Covid e smart working 03: i vantaggi della riduzione degli infortuni in itinere

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia e post-pandemia. L’intervista ad Andrea Bucciarelli, CSA Inail.


Concludiamo per il momento una breve indagine sullo smart working, sul lavoro agile, sul lavoro a distanza (smartworking, telelavoro, coworking, …) intesi non tanto come risposta emergenziale alla pandemia da COVID-19, ma come nuovo modello organizzativo che si sta diffondendo e con cui è necessario, anche dal punto di vista della salute e sicurezza sul lavoro, confrontarsi.

Per cercare di conoscere meglio il lavoro a distanza ho segnalato, in precedenti post, il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI.

E in due interviste, prodotte e pubblicate sul quotidiano online PuntoSicuro, ho cercato di affrontare alcuni aspetti in materia di salute e sicurezza del lavoro agile:

L’intervista che presentiamo oggi è diversa. Non entra tanto nel dettaglio dello smart working, delle sue caratteristiche, ma cerca, dopo una presentazione di alcuni dati relativi agli infortuni, di affrontare l’impatto positivo del lavoro a distanza sugli infortuni in itinere.

I dati forniti nell’intervista non sono recenti. Si tratta di un’intervista fatta poco più di un anno fa (luglio 2021), in piena emergenza pandemica, con i dati totali complessivi relativi al 2020 e i primi dati non definitivi del 2021. Numeri ormai superati dai dati più recenti che sono visionabili:

  • per quanto riguarda il 2021 nel nuovo e recente Rapporto Inail
  • per quanto riguarda i primi dati del 2022 negli Open Data del sito Inail.

L’intervistato è un “attuario” (professionista che ha il compito di leggere i dati per disegnare la realtà nel breve, medio e lungo periodo), in particolare Andrea Bucciarelli (attuario della Consulenza statistico attuariale dell’Inail).

Tuttavia non sono i numeri la parte rilevante dell’intervista. Non è sui numeri che bisogna porre l’attenzione, ma sul significato che il modello organizzativo del lavoro a distanza può avere nel tempo per la riduzione degli infortuni per strada e in itinere.

Per questo motivo dall’intervista fatta per il giornale PuntoSicuro, che è stata pubblicata nell’articolo “COVID-19 e lavoro agile: crollano i dati relativi agli infortuni in itinere”, riprendiamo solo alcune parti che vogliono affrontare questo tema.

Non tanto i rischi del lavoro agile sui lavoratori, rischi ben descritti nel documento del CNI, ma i vantaggi, per la sicurezza, della riduzione dei viaggi casa-lavoro-casa.

Ricordiamo, ancora una volta, che i dati infortunistici presentati da Andrea Bucciarelli sono relativi per lo più al 2020 (nell’intervista pubblicata su PuntoSicuro, sono presenti varie domande generali di presentazione di questi dati).

Buona lettura.

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Un tema che mi interessa affrontare è l’impatto della pandemia e della riorganizzazione di molte aziende sugli infortuni professionali stradali e sugli infortuni in itinere. Cosa raccontano i dati su questa tipologia di infortuni?

Andrea Bucciarelli: Gli infortuni in itinere (occorsi lungo il percorso casa-lavoro-casa) e stradali più in generale (ricomprendono anche quelli avvenuti in occasione di lavoro con un mezzo di trasporto) sono crollati nel 2020. Innegabilmente un effetto collaterale della pandemia il cui contenimento ha indotto nelle fasi più acute a blocchi o comunque limitazioni della circolazione stradale e in generale ad un emergenziale, massiccio, ricorso al lavoro agile da casa. Ripartendo le 571mila denunce in complesso di infortunio del 2020, in 506mila in occasione di lavoro e in 65 mila in itinere, si può notare che se quelle in occasione di lavoro (comprensive però delle nuove denunce da contagio) sono diminuite del 6,2% rispetto al 2019, quelle in itinere sono diminuite del 38,2% ridimensionandosi notevolmente rispetto ai circa 100mila casi annui registrati tra il 2016 e il 2019; l’incidenza delle denunce in itinere sul totale è scesa all’11% rispetto al 16% del 2019.

Nella gestione per conto dello Stato (amministrazioni statali quali i ministeri ad esempio) dove diffuso è stato il ricorso emergenziale al lavoro agile, il calo degli infortuni in itinere tra i dipendenti ha superato il 50%.

Gli incidenti stradali non riguardano poi solo gli infortuni in itinere, ma anche quelli in occasione di lavoro con mezzo di trasporto (si pensi ai conducenti professionali come camionisti, tassisti, rappresentanti, ecc.) e anche per loro si è registrata una diminuzione importante, pari al -31,8% con un numero di denunce che si ferma nel 2020 a 13mila contro le consuete 20mila degli ultimi anni. 

In sintesi, definendo come infortuni “fuori azienda” la somma degli infortuni in itinere e di quelli in occasione di lavoro con mezzo di trasporto coinvolto, entrambi riconducibili al rischio da circolazione in strada, i 78mila casi denunciati del 2020 si confrontano con i circa 125 mila degli scorsi anni, con un calo rispetto al 2019 del 37% e un’incidenza percentuale sul totale delle denunce (571mila) scesa a circa il 13% dal 19% degli anni precedenti.

Analoghe considerazioni per i casi mortali: gli infortuni in itinere con decesso dell’infortunato denunciati, sempre superiori ai 300 casi negli ultimi anni, nel 2020 sono stati 226 (-31,7% rispetto ai 331 del 2019) con un’incidenza scesa dal consueto 25%-28% del totale dei decessi al 15%. Così anche per gli infortuni in occasione di lavoro con mezzo di trasporto, scesi dagli oltre 200 l’anno a 181 nel 2020 (con incidenze percentuali che calano dal consueto 20% al 12%). Le due casistiche assieme, 407 “fuori azienda” nel 2020, evidenziano un calo di quasi il 28% rispetto al 2019 delle denunce e un’incidenza che da quasi il 50% degli scorsi anni (praticamente 1 decesso su 2 collegato al rischio strada) è scesa al 26,5% (1 decesso su 4).

Ricordiamo brevemente cosa si intende con infortuni in itinere.

Andrea Bucciarelli: L’infortunio “in itinere” è disciplinato dall’articolo 12 del decreto legislativo 38/2000.

È “in itinere” l’infortunio avvenuto durante il normale tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il luogo di lavoro, da un luogo di lavoro a un altro (nel caso di rapporti di lavoro plurimi), oppure durante il tragitto abituale per la consumazione dei pasti se non esiste una mensa aziendale. E’ ripartibile in due sottoinsiemi, con e senza mezzo di trasporto coinvolto.

È “in itinere con mezzo di trasporto coinvolto”, l’infortunio in itinere avvenuto in un’area aperta alla pubblica circolazione col concorso di almeno un mezzo di trasporto (veicoli terrestri e non), ad esempio l’infortunio occorso ad un impiegato che si reca in ufficio con i mezzi pubblici o la propria auto (se necessitato) o ad un lavoratore che, tornando a piedi a casa, venga travolto da un veicolo; è “in itinere senza mezzo di trasporto coinvolto”, ad esempio quello occorso ad un lavoratore che inciampa sul marciapiede recandosi al lavoro (comunque una minoranza).

