segue l’evoluzione del mondo del lavoro,.. Ecco perché parlavo delle linee guida e le soft law. Queste le possono emanare le Regioni insieme al Ministero con la collaborazione delle componenti sociali e dell’Inail che gioca un ruolo fondamentale, anche per rendere effettivamente agibile il Sistema Informativo nazionale per la prevenzione”. (…)

 

Lei ha toccato il tema del sistema informativo nazionale, del SINP, che è uno dei più chiari esempi di grandi ritardi normativi in materia di sicurezza. Lei non crede che un riparto diverso delle competenze velocizzerebbe la normazione?

M.M.: “Il problema della tempistica è vero, è reale e concreto. Noi dobbiamo dare quanto più possibile risposte certe, chiare e soprattutto in tempi compatibili a un’evoluzione del mondo del lavoro sempre più frenetica. E non è indubbio che cicli produttivi che si segmentano, ricorso sempre più spinto all’esternalizzazione, l’introduzione di nuovi contratti di lavoro, impongono a tutto il sistema di dare risposte in tempi veloci. E quindi lei ha ragione.

Questo sistema, in effetti, ha determinato dei ritardi.

Vorrei però sottolineare che ha anche permesso di garantire un plurimo apporto di competenze specialistiche: medici del lavoro, ingegneri, biologi, chimici, tutte le figure professionali che hanno contribuito coralmente a identificare delle norme utili per il mondo del lavoro.

Non mi pare il momento di parlare di materia concorrente. Mi piace pensare che il Decreto Legislativo 81 sia e rimanga, ovviamente migliorabile, l’elemento di confronto nel titolo I tra i soggetti tutti. Non ci dimentichiamo che anche il mondo delle imprese, gli stessi lavoratori, con la figura fondamentale del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, possono apportare il loro contributo.

Facciamo un esempio su tutti. Mi piace ricorda l’esperienza tra Toscana ed Emilia Romagna che abbiamo avuto nella realizzazione dell’Alta Velocità/Alta Capacità tra Firenze e Bologna. Abbiamo adottato nuovi sistemi di prevenzione, abbiamo emanato linee guida. Grazie all’apporto delle imprese, grazie all’apporto dei lavoratori…”.

 

Secondo lei la possibilità di avere una prevenzione che tenga conto di specificità locali e regionali può rendere più efficace una strategia di prevenzione…

M.M.: “Lo ritengo l’elemento strategico. E questo elemento – voglio esser chiaro – c’era prima, quando la materia era in capo esclusivo al Ministero e c’è ora quando è concorrente.

Le Regioni devono riprendere il loro ruolo di prevenzione non disgiunto dalla prevenzione collettiva. Un lavoratore cittadino che si fa male, impatta sul sistema sanitario nazionale e regionale. Quindi la prevenzione di un lavoratore non è disgiunta dalla prevenzione di un cittadino (…)”.

 

Le ricordo tuttavia, a titolo esemplificativo, cosa ha fatto a livello normativo la Regione Toscana in materia di cadute dall’alto e di uso delle linee vita. È normale, è giusto che su aspetti così rilevanti si abbiano tra le Regioni differenze normative evidenti in materia di sicurezza? Che ci siano Regioni che considerino alcuni rischi così elevati da necessitare di una regolazione specifica e altre no?

M.M.: “Bella provocazione.

Innanzitutto diciamo che la Regione Toscana ha utilizzato una norma urbanistica, edilizia per rafforzare i principi previsti dall’81. Eravamo coscienti, ma non solo in Toscana, che l’edilizia era uno dei principali settori a rischio, se non il principale. E purtroppo la caduta dall’alto era la causa dei principali infortuni gravi e mortali nell’edilizia. Non abbiamo portato normativa in più o in meno. Abbiamo posto in essere, come dire, una prassi. Abbiamo chiesto che gli edifici nuovi, e solo quelli, fossero dotati di sistemi anticaduta. (…)

Non intaccavamo, e non dobbiamo farlo, i principi generali dell’81.

Per questo io dico che se l’81 rimane nella sua concezione, è già l’81 un ecosistema tra Stato Regioni con cui migliorare la normativa, renderla effettivamente più efficace e soprattutto individuare quale sono le azioni di prevenzione nei settori maggiormente a rischio”.