Per inciso, l’Italia è un paese all’avanguardia nella tutela del lavoratore “da quando esce di casa a quando vi ritorna”, dato che in altri paesi (anglosassoni ad esempio) l’infortunio stradale in itinere non viene rilevato come da lavoro ma gestito nell’ambito della responsabilità civile auto; inoltre quanto previsto dalla normativa del 2000 è di fatto in continua evoluzione con l’Inail che recepisce i pareri della Cassazione su fattispecie particolari (come nel 2014 per la tutela degli infortuni occorsi al lavoratore in caso di deviazione dal percorso casa-lavoro effettuata dal genitore per accompagnare i figli a scuola) e gli aggiornamenti normativi (ad esempio, il riconoscimento dell’uso della bicicletta non più solo su pista ciclabile, a seguito del Collegato Ambiente alla Legge di Stabilità 2016).

Comunque il riconoscimento di un infortunio in itinere è subordinato alla verifica di modalità e circostanze di ogni singolo evento nel rispetto di alcuni vincoli ai fini della copertura assicurativa: se il tragitto è percorso con ordinarie modalità di spostamento (mezzi pubblici, a piedi ecc.), devono sussistere le finalità lavorative, la normalità del tragitto e la compatibilità degli orari, inoltre se si verifica a bordo di mezzo privato (automobile, scooter)  è tutelato solo se l’utilizzo del proprio mezzo é “necessitato” (per esempio, mancanza di mezzi pubblici o relativi tempi di attesa/percorrenza eccessivamente dispendiosi); le interruzioni e deviazioni del percorso “normale” non rientrano nella copertura assicurativa, a meno che non ricorrano specifiche condizioni di necessità; non sono tutelati gli infortuni direttamente causati dall’abuso di sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni, dalla mancanza del titolo di abilitazione alla guida da parte del conducente.

A suo parere l’aumento delle attività in smart working o comunque di lavoro a distanza, come è stato durante la pandemia, possano essere un incentivo e una strategia per ridurre gli infortuni in itinere?

Andrea Bucciarelli: Direi che l’equazione “meno percorrenze stradali = meno incidenti stradali” vale anche per gli infortuni in itinere che del rischio da circolazione in strada sono diretta conseguenza.

Sul fenomeno degli incidenti stradali (in generale, non solo lavorativi), le stime Aci-Istat relative ai primi nove mesi del 2020, divulgate a dicembre scorso, parlavano di una diminuzione del 29% degli incidenti con lesioni e del 26% di vittime rispetto al pari periodo anno precedente (ripeto, per incidenti occorsi a chiunque, non solo lavoratori).

Tornando agli infortuni sul lavoro “in itinere” denunciati, come già detto, nel 2020 quelli in complesso sono calati del 38% rispetto al 2019 (e la loro l’incidenza sul totale dal 16% del 2019 è scesa all’11% nel 2020), mentre le denunce in itinere con esito mortale sono calate del 32% (e la loro incidenza sul totale dei decessi denunciati è diminuita al 15% dal 27% rilevato sul 2019). Considerando poi anche gli infortuni in occasione di lavoro con mezzo (conducenti professionali, ecc), prevenire gli incidenti stradali, significa quindi ridurre un’importante quota degli infortuni sul lavoro.

L’Inail è già attivo da tempo in tal senso e, ad esempio, nell’ambito dell’oscillazione per prevenzione – uno sconto sul premio di tariffa alle aziende che raggiungono un certo punteggio per aver eseguito interventi per il miglioramento delle condizioni di prevenzione e tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro – ha previsto specifiche voci per la sicurezza stradale (per es. corsi di guida, fornitura di servizi navetta, partecipazione con gli enti competenti per il miglioramento delle infrastrutture stradali in prossimità del luogo di lavoro). Vengono inoltre sottoscritti periodicamente protocolli di intesa con altre istituzioni in materia di sicurezza stradale per lo scambio di dati e collaborazione in iniziative di formazione/informazione nonché avviati specifici progetti di ricerca/studio/sperimentazione attraverso i suoi due dipartimenti scientifici (l’Inail nel 2010 ha incorporato l’Ispesl, Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro).

Per tornare alla domanda, il massiccio e normativamente “emergenziale” ricorso allo smart working del 2020 è stato ovviamente una necessità dettata dal contenimento della pandemia ma ha costituito anche una sperimentazione su vasta scala del lavoro agile di cui analizzare modalità, caratteristiche, produttività, criticità e vantaggi.   

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Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “COVID-19 e lavoro agile: crollano i dati relativi agli infortuni in itinere”

Intervista di Tiziano Menduto

Spazi confinati 05: strumenti e formazione per ridurre gli infortuni

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Documenti Inail e strumenti per la formazione. Intervista a Luciano Di Donato, DIT Inail.

IndagineSicurezza”, blog di riflessione e di approfondimento sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro in Italia, ha ospitato in questi anni diversi materiali e interviste realizzate sul tema degli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un ambito, quello degli spazi confinati, che continua a mietere vittime, come recentemente avvenuto, a fine maggio 2021, per due operai che sono morti per esalazioni di vapori tossici all’interno di una vasca di lavorazione. E tutto questo malgrado anche normative ad hoc – come il Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 – che insieme al D.Lgs. 82/2008 dovrebbero garantire una adeguata tutela per i lavoratori che lavorano in questi ambienti.

Se l’ultimo post ha presentato uno studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludiamo questa piccola inchiesta, costruita con interviste da me realizzate per il giornale online PuntoSicuro, con le risposte dell’ing. Luciano Di Donato (Responsabile del Laboratorio II – macchine e attrezzature di lavoro Dipartimento DIT dell’Inail) riguardo ad alcune ricerche e alcuni documenti (tre factsheet) pubblicati dall’Istituto:

  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Aspetti legislativi e caratterizzazione”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Formazione in aula e addestramento in campo”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Prodotti di ricerca dell’Istituto”.

Questi tre factsheet possono offrire molti spunti per chi si occupa, anche dal punto di vista formativo, della prevenzione degli infortuni in questi ambienti. 

L’intervista, realizzata nel mese di maggio 2021, è stata pubblicata su PuntoSicuro nell’articolo “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”.

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In relazione ai tanti infortuni mortali che avvengono negli ambienti confinati il nostro giornale si è spesso soffermato sulle problematicità e carenze, anche a livello normativo. Cominciamo a parlare di questo nuovo progetto Inail partendo dalle norme. Quali sono quelle di riferimento e quali sono le principali criticità?

Luciano Di Donato: In merito a questo primo quesito voglio intendere il termine norma nel senso più ampio della parola e quindi includere in questo termine la legislazione applicabile che oggi è rappresentata dal D.lgs. 81/2008, norma sulla sicurezza del lavoro, e dal Dpr 177/2011, regolamento per la qualificazione delle imprese che operano in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento.

È invece, in corso di sviluppo, un progetto di norma tecnica (UNI) specifica per l’argomento con l’obiettivo di curare alcuni aspetti non completamente definiti dalla legislazione applicabile.

Le principali criticità della nostra legislazione sono:

  • Una mancanza di definizione di ambiente confinato e/o sospetto di inquinamento;
  • L’esistenza di un elenco non esaustivo di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento;
  • La mancata definizione di criteri, modalità, contenuti e durata per la formazione e l’addestramento dei lavoratori.         

I suggerimenti per risolvere le criticità di cui all’elenco possono evincersi da una lettura completa delle risposte a tutte le domande formulate oltre, per evitare ridondanze, dalla lettura dei factsheet prodotti.

Nei factsheet pubblicati sono presentati alcuni dati e si fa riferimento anche agli ambienti “assimilabili” e alla cosiddetta “catena della morte”. Cosa si intende e perché quest’ultima è spesso correlata agli infortuni che avvengono in questi ambienti?

LDD: I dati pubblicati derivano da una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro e non possono considerarsi dati statistici, rappresentano però una importante raccolta di casi che vogliono essere di indirizzo a chi lavora in questo campo. 

Con il termine assimilabili (anche questi riportati negli istogrammi), si intendono tutti quegli ambienti che hanno medesimi pericoli e conseguenti rischi di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento ma non inclusi in quelli descritti nei pertinenti articoli del DLgs. 81/2008

Il termine tragica catena di morte fu usato la prima volta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e pubblicato sulla cronaca della Repubblica dopo il grave infortunio con la morte di 5 lavoratori a Molfetta in una autocisterna. Viene ancora utilizzato perché per la tipologia degli ambienti dove questi infortuni accadono (ristretti, con difficoltà di ingresso e di uscita, inquinati e con una non facile applicazione delle fasi dell’emergenza) se fallisce la procedura di sicurezza (perché non adeguatamente realizzata o addirittura mancante), al primo lavoratore coinvolto seguono altri che nell’intento di soccorrere il compagno cadono vittima della stessa situazione pericolosa.

Se non è stata fatta una adeguata analisi e valutazione del rischio che tenga conto anche di una progettazione dell’emergenza questa catena si ripete. Non a caso parlo di progettazione dell’emergenza perché in alcuni casi si può arrivare a dover dissaldare parte di un serbatoio per salvare l’operatore che per qualsivoglia motivo è diventato non collaborante. 

Come si è sviluppato il vostro lavoro di ricerca e quali sono le criticità che avete riscontrato per la sicurezza in questi ambienti? Quanto è importante la formazione per prevenire efficacemente gli infortuni?

LDD: Le attività di ricerca hanno riguardato dapprima l’analisi dell’incidentalità e letalità correlate con le attività lavorative da svolgere in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e, successivamente, si sono concentrate nello studio di misure tecnico-organizzative per operare in sicurezza in tali ambienti. I risultati delle ricerche hanno permesso la progettazione di un simulatore fisico in grado di riprodurre diverse possibili condizioni di lavoro tipiche che caratterizzano gli ambienti in esame; il simulatore ha, poi, permesso di sperimentare specifici percorsi formativi e di addestramento da erogare agli operatori di settore.

La formazione, sia in aula che in campo, con enfasi all’apprendimento esperienziale consentito anche dall’uso del simulatore, diventa, quindi, un’attività fondamentale per accrescere la consapevolezza dell’operatore relativamente al corretto utilizzo della strumentazione, dei DPI e delle attrezzature di lavoro anche ai fini dell’emergenza. Tutto quanto sopra, col fine di realizzare una efficace applicazione della procedura di lavoro che, può crearsi anche a seconda della tipologia di ambiente per il quale viene richiesta la formazione e l’addestramento.

In cosa consiste la formazione esperienziale che avete messo a punto e come è stata applicata nei percorsi formativi nel 2020?

LDD: I lavoratori apprendono facendo: l’uso del simulatore fisico (passi d’uomo, tecnologia per il controllo delle azioni e per l’alterazione delle condizioni cognitive) nonché delle attrezzature a corredo (barella, fit test, sistema di sollevamento a sbraccio variabile, ecc) hanno consentito una esperienza realistica delle operazioni da compiere in emergenza.

Questa modalità, di fatto, forma le abilità richieste non solo attraverso l’addestramento diretto ma anche risolvendo le incertezze che possono sorgere in campo.

Proprio per questo, a valle dell’addestramento pratico, si è previsto un momento di confronto in aula dedicato a tutti dubbi (appositamente raccolti in forma anonima) insorti durante l’addestramento.

Questo iter aiuta anche i formatori a trovare insieme con i lavoratori e i datori di lavoro coinvolti nuove soluzioni operative, ancora una volta un apprendere facendo. Il percorso aiuta a risolvere gli inevitabili imprevisti che accadono e che, in un ambiente di simulazione protetto e sicuro, non portano ad incidenti (ma portano esperienza). Imprevisti che se accadessero nella realtà potrebbero essere mortali. 

Lei ha sottolineato l’importanza, per la formazione e l’addestramento, del simulatore fisico. Come è stato realizzato? Con quali criteri e risultati?

LDD: L’idea del simulatore, è nata diversi anni fa attraverso una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro che aveva, come obiettivo, la realizzazione di un serious game per innalzare le capacità di comprensione dei pericoli e conseguenti rischi dei lavoratori qualificati per operare in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento. La sua realizzazione è stata la risposta concreta ad un periodo di infortuni gravi e mortali che si ripetevano con grande frequenza e che coinvolgevano un numero, per incidente, molto elevato di lavoratori (un lavoratore e quattro colleghi/soccorritori morti in un solo caso – strage di Molfetta).

Il simulatore è stato realizzato utilizzando un container trasportabile dotato di strumentazione di controllo e con sistemi di alterazione della capacità cognitive dei lavoratori che possono manifestarsi anche durante l’esercitazione, simulando di fatto, una condizione critica in itinere. Molti casi di infortunio evolvono nelle fasi di lavorazione per il cambio nel tempo delle condizioni dell’ambiente o addirittura (vedi attività di saldatura o lavorazioni sul piano stradale) dove i fumi e/o gas invadono l’ambiente che era stato preventivamente bonificato.

L’idea del trasporto è stata vincente perché già alcune multinazionali (appena prima dell’avvio della pandemia) hanno portato presso la loro sede il simulatore formando, con la nostra assistenza, il personale operante e qualificato per quelle tipologie di lavoro.

I criteri che ne hanno guidato la progettazione sono stati quelli di avvicinarsi quanto più possibile, in un ambiente protetto, alle condizioni reali operative anche per il salvataggio in emergenza. I risultati, per ora – benchè i dati non siano sufficienti per poter parlare di statistica – sono davvero interessanti. Le interviste pre formazione/ addestramento e quelle in uscita hanno mostrato che il sistema funziona e si innalzano le capacità di attenzione ai pericoli e rischi dei lavoratori impiegati oltre ad un innalzamento della cultura della sicurezza perché praticata appunto in modo esperienziale. 