 

Concludiamo riprendendo qualche spunto dal convegno in cui era relatore. Cambierà qualcosa per gli operatori, per le aziende, laddove le competenze passassero in modo esclusivo allo Stato?

M.M.: La legge 833 (riforma sanitaria, ndr) c’è. Non si tratta di passare competenze allo Stato. La riforma costituzionale dice di togliere la concorrenza normativa, che comunque, insisto, è una normativa di dettaglio, che non può intaccare i principi della norma, in questo caso dell’81. Ci tengo a questa precisazione…

Le Regioni e le Province Autonome possono ugualmente e con efficacia attuare quelli che sono i principi dell’833: garantire azioni di prevenzione verso il cittadino lavoratore, piani mirati di prevenzione, analisi degli eventi infortunistici, analisi epidemiologiche, particolare attenzione alle malattie professionali, (…) . Nessuno impedisce alle Regioni e alle Province Autonome di continuare a fare il loro lavoro”.

 


 

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

Formazione alla sicurezza 6: qualità della formazione e nuovo accordo RSPP

Nel discontinuo peregrinare del mio blog attraverso i temi della formazione alla sicurezza mi sono soffermato in alcuni precedenti post sul tema della qualità.

La qualità della formazione è un elemento fondamentale, essenziale, della prevenzione nei luoghi di lavoro. Una formazione inefficace, magari svolta solo per conformità alla normativa, ma senza interesse per la sua qualità, per i risultati che può dare in termini di prevenzione, non è solo tempo e denaro perso, ma è anche l’anticamera di un incidente o di una malattia professionale.

Il problema è che, come i precedenti post hanno evidenziato attraverso una lunga intervista a tre rappresentanti della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), in Italia ci sono “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti” (estratto di un documento CIIP).

Proprio in relazione a queste amare constatazioni, torno a parlare oggi di qualità della formazione in riferimento all’approvazione del nuovo Accordo tra Governo, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano finalizzato alla individuazione della durata e dei contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione, ai sensi dell’articolo 32 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni”. Un accordo che, pur essendo principalmente rivolto al mondo degli RSPP/ASPP, viene a modificare significativamente tutta la normativa sulla formazione alla sicurezza in Italia.

 

In che direzione avviene questa modifica?

Il legislatore ha tenuto conto del deficit di qualità della formazione erogata in Italia?

L’Accordo guida i formatori e le aziende verso una formazione più efficace?

 

Non è facile rispondere a questa domanda.

L’Accordo è recente, è stato pubblicato a metà agosto in Gazzetta Ufficiale ed entra in vigore nei primi giorni di settembre.

Approvato e reso operativo nei mesi estivi, come buona parte della normativa sulla sicurezza, questo accordo deve essere ancora conosciuto, recepito, digerito e applicato.

Si rincorrono – dopo le anticipazioni dei media – i primi commenti.

 

Con riferimento a quanto apparso sulla rivista online PuntoSicuro, è possibile citare il commento dell’ingegnere Carmelo G. Catanoso che sottolinea come vi siano elementi “che sono stati totalmente trascurati e che avranno un impatto significativo sui processi formativi dedicati alle figure dei RSPP e degli ASPP e, soprattutto, sull’efficacia della loro azione all’interno delle aziende”.

Anche perché nella grande maggioranza delle aziende italiane l’RSPP è individuato nel datore di lavoro o in un consulente esterno. Nella maggior parte dei casi “ci si trova di fronte ad un esercito della prevenzione costituito da un solo soggetto, spesso con una carica esclusivamente onoraria auto conferita (datore di lavoro), con medio-bassa scolarità, poca o nulla esperienza specifica alle spalle, in genere poco sensibile ai bisogni formativi e quasi sempre impegnato nelle altre attività della propria impresa”.

Un altro commento al nuovo accordo è arrivato da Rocco Vitale, presidente dell’associazione AiFOS.

Commento che, ad esempio, ricorda che l’Accordo “viene a colmare una lacuna, evidente, del D.I. del 6 marzo 2013” sui requisiti dei formatori. Ora con il nuovo accordo i requisiti di docente formatore qualificato sono obbligatori per lo svolgimento dei corsi rivolti a RSPP, ASPP, datori di lavoro, RLS, dirigenti, preposti, lavoratori, coordinatori.