Nei factsheet si parla sia di simulazione fisica che di simulazione virtuale e di realtà aumentata. Quali sono le differenze e le specificità?

LDD: I vantaggi principali e rappresentativi della realtà virtuale ed aumentata sono essenzialmente quelli di poter ricreare un qualsivoglia ambiente anche molto complesso con l’obiettivo di: effettuare valutazioni e scelte appropriate, fare una panoramica della situazione, considerando le condizioni del momento e il rischio correlato, esercitarsi a stimare il rischio potenziale correlato all’evoluzione della situazione; allenarsi a reagire a contingenze e fallimenti generati stocasticamente (cioè guasti, incendi, esplosioni, ecc.).

Pur essendo una tecnologia di cui non dobbiamo fare a meno, ed il laboratorio ha già lavorato su questo aspetto e continua a produrre soluzioni, attualmente non risolvono in modo completo ed esaustivo la fase di addestramento dei lavoratori ma rappresentano un ottimo rinforzo delle attività in aula. 

Il simulatore fisico consente di replicare le sensazioni fisiche relative ad operazioni tipiche: uso delle imbragature, uso della barella con movimentazione dell’operatore, uso del sistema di sollevamento a sbraccio variabile per le operazioni di recupero e salvataggio, nonché le possibili alterazioni delle prestazioni cognitive. Una formazione specialistica per essere tale deve preparare efficacemente e in modo completo alle condizioni di rischio standard e meno prevedibili. L’uso della realtà aumentata e virtuale per la rappresentazione di ambienti diversi e, di un simulatore fisico per la riproduzione di sensazioni fisiche e alterazioni cognitive in contesti lavorativi differenti, sono complementari e di fatto rappresentano un efficace sistema per ottenere una formazione che sia la più completa possibile.

Nei documenti prodotti avete parlato anche del Fit Test. Ricordiamo innanzitutto cos’è e perché è importante…

LDD: Prima di dire che cosa è le rispondo sul perché è importante eseguire il Fit test: è importante perché serve a verificare che le maschere e i facciali monouso delle vie respiratorie forniscano la giusta protezione e cioè che aderiscano bene al volto di chi li indossa. Infatti, barba, baffi, eventuali cicatrici o piccole difformità faciali ne possono compromettere l’efficacia.

Il Fit Test determina appunto la capacità della maschera o del facciale di mantenere la tenuta quando il lavoratore è in movimento. Per questo motivo gli utenti sottoposti al test devono completare diversi esercizi. Un DPI che si sposta durante il movimento potrebbe non essere in grado di mantenere la tenuta.

Esistono due tipi di test: qualitativi e quantitativi: nel caso di un Fit Test quantitativo (QNFT), che può essere utilizzato per qualsiasi maschera e facciale monouso aderente, questo prevede l’utilizzo di uno strumento per misurare le perdite intorno al volto e produce un risultato numerico chiamato Fit Factor che ci fornisce l’idoneità o meno del dispositivo per l’operatore che indossa il dispositivo.

Nelle attività in cui è necessario accedere a spazi confinati con dispositivi di protezione delle vie respiratorie questi test sono eseguiti?

LDD: Non è semplice rispondere a questa domanda. Alcuni casi di infortunio grave e mortale hanno individuato la causa nella scelta sbagliata del DPI (facciale filtrante, piuttosto che facciale isolato in un ambiente dove non c’era un adeguato livello di ossigeno) ma questo, non denota appunto, un corretto uso se finalizzato al modo di indossare il facciale piuttosto una scorretta analisi del rischio. Il fit test non è ritenuto cogente dalla nostra legislazione, ma ritengo, sia una pratica importante da seguire dove possano esserci ambienti di lavoro inquinati e/o con carenza di ossigeno.

Tutto, comunque, deve essere inizialmente valutato nell’analisi del rischio da effettuare prima di qualunque intervento.    

Concludiamo ricordando gli strumenti che l’Inail ha predisposto, oltre al progetto di alta formazione, informazione e addestramento, per gli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili. Ci saranno sviluppi futuri per questa attività di ricerca? E cosa auspicarsi per un miglioramento reale della prevenzione degli infortuni in questi ambienti a rischio elevato?

LDD: In relazione agli sviluppi della ricerca, stiamo già lavorando alla integrazione nel simulatore di sistemi di AG (Augmented Reality) e VR (Virtual Reality) con tecnologie integrate per simulare, in un ambiente virtuale, lo sforzo fisico che oggi non è possibile provare.

Infine, il miglioramento della prevenzione degli infortuni in questo caso passa attraverso:

  • Una prevenzione assistita;
  • Una definizione di criteri certi di formazione informazione ed addestramento del personale;
  • Una continua attività di ricerca per trovare nuovi sistemi e tecniche sicure per operare in questi ambienti.

Per il primo punto, possiamo citare le attività INAIL nella direzione di sconti sui premi assicurativi, nello specifico, nell’ultimo modello OT 23 – prevenzione degli infortuni mortali (non stradali) – è stata inserita la sezione A1 orientata agli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento mettendo in evidenza, tra le possibilità per ottenere questi sconti, la dimostrazione di avere sia la strumentazione (compresi robot) che formazione anche con simulatori. Questa è prevenzione, perché consente ai fruitori, di innalzare il grado di sicurezza con cui affrontare queste attività lavorative.

Per il secondo punto dalle attività con il simulatore vorrebbero arrivare delle proposte concrete, basate sull’esperienza della ricerca sul campo con cui proporre nelle sedi opportune un percorso formativo addestrativo virtuoso e di eccellenza che possa diventare un riferimento legislativo da seguire.

Infine, ad integrazione di quanto già risposto nella prima parte della domanda, un aspetto importante è l’attività di ricerca nel campo della robotica che, dove possibile, deve sostituire l’ingresso dell’uomo in questi ambienti. Anche su questo obiettivo, per altro molto ambizioso, il laboratorio sta lavorando.   

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”

Link ai tre factsheet prodotti dall’Inail

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Spazi confinati 04: conoscere gli infortuni per migliorare la prevenzione

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. La futura norma UNI e gli ambienti assimilabili agli spazi confinati. Intervista a Paolo De Santis della Contarp Inail.

Sono ancora troppi gli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati. A titolo esemplificativo tra il 2002 e il 2014 si registrano in Italia circa 69 incidenti che hanno comportato 90 morti. E sono comunque molti gli infortuni mortali plurimi dal 2014 ad oggi, ad esempio con riferimento all’incidente plurimo (quattro morti) avvenuto in provincia di Pavia nel 2019.

Proprio partendo da questi dati e dalla necessità di migliorare la prevenzione a partire dalla conoscenza e dallo studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludo il viaggio attraverso i rischi negli spazi confinati con un post, il quarto, che raccoglie un’intervista da me realizzata durante la manifestazione “Ambiente Lavoro” del 2019 e pubblicata sul giornale online PuntoSicuro (Spazi confinati: gli infortuni, le criticità e la futura norma UNI).

L’intervista è a Paolo De Santis (Inail – Contarp Lazio), relatore al workshop Inail “Ambienti Confinati e infortuni mortali: analisi delle criticità e proposte di soluzioni”, che si è soffermato proprio sulle criticità rilevate negli infortuni in questi ambienti.

L’intervista, realizzata il 17 ottobre 2019 e di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, ci permette di avere anche informazioni su una futura norma UNI in materia di ambienti confinati.

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Entriamo nel dettaglio degli infortuni che avvengono ogni anno negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati, con particolare riferimento al plurimo infortunio mortale che è avvenuto in provincia di Pavia a metà settembre…

Paolo De Santis: In particolare quest’ultimo incidente ha la caratteristica di raccogliere un po’ tutte quelle criticità che possono essere elencate.

Intanto osserviamo che, a 11 anni dalla pubblicazione del decreto 81/2008, ancora si muore negli spazi confinati. Nel frattempo c’è stato il DPR 177/2011, ci sono state decine di buone prassi, linee guida, … Ma il problema che questo particolare incidente indica è che la normativa, le buone prassi, ecc. molto spesso non arrivano alla piccola e piccolissima azienda.

Cosa è successo?

Dalle ricostruzioni dei giornali si capisce che un lavoratore si è sentito male al bordo di una vasca di liquami. È caduto nella vasca, è annegato e gli altri tre, di cui due datori di lavoro, hanno cercato di estrarlo ma, ovviamente nelle stesse condizioni, sono morti anche loro annegati.

Io analizzando questo incidente sono rimasto abbastanza sconcertato dal fatto che questa particolare tipologia di ambiente, quella delle vasche dei liquami, è analizzata addirittura dal 1978. Molti esperti (…) sulla base proprio dell’indagine approfondita su decine e decine di incidenti, hanno pubblicato articoli, fatto incontri, convegni, dato anche proprio delle misure preventive, tecniche, molto pratiche… Sappiamo, per esempio, che un’adeguata correzione del pH può diminuire questo rischio. Il problema è come arrivare alla piccola e piccolissima azienda: ecco, credo, che questo sia il nostro obiettivo per il futuro.

Che altra tipologia di infortuni avvengono negli ambienti a cui fa riferimento il DPR 177? Ci sono altri incidenti che ci possono fornire insegnamenti e indicazioni per migliorare la prevenzione?

P.D.S.:Sì, e bisognerebbe anche fare una prima distinzione, quella distinzione che stiamo cercando di portare a livello di gruppo UNI tra ambienti che rientrano nella normativa – quindi ambienti confinati o sospetti di inquinamento, secondo le definizioni del decreto 81 e del decreto 177/2011 (…) – e i cosiddetti ambienti assimilabili.

Oggi nel workshop li abbiamo citati. Per esempio, le pale di un impianto eolico, oppure i pozzetti di piscina degli ambienti, che non sono normati, ma che ugualmente possono rappresentare, in determinate condizioni, un rischio mortale.

A livello del gruppo UNI, in cui si spera vedrà la luce la formulazione di una nuova norma specifica sull’argomento, stiamo dando dei criteri di identificazione, comunque di categorie di spazi in cui ci possono essere problemi mortali. Questi spazi si divideranno in due grosse categorie, cioè quelli che finiscono sotto l’attuale vigenza normativa e quelli che, comunque, hanno le medesime caratteristiche di pericolosità e per i quali il datore di lavoro deve, con la propria valutazione del rischio, individuare le misure preventive migliori.

Quali sono i tempi per arrivare alla nuova norma UNI?

P.D.S.:I tempi saranno ancora lunghi, perché è partito da poco il progetto di norma. Ancora non sappiamo se sarà una norma o un Technical report; probabilmente il gruppo è indirizzato più verso la norma.

C’è stata un’ampia discussione proprio per venire a definire le due definizioni di spazio confinato o sospetto di inquinamento e di spazio assimilabile.

Oggi c’è un accordo, che sarà sottoposto ovviamente all’analisi pubblica.

È un primo passo avanti. Spero che, dopo questo primo grosso scoglio, i lavori andranno molto più velocemente. Speriamo che nel corso del prossimo anno vedrà la luce.

Forniamo qualche dato quantitativo relativo agli infortuni e alle tipologie di infortuni…

P.D.S.:Dati di infortuni consolidati possono essere estratti dalla nostra Banca Dati Infor.mo. Quelli consolidati sono riferibili all’intervallo di tempo che va dal 2002 al 2014. In quel periodo abbiamo registrato circa 69 incidenti che hanno comportato 90 morti.

E quindi già si vede, da questo dato, che effettivamente i decessi sono plurimi rispetto agli eventi. Probabilmente è un dato sottostimato perché nell’analisi non sono state compresi gli scavi, che invece, in determinate condizioni, possono essere intesi come ambienti confinati o sospetti di inquinamento.

Veniamo alle principali criticità che avete rilevato…

P.D.S.:La criticità principale, a nostro avviso, è riferibile al fattore umano.

Intanto si osserva che circa il 73% degli infortunati che sono deceduti aveva una grande esperienza di lavoro ben oltre i 3 anni e che la maggior parte – anche qui intorno al 70% – era personale dipendente a tempo indeterminato.

Quindi mai o quasi mai si è trattato di inesperienza. In alcuni casi ci sono state delle persone non assunte, in nero, ma la stragrande maggioranza degli infortuni ha riguardato gente con esperienza. Quindi molto spesso, quando si parla di esperienza, è “dir tutto e dir poco”. A volte l’esperienza, invece, è foriera di cattive abitudini che, purtroppo, si ripetono nel tempo.

E molto spesso, un’altra criticità che abbiamo riscontrato, è che le stesse persone avevano compiuto le stesse operazioni in maniera similare nel tempo, ma, purtroppo, sono cambiati piccoli parametri del processo che non sono stati rilevati, proprio per una carenza di conoscenza e anche di capacità di analisi dei processi stessi. E queste piccole variazioni hanno comportato invece l’instaurarsi di condizioni mortali.

(…)

Secondo lei cosa si può fare per migliorare la prevenzione? Come agire sul fattore umano?

P.D.S.:Bisogna aumentare la percezione del rischio delle persone.

Cosa significa? Intanto il fattore umano non dobbiamo intenderlo come errore della singola persona, ma come eventuale carenza nell’ambito delle organizzazioni che, a volte, sono piccolissime organizzazioni. Infatti molti incidenti hanno coinvolto gli stessi datori di lavoro, che non hanno avuto le capacità di analisi e di valutazione del rischio.

Ecco noi dovremmo cercare di far arrivare, di diffondere questa capacità di analisi del rischio.

 (…)

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Spazi confinati: gli infortuni, le criticità e la futura norma UNI”.

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Spazi confinati 03: un nuovo strumento per la prevenzione

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una intervista, realizzata nel 2019, presenta le linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri.

Come ricordato nel “Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ai sensi dell’art. 3 comma 3 del d.p.r. 177/2011” e nelle schede informative pubblicate dal sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi INFOR.MO., gli ambienti confinati possono presentare diversi rischi per la salute e la sicurezza.