Il commento, in tema di qualità, si sofferma anche sull’organizzazione dei corsi, sulla metodologia di insegnamento e apprendimento e sulle indicazioni metodologiche per la progettazione ed erogazione dei corsi, probabilmente la parte più significativa ma meno conosciuta dell’Accordo.

Infatti si ricorda che “a differenza del vecchio accordo che dedicava poche righe, ovvie, su come garantire un equilibrio tra lezioni frontali ed esercitazioni e favorire metodologie di apprendimento basate sul problem solving”, ora “abbiamo un testo sul quale riflettere, studiare ed applicare non quale mero assolvimento formale”, per arrivare a risultati che possano incidere sui comportamenti non sicuri e sugli infortuni.

Proprio per dare risalto a questo aspetto dell’accordo ripropongo ora, parzialmente, un mio articolo pubblicato su PuntoSicuro l’11 luglio 2016 e dal titolo “Il testo del nuovo accordo stato regioni sulla formazione”.

Un articolo in cui presento le “Indicazioni metodologiche per la progettazione ed erogazione dei corsi”: un allegato pensato per i corsi RSPP/ASPP ma che può ben dare spunti per la progettazione di corsi a tutti i lavoratori, dando indicazioni per una idonea analisi dei bisogni formativi.

Buona lettura.

Tiziano Menduto


Nelle “Indicazioni metodologiche per la progettazione ed erogazione dei corsi” sono affrontati inizialmente i profili di competenza degli ASPP/RSPP e sono poi riportate indicazioni sui bisogni formativi.

Riguardo a questi ultimi si indica che le competenze professionali del ASPP/RSPP “si incentrano in sintesi su tre aree di competenza: una gestionale/organizzativa, una tecnico-specifica, e una relazionale strettamente integrate tra loro, per le quali si possono in sintesi indentificare i seguenti bisogni formativi:

– conoscenza della normativa di salute e sicurezza sul lavoro e dell’organizzazione della prevenzione (ruoli, responsabilità, processi);

– capacità di individuare e valutare adeguatamente i rischi e di collaborare a definire e a programmare adeguate misure di prevenzione e protezione in relazione ai diversi contesti lavorativi sia dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale;

– capacità relazionali, comunicative, per adempiere al meglio alla promozione della salute e sicurezza anche in situazioni potenzialmente conflittuali e nel rispetto delle esigenze di tutte le parti in gioco”.

In particolare il modulo B del nuovo percorso formativo per RSPP/ASPP “dovrà essere progettato al fine di:

– sviluppare nel concreto conoscenze, comportamenti e abilità tecnico-professionali improntati alle norme e ai principi di sicurezza e di igiene;

– evidenziare le peculiarità delle diverse realtà aziendali comprese nei vari settore produttivi al fine di stimolare una corretta individuazione dei pericoli e delle possibili misure di prevenzione e protezione adeguate;

– sviluppare capacità di problem-solving e adeguati metodi di approccio ai problemi dell’igiene e della sicurezza;

– fornire strumenti operativi per la valutazione e la gestione delle diverse tipologie di rischi

– evidenziare il ruolo dei comportamenti aziendali in relazione alla sicurezza

– sviluppare relazioni orientate a sostenere la prevenzione dei rischi”.

 

Rimandando ad una lettura integrale del testo, parliamo ora di progetto formativo.

Si indica che “declinati i profili di competenza e i bisogni formativi generali degli RSPP e ASPP e considerando le competenze di base acquisite con la frequenza del Modulo A propedeutico, è necessario strutturare il percorso formativo mediante la progettazione, che traduce il bisogno formativo in una coerente e pertinente risposta formativa, tenendo presente l’ambito dell’obiettivo generale, riportato nel d.lgs. 81/2008, di ‘trasferimento di conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e all’identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi’”.

In particolare il progetto formativo deve rispondere ad una “serie di requisiti quali:

conformità, intesa come rispondenza ai vincoli normativi e legislativi, alle specifiche e ad eventuali standard di riferimento;

coerenza, intesa come adeguatezza dal punto di vista metodologico, tecnico, e delle scelte progettuali, organizzative e gestionali in rapporto agli obiettivi formativi;

pertinenza, intesa come adeguatezza di risposta alle finalità della formazione nel campo della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro;

efficacia, intesa come capacità dei progetto di realizzare i risultati attesi dal punto di vista didattico e delle competenze professionali, con particolare riferimento al ruolo che il soggetto destinatario della formazione riveste nel contesto dell’organizzazione aziendale”.

E seguendo un approccio modulare “nella progettazione dovranno essere definiti con dettaglio, per ciascuna unità didattica:

– gli obiettivi specifici e i risultati attesi;

– i contenuti e la durata;

– la strategia formativa e le metodologia didattica;

– gli strumenti didattici di supporto e il materiale didattico;

– le modalità e i criteri di verifica dell’apprendimento;

– le modalità di verifica della qualità formativa (mediante questionari di gradimento)”.

Rimandando ad altri approfondimenti il tema della strategia formativa, del documento progettuale e delle verifiche, concludiamo questa presentazione dell’allegato IV dei nuovi accordi sottolineando che è necessario, in merito al progetto formativo, “identificare gli obiettivi specifici relativi alla singola unità didattica; tipicamente gli obiettivi vengono declinati mediante parole chiave come trasferire, illustrare, far conoscere, far acquisire, fornire, favorire, definire, delineare etc”.

E strettamente correlati agli obiettivi sono i ‘risultati attesi’ dall’azione formativa “che dovranno essere coerenti con tali obiettivi, conseguibili con la partecipazione al percorso formativo. Il raggiungimento dei risultati attesi dipende in buona misura dalla coerenza e adeguatezza progettuale, in termini di contenuti didattici e strategia formativa. I risultati attesi non dovranno limitarsi alla semplice acquisizione di nozioni, ma dovranno riflettere gli aspetti relativi al sapere agire, alla soluzione dei problemi e agli aspetti relazionali durante le attività che si è chiamati a svolgere”.

Link all’articolo di PuntoSicuro “Il testo del nuovo accordo stato regioni sulla formazione” 

Formazione alla sicurezza 4: andiamo a controllare?

Non c’è dubbio – come già raccontato in diversi post precedenti, sia in riferimento a un documento sindacale che ad un documento della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP) – che il sistema formativo per migliorare la prevenzione di infortuni e malattie professionali nei luoghi di lavoro non sia esente da falle. Da carenze, da deviazioni, da non conformità, in alcuni casi, da truffe vere e proprie, che rovinano uno dei momenti più importanti per la gestione della salute e sicurezza aziendale.

Non bisogna poi dimenticare che la responsabilità di questi inefficaci percorsi formativi ricadono non solo su chi eroga la formazione, ma anche sulle aziende che volendo risparmiare sui costi della sicurezza non si preoccupano della qualità dei percorsi proposti per i propri lavoratori.

E ci sarebbe una gran necessità di poter controllare, di poter verificare la qualità e l’efficacia della formazione erogata nelle aziende in Italia. Servirebbe un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati.

Per approfondire queste problematiche ho realizzato per il giornale PuntoSicuro un’intervista a tre degli estensori del documento CIIP: Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).

Una lunga intervista divisa in tre parti.

Nel post precedente ho presentato la prima parte che si soffermava in particolare sul “mercato della sicurezza” in Italia e continuiamo oggi con la seconda parte che entra nel merito delle proposte del documento.

Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ad erogare formazione alla sicurezza.

Queste le proposte CIIP:

– individuazione di soggetti autorizzati “ex lege” solamente tra enti, istituzioni o strutture private che svolgono attività di formazione in modo istituzionale (Regioni/ASL, INAIL, Università, Scuole Superiori di Formazione, ecc.), dotati di specifica conoscenza e competenza nel settore;

– tutti gli altri soggetti che svolgono attività di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sia autonomamente che in collaborazione con soggetti legittimati, devono dimostrare/certificare la competenza (accreditamento regionale con certificazione competenze e/o sistema di gestione, secondo standard riconosciuti in Italia e negli altri Paesi);

– tutti i soggetti accreditati/certificati possono operare sull’intero territorio nazionale (riconoscimento reciproco accreditamenti regionali).

Un’altra proposta chiede di programmare un Piano Nazionale dei Controlli (per gli organismi di vigilanza ASL) mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati e la definizione di metodi per la verifica dell’efficacia della “funzione educativa” della formazione erogata.