Ad esempio:

  • asfissia per carenza di ossigeno;
  • intossicazione per esposizione ad agenti chimici pericolosi;
  • esposizione ad agenti biologici;
  • caduta dall’alto dell’infortunato;
  • contatto con organi lavoratori in movimento;
  • scivolamento dovuti alla difficoltà di accesso/uscita, alla carenza/assenza di illuminazione naturale, alla presenza di tubazioni/cavi/materiali o di fondo vischioso/scivoloso;
  • seppellimento per caduta di polverulenti dall’alto;
  • ustione/congelamento per esposizione a sostanze corrosive, a temperature elevate o molto basse;
  • annegamento in presenza di melma/fanghi o variazioni improvvise di livello di altri fluidi;
  • folgorazione per presenza di connessioni elettriche.

E analizzando gli infortuni mortali in ambienti confinati si rileva che i fattori di rischio più frequenti sono gli errori nelle modalità operative, la mancata fornitura o il non utilizzo dei DPI necessari e le carenze strutturali e organizzative degli ambienti lavorativi.

Proprio a partire dagli elevati rischi per i lavoratori di questi ambienti ho pensato di dedicare il terzo post sugli spazi confinati ad alcuni interessanti strumenti che possono favorire la prevenzione.

Sto parlando delle linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri (CNI) dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati o a rischio di inquinamento”, di cui presento una breve intervista sulla prima versione ufficiale (sono già stati pubblicati alcuni aggiornamenti). Intervista all’Ing. Stefano Bergagnin (Ordine Ingegneri di Ferrara – componente del gruppo di lavoro Sicurezza del CNI e coordinatore del gruppo tematico temporaneo sui lavori in ambienti confinati) e all’Ing. Adriano Paolo Bacchetta (esperto in materia di spazi confinati e fondatore e coordinatore del sito www.spazioconfinato.it).

L’intervista è stata realizzata, per il  giornale online PuntoSicuro, durante la manifestazione “Ambiente Lavoro” che si è tenuta a Bolognadal 15 al 17 ottobre 2019 dove i due ingegneri erano relatori al convegno “Ambienti confinati: stato dell’arte e proposte del CNI per la gestione del rischio specifico”, organizzato dall’Ordine Ingegneri di Bologna con il patrocinio del CNI.

In particolare l’intervista, di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, è stata pubblicata nell’articolo “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Nelle prossime settimane continuerà la pubblicazione di altri post e contributi sul tema.

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Gli spazi confinati e le carenze normative

Nella presentazione del documento si sottolinea che in materia di ambienti confinati e a rischio di inquinamento a tutt’oggi gli strumenti di gestione ancora non sono sufficienti, immagino che queste linee di indirizzo vogliano affrontare questa carenza…

Stefano Bergagnin: Si, questo è proprio L’obiettivo della pubblicazione e il titolo “linee di indirizzo” è finalizzato a questo scopo, cioè vuole fornire a tutti i tecnici – ma non solo tecnici, ovviamente anche ai datori di lavoro, ai committenti, ai coordinatori per la sicurezza e anche alle imprese, le imprese che svolgono questo tipo di interventi – degli strumenti per gestire, auspichiamo correttamente, quello che è un rischio che purtroppo rimane ancora molto di attualità perché gli infortuni non calano e questo è forse dovuto anche (…) a una carenza normativa. Perché effettivamente tutti gli aspetti tecnici che sono assolutamente necessari per un rischio di una gravità così importante dovrebbero essere disponibili.

Noi abbiamo cercato di fornire più strumenti possibili e tra l’altro questa è anche una linea di indirizzo molto corposa, il contributo dei tecnici del gruppo di lavoro è stato veramente molto interessante, a cominciare proprio da quello di Adriano che è uno dei maggiori esperti e ha fornito sicuramente strumenti utili.

Noi ci siamo spinti con il documento soprattutto su alcuni aspetti che, a nostro avviso, erano carenti, perché poco approfonditi nella normativa.

Addirittura, se parliamo della formazione, era previsto un accordo Stato-Regioni che non è mai uscito. Quindi abbiamo cercato di fornire strumenti anche in questo senso.

Tra le altre cose (…) c’è anche una app importante che abbiamo messo in allegato e che è la prima app – ne usciranno probabilmente anche delle altre – ed è interessante soprattutto per l’identificazione degli spazi confinati ed è stata presentata a cura di Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, con tanti altri contributi. (…)

So che l’ing. Bacchetta si è occupato spesso della normativa in materia di ambienti confinati e/o sospetti d’inquinamento. Cosa possiamo dire della normativa che c’è e di quella che ancora manca? Quali sono le criticità?

Adriano Paolo Bacchetta: “Diciamo che la normativa che c’è è come se non ci fosse – io lo dico dal 2011 – fondamentalmente quello che abbiamo è frutto di una necessità immediata per dare risposta agli incidenti a cavallo del 2009-2010 (depuratore di Mineo, Truck Center e altri) che però non ha risposto alle esigenze. Anzi ha creato una serie di complicazioni e una serie di adempimenti meramente burocratici che, personalmente, io valuto poco idonei ad una risposta funzionale.

Questo capita quando si lasciano campi assolutamente non definiti, interpretativi.

Basti pensare (…) a quelli che prima erano degli ambienti che dovevano essere controllati per rischio di inquinamento e sono diventati a sospetto di inquinamento DPR 177/2011, ad esempio le gallerie. Ma ci immaginiamo una galleria, il traforo o la variante di valico? Come lo classifichiamo? Teoricamente andrebbe messo lì, ma è sbagliato. Poi ci sono gli ambienti dove può esserci il rischio di gas deleteri: qualsiasi stabilimento industriale dove fisicamente c’è una fumana che esce da una macchina potrebbe a ragione essere valutato come un ambiente dove può essere applicato il  decreto 177/2011. Una follia.

E questo oltre agli errori nei riferimenti (…), basti pensare che il titolo stesso del decreto è “ambienti confinanti”. Quindi in realtà, almeno gli errori formali potevano metterli a posto.

E poi c’è quella veramente vergognosa mancanza della definizione dei requisiti degli aspetti formativi (…). Ad oggi c’è in giro di tutto, tutti fanno tutto, (…) e dopodiché anche il Ministro l’altro giorno ha detto che è “importante la formazione”. Siamo d’accordo ma ad oggi non esiste una specifica di chi può farla, quanto deve durare, quali sono gli argomenti.

Quindi inutile parlare di formazione quando nel caso specifico degli ambienti confinati non c’è neanche la definizione. (…)

Stefano Bergagnin: Mi ha interessato moltissimo quanto ha detto Adriano, proprio nell’ultima parte del suo intervento.

L’aspetto formazione noi lo abbiamo approfondito, proprio anche nelle linee di indirizzo, indicando con la maggior precisione possibile anche i contenuti.

Ovviamente non potevamo sbilanciarsi sulle ore necessarie, … Però almeno abbiamo dato una definizione molto precisa dei contenuti minimi che devono essere affrontati proprio in questo ambito.