Inoltre le proposte CIIP affrontano anche il tema dell’istituzione del libretto formativo individuale elettronico e l’efficacia della formazione e-learning.

 

Riportiamo una parziale trascrizione della seconda parte dell’intervista, come pubblicata su PuntoSicuro lo scorso 21 gennaio con l’articolo “Le criticità della formazione: la carenza dei controlli sull’efficacia”.

 

Parliamo delle proposte, della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, in materia di formazione. Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ex lege ad erogare la formazione e la possibilità di certificazione/validazione di altri soggetti…

Norberto Canciani: Per legge, per una serie di percorsi legislativi degli anni passati, sono individuati, come soggetti autorizzati ad erogare la formazione, soggetti istituzionali quali le Regioni, le Asl, le Università, l’Inail, i Vigili del Fuoco, …

Oltre a questi soggetti istituzionali sono individuate anche le associazioni datoriali e sindacali. Per la verità in origine, già con riferimento al D.Lgs. 626/94, venivano individuati questi soggetti in quanto componenti di quelli che erano gli organismi che avevano la funzione specifica della formazione, gli organismi paritetici. Soggetti che, come individuati dalla norma di allora, erano costituiti attraverso la pariteticità dell’associazione datoriale e sindacale ed erano costituiti proprio per fare formazione con organizzazione, competenze e abilità adeguate.

Questo passaggio negli anni si è un po’ perso. Così invece di parlare di organismi paritetici si è cominciato a parlare di organismi paritetici e enti bilaterali, confondendo così ruoli anche diversi. Fino ad arrivare a consentire a soggetti datoriali e sindacali di poter erogare la formazione. Nessuno mette in discussione questa scelta, ma il vero è problema è che se questi soggetti non ne hanno la capacità succede quanto già raccontato (nella prima parte dell’intervista, con riferimento alle deleghe date per la formazione ad altri soggetti formativi più o meno abilitati e competenti, ndr).

La proposta CIIP dice: evitiamo di consentire a tutti di erogare formazione, a parte i soggetti istituzionali che lo fanno già per definizione e per competenze (vedi, ad esempio, le Università).

Questi sono gli unici legittimati: tutti gli altri soggetti che non hanno nella loro mission l’erogazione della formazione, per poterlo fare devono essere in qualche modo validati attraverso procedure. Le procedure attualmente vigenti sono essenzialmente le procedure dell’accreditamento regionale. Noi abbiamo proposto qualcosa di più: che si arrivi ad una certificazione che abbia anche una valenza internazionale.

E che abbia anche una valenza nazionale, perché ancora oggi l’accreditamento è regionale. Quindi un soggetto che è accreditato a svolgere formazione in una regione non può andare a farla nelle altre. O meglio, per svolgere formazione nelle altre regioni, deve farsi accreditare di volta in volta nelle diverse regioni.

Questo è un meccanismo molto farraginoso che porta a diverse distorsioni (vedi la prima parte dell’intervista, ndr).

Per cui è opportuno semplificare lasciando la legittimazione soltanto ai soggetti istituzionalmente legittimati e prevedendo una procedura di “autorizzazione” per i soggetti che vogliono erogare formazione, una autorizzazione che abbia una valenza più ampia, per lo meno sull’intero territorio nazionale…

 

Ci potrebbero essere variazioni riguardo al tema dell’accreditamento regionale con la probabile futura approvazione della riforma costituzionale che riporta le competenze in materia di sicurezza sul lavoro allo Stato?

Norberto Canciani: (…) In realtà la formazione professionale rimane di competenza regionale. Bisogna capire se ci sarà una ridefinizione della formazione in materia di sicurezza sul lavoro. È una formazione specifica e particolare che sfugge alla legislazione delle competenza regionale in materia di formazione professionale? Oppure no?

La complessità della questione è data dal fatto che noi parliamo di due piani di formazione diversi. Un conto è la formazione che la normativa prevede di base e specifica per tutti i lavoratori, un conto è la formazione professionale che deve essere erogata agli specialisti, pensiamo ad esempio ai corsi di formazione per gli RSPP. E’ chiaro che qui parliamo di un livello di formazione più elevata. Pensare che questo tipo di formazione sfugga al controllo regionale è al momento non così scontato.

E’ dunque possibile che permanga ancora una competenza regionale in tal senso anche a modifica legislativa avvenuta….

 

Giancarlo Bianchi: (…) Ricordo inoltre che a partire dalla Legge n. 4 del 14 gennaio 2013 e dal decreto legislativo 13/2013, (…)per la prima volta si parla di conoscenze, abilità e competenze professionali. E quindi si identifica con precisione, a seconda della professione, quali sono le differenze di conoscenze, abilità e competenze. Quindi ci sono strumenti, unificati a livello europeo, che per la prima volta permettono di fare una formazione (…) unificata a livello italiano e che può permettere (…) ai professionisti di andare nei 28 paesi dell’Unione Europea… Il processo è un processo molto articolato che esige diverse soluzioni di carattere legislativo generale, ma anche di applicazione puntuale e concreta delle due normative… (…)

 

 

In un’altra vostra proposta richiedete un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace”… Ci sono esperienze di controlli di questo tipo? Come avvengono questi controlli?

Norberto Canciani: (…) Come avviene? Per esperienza passata ci sono controlli che passano da momenti formali, ad esempio verificare la coincidenza della data in cui è stata erogata la formazione con l’effettività della formazione, attraverso controlli incrociati su badge di timbratura,… Poi vengono acquisiti i fascicoli formativi che ogni soggetto formatore deve avere, in cui deve esserci l’analisi dei bisogni formativi… Tutte cose peraltro scritti nell’Accordo Stato-Regioni… (…)

Dopo di che spesso si entra nel merito dell’efficacia della formazione andando a vedere i comportamenti reali di chi sta lavorando… E’ chiaro che si entra in un aspetto molto delicato. Ci possono certo essere a volte comportamenti incongruenti rispetto anche ad una formazione efficace, ma se la totalità dei lavoratori si comporta non coerentemente con la formazione erogata, questo è un problema diverso…

Su questi aspetti sono state fatte delle sperimentazioni, sono in corso di elaborazione dei modelli, per vedere, acquisire indicazioni sull’efficacia della formazione.

Negli ultimi tempi questi controlli degli organi di vigilanza aumentano, sicuramente in occasione degli incidenti. E, posso dire, per mia esperienza passata, che quando ci sono infortuni nella quasi totalità dei casi viene contestata tra le cause una carente, una mancata formazione. E pure in presenza di attestati…

(…)

 

Se l’efficacia formativa non è legata alla modalità formativa, ma alla qualità della formazione erogata, che strumenti ha il datore di lavoro per comprendere, conoscere questa qualità prima di scegliere che formazione erogare ai propri lavoratori? Quali controlli dovrebbero essere messi in atto per verificare l’efficacia della formazione?

Arnaldo Zaffanella: (…) Io ho avuto modo di vedere, essendo un centro convenzionato con strutture straniere per fare formazione, che in questi paesi, contrariamente a noi, l’elemento fondamentale è il controllo finale, l’esame di merito. Bisogna andare a vedere che cosa il lavoratore ha imparato. Si pensi che in molti centri di formazione stranieri addirittura viene allontanato il docente e l’esame viene fatto da una commissione indipendente. (…)

Questo è un elemento critico che si voleva sottolineare… (…)

Questo vale per l’e-learning e vale anche per gli altri modelli di formazione. Bisogna fare in modo tale di avere la certezza che questo addestramento (…) raggiunga l’obiettivo…

(…)

 

Arriviamo poi a parlare di crediti formativi…

Giancarlo Bianchi: Pavanello aveva messo in evidenza come il rilascio di crediti formativi privi di valore svilisse la formazione efficace.

E anche noi abbiamo ripreso un indirizzo condiviso nella CIIP con Pavanello e lo stiamo portando avanti. Lo portiamo avanti nell’ambito delle strutture formative che ci seguono rispettando i criteri legali relativi al rilascio di crediti. Quindi distinguiamo fra i corsi e la partecipazione a convegni: i convegni non possono essere visti come strumento normale di superamento di una formazione efficace di un professionista. Perché se no sviliamo il concetto di formazione. Un convegno prevalentemente è qualcosa in cui si dà una informazione, mentre un corso è invece qualcosa che porta ad un cambiamento comportamentale e di conoscenze.

 

Link all’articolo di PuntoSicuro “Le criticità della formazione: la carenza dei controlli sull’efficacia”

Link alla prima parte dell’intervista.