Il riconoscimento degli ambienti confinati e il ruolo degli operatori

Come avete affrontato il tema del riconoscimento degli spazi confinati nei luoghi di lavoro…

Stefano Bergagnin: Forse uno dei paragrafi più importanti è proprio quello sulla definizione. È un paragrafo corposo perché dare una definizione di spazio confinato non è semplice. Non è semplice perché anche le norme internazionali danno definizioni che sono un po’ diverse. C’è sì una certa omogeneità che abbiamo cercato di individuare, ma non è assolutamente semplice.

Noi più che altro abbiamo voluto allargare quello che è lo spazio di indirizzo, cioè capire quali potrebbero essere gli ambiti che senza dubbio potrebbero diventare o sono uno spazio confinato o a rischio d’inquinamento.

C’è anche un elenco, dentro le linee di indirizzo, di esempi di situazioni che potrebbero essere sicuramente definibili come spazi confinati. Abbiamo anche chiarito alcuni aspetti, tra questi anche il discorso “gallerie” che ha una sua normativa e che non riteniamo debba entrare in quest’ambito. O il discorso delle stive, le stive nei porti, … Anche lì c’è una normativa particolare. Abbiamo comunque dato indicazione che a volte quella che è la valutazione del rischio potrebbe trarre strumenti utili da una linea di indirizzo come la nostra, ma siamo in un ambito diverso e questo l’abbiamo specificato.

Poi ci sono strumenti che potrebbero servire, come l’app che citavo prima, anche soltanto per capire se l’intervento che viene organizzato con un’impresa appaltatrice, in una sede aziendale o anche in un cantiere, sia classificabile o meno.

L’app è utilissima ma visto che le app comunque compariranno sul mercato anche nel settore della sicurezza e della salute, bisogna fare molta attenzione. Perché questa è una app (…) che è stata fatta appunto da Alma Mater con il contributo, tra l’altro, dell’INAIL regionale, con il consenso dell’ASL della nostra regione. E questo è importante perché offre la garanzia che queste siano delle app con un livello di qualità elevato. (…)

Mi pare che nelle linee di indirizzo abbiate anche parlato del datore di lavoro committente e del rappresentante del datore di lavoro committente… Cosa si è detto nel vostro documento riguardo ai ruoli dei vari attori della sicurezza?

Stefano Bergagnin: Noi innanzitutto abbiamo evidenziato (…) che tra i soggetti destinatari delle linee di indirizzo ci sono gli RSPP/ASPP, ci sono i datori di lavoro committenti, ci sono i datori di lavoro delle imprese appaltatrici, delle imprese esecutrici di certi lavori. E abbiamo anche chiarito un dubbio che (…) era quello relativo appunto all’applicabilità della norma anche quando non c’è un contratto d’appalto; cioè quando i lavori in spazi confinati li fanno direttamente i dipendenti. La norma è applicabile anche lì. Ci sono anche dei passaggi – mi pare che fosse una circolare importante che abbiamo citato anche nel testo – in cui è stato chiarito che anche all’interno di un’azienda, se c’è questa tipologia di lavori, bisogna garantire le stesse misure di sicurezza che vengono previste negli altri casi (…). È quindi fondamentale che anche questo chiarimento ci sia e lo abbiamo inserito nelle linee di indirizzo. 

Il ruolo del medico competente e il DPR 177/2011

Veniamo a soffermarci su un tema che affronterà nel convegno Adriano Paolo Bacchetta, quello dei medici competenti. Quale ritiene sia il ruolo del Medico Competente nell’applicazione del DPR 177/2011?

Adriano Paolo Bacchetta: Partiamo dal presupposto che non siamo certamente noi (…) a dettare il passo ad un’altra categoria professionale importante come i medici. Quindi non siamo noi a dire cosa devono fare, però noi possiamo dire cosa auspichiamo di avere come supporto.

E certamente quello del medico competente, nel caso specifico delle attività in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, è un ruolo importante. (…)

Ad esempio c’è il problema della definizione di quali sono le attività del FOP, del First on Place ovvero sia del primo soccorritore, che deve intervenire su un soggetto che ha avuto un malore, un infortunio, qualcosa all’interno dell’ambiente confinato. Si parla di un operatore laico, quindi sostanzialmente né un sanitario, né un parasanitario; fondamentalmente un soggetto che ha una formazione che non va oltre, al momento, a quella prevista dal decreto 388 … (…). In realtà, a oggi, il medico competente o il laureato in medicina che viene contattato per fare il corso ai lavoratori fa il corso e poi queste persone devono intervenire su un collega, piuttosto che un dipendente dell’impresa appaltatrice nell’ambiente confinato. Però lì, obiettivamente, se non c’è il medico che dà delle indicazioni puntuali non può essere certamente il tecnico a definire la modalità operativa, i sistemi di immobilizzazione o quant’altro necessario. (…)

No, l’intervento di soccorso va studiato e chiaramente. C’è il tecnico che si occuperà delle progressioni su fune, di definire le strutture, gli apprestamenti, tutto quello che è necessario; ma poi serve comunque la controparte medica che dica “quando sei lì ti devi comportare in un certo modo”. È questo è il primo problema. Poi ce ne sono altri…

Nel documento sono proposti anche degli strumenti per i medici competenti?

Adriano Paolo Bacchetta: Qua la cosa si fa un pelo più complessa, perché in realtà io sono stato autore, Insieme ad altri esperti, tra l’altro della Fondazione Maugeri di Pavia, (…) di un articolo dove abbiamo proposto un profilo sanitario per gli addetti negli spazi confinati.

Al momento stiamo cercando di trovare ancora l’applicazione e non mi risulta che esista un profilo, ad esempio, per la definizione dell’idoneità sanitaria. Quando l’articolo 66 del decreto 81/2008 in fondo mi dice che lo spazio deve avere un’apertura sufficientemente larga da poter estrarre un lavoratore privo di sensi – quindi sostituendo la originale indicazione del DPR 547 che dava il 30 x 40 ellittico o il diametro 40 come dimensione – di fatto mi dice tutto e non mi dice niente. L’unica cosa certa è che un soggetto di 140 kg, che ha una circonferenza di 1,60 metri, non può essere idoneo a lavorare in ambiente confinato se il punto d’accesso è un punto 30 x 40.

Quindi quando il medico dice che l’addetto è idoneo a lavorare in ambienti confinati, lui deve sapere esattamente quali sono questi ambienti e qual è la modalità d’accesso e uscita. Perché se a lui non viene detto che, ad esempio, gli addetti devono entrare nelle attrezzature a pressione attraverso un passaggio ellittico da 30 x 40, magari si vede davanti un tipo Schwarzenegger e obiettivamente dice che è idoneo agli spazi confinati. Ma da un punto di vista antropometrico, no, perché non ci può entrare e se poi devo tirarlo fuori senza problemi… Poi sarà compito del datore di lavoro andare a spiegare all’organo di vigilanza come ha fatto a rendere idoneo un addetto e dichiarare implicitamente, nel momento in cui accetta che lui entri, che lo poteva tirare fuori quando era inerme.

La situazione è molto complessa e quindi il medico, da quel punto di vista, deve adottare un protocollo che al momento non c’è.  L’unica pubblicazione che c’è è quella che abbiamo fatto noi nel 2015. Ora aspettiamo…

La gestione delle emergenze negli spazi confinati

A proposito di emergenze mi pare che quest’anno si sia parlato di soccorso ad Ambiente Lavoro anche in un convegno nazionale sul soccorso industriale…

Adriano Paolo Bacchetta: Questa del convegno è una logica evoluzione – sia di spazioconfinato.it sia di tutto quello che è stato fatto negli anni – che di fatto tiene conto di una necessità. A oggi per alcuni interventi (…) le aziende che non ritengono di avere del personale adeguatamente preparato formato o equipaggiato per poter fare interventi di soccorso utilizzano tipicamente dei professionisti, a tutti gli effetti, che svolgono il ruolo di soccorritori industriali. (…) Il problema è che, anche in questo caso, manca una specifica regolamentazione dei requisiti e qualificazioni (…) e noi gettiamo le basi ufficialmente (…) per cominciare a definire anche in Italia quella che può essere una ipotesi di profilo professionale del soccorritore industriale. Ma questo non basta, (…) l’associazione si sta muovendo per definire dei protocolli di formazione aggiuntiva a quella obbligatoria di legge per queste persone che normalmente fanno gli addetti di linea e quando suona la sirena automaticamente scattano e diventano vigili del fuoco e soccorritori sanitari.(…)

Cosa si dice nel documento del CNI riguardo alla gestione delle emergenze?

Stefano Bergagnin: Ci tenevo a rendere evidente che anche nel documento forse il paragrafo “Gestione delle emergenze” è quello più fitto, perché secondo noi è importantissimo. Soprattutto su questo tema la normativa è veramente carente perché non specifica addirittura le diverse tipologie di emergenza che, invece, sono note da decenni anche dalle norme internazionali. Noi le abbiamo riprese, (…) noi le abbiamo confermate, le abbiamo specificate meglio e a mio avviso, questo è un parere personale, questo è uno dei paragrafi che sarà più utile proprio come linea di indirizzo.

Adriano Paolo Bacchetta: Rispetto a tutto quello che abbiamo detto, c’è una cosa importante che dico a tutti. Chiunque si approccia a questo tema deve dimenticarsi di pensare di avere il software, l’app o cose del genere per cui uno che non ne sa niente, che non è cultore della materia, non ha esperienza della materia, comprando il software risolve i problemi. (…)

Gli ambienti confinati sono ambienti dove la professionalizzazione delle persone che progettano gli interventi e in particolar modo gli interventi di soccorso deve essere adeguata. Quindi da un punto di vista pratico invito ad acculturarsi, a leggere, studiare, venire ai convegni, fare comunque tutto quello che è necessario per evitare di fare documenti replica. E io ne vedo un quintale di roba fotocopiata, tagliuzzata, presa da internet e cose del genere. Quindi con sostanziale evidenza della mancanza totale di cultura e di conoscenza. (…)

(…)

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Spazi confinati 01: le criticità e la definizione mancante

Una breve raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una prima intervista, realizzata nel 2013, ad Adriano Paolo Bacchetta, coordinatore di spazioconfinato.it.

Non c’è dubbio che gli ambienti confinati e/o gli ambienti sospetti d’inquinamento si siano mostrati in questi tra gli ambienti a maggior rischio di infortuni gravi e mortali.

È dunque necessario promuovere e far conoscere prassi e materiali di prevenzione, ma è bene anche riflettere sulle criticità, sulle difficoltà operative, sulla valutazione dei rischi, sulla pianificazione delle emergenze e sulle carenze normative con particolare riferimento al Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, a norma dell’articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.

Per questo motivo ho realizzato e pubblicato negli anni, sul giornale online PuntoSicuro, diverse presentazioni di documenti, diversi approfondimenti e normativi e varie interviste che hanno avuto la funzione di porre domande e fornire risposte utili agli operatori, ai lavoratori e alle aziende, sulla sicurezza negli spazi confinati.

In questa e in altre puntate del blog ho intenzione di riportare un po’ di questo materiale per trasformare tutto questo lavoro in una sorta di reportage e inchiesta sulle criticità da affrontare per migliorare la prevenzione in questi ambienti di cui, ad oggi, è ancora difficile concordare una definizione chiara ed esaustiva.

Iniziamo questo viaggio con una intervista pubblicata il 29 ottobre 2013, nell’articolo “Spazi confinati: chiarimenti e criticità del DPR 177”, che raccoglie le indicazioni di uno dei massimi esperti in Italia della sicurezza negli spazi confinati, Adriano Paolo Bacchetta, ai margini del 3° Convegno Nazionale sulle attività negli Spazi Confinati – organizzato da spazioconfinato.it in collaborazione con il C.R.I.S.  e la Fondazione Organismo di ricerca GTecnology di Modena.

Riprendiamo dall’intervista audio una parziale sbobinatura rimandando i lettori del blog alla visualizzazione dell’articolo integrale e all’ascolto dell’intera intervista audio.

Nelle prossime settimane pubblicherò altri materiali anche con riferimento alle più recenti novità in materia. Lo stesso Bacchetta ha recentemente lavorato con il Consiglio Nazionale Ingegneri alla stesura delle “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati o a rischio di inquinamento”, che presenterò nei prossimi giorni.


Esiste una definizione univoca relativa agli spazi confinati?

Adriano Paolo Bacchetta: Cominciamo a dire che il termine “ambiente confinato” è un termine che oggi si presta a una non corretta interpretazione perché se noi andiamo a ricercare “ambiente confinato” su internet troviamo le problematiche dell’indoor air quality. Nel senso che in definitiva nell’accezione comune se associato a sospetto d’inquinamento viene fuori il decreto 177/2011, ma passando i primi due o tre punti che possiamo trovare sul motore di ricerca, cominciamo a vedere che l’ambiente confinato è relativo ai problemi del sistema di ventilazione, problema della legionella, la sindrome dell’edificio malato… E ci sono fior di documenti di organismi statali che parlano proprio di qualità dell’aria nell’ambiente confinato. Allora la domanda è: come può essere che lo stesso termine di “ambiente confinato” possa essere utilizzato per un ambiente che ha le peculiarità di un confined spaces o anche di qualcosa che rientra nella 177 e contestualmente, con la stessa terminologia, altri enti, come ARPA o altre organizzazioni comunque statali, chiamano invece una stanza dove c’è un impianto di ventilazione. Confined spaces, spazi chiusi?… Ad esempio nella terminologia del 272[1], quindi fondamentalmente della 626 o dell’81 navale, si parla di spazi chiusi della nave, quindi le stive e ambienti di questo tipo… Se andiamo a vedere la UNI EN 529, che poi è quella che tiene conto dei dispositivi di protezione respiratoria, c’è un’altra modalità ancora di chiamare questi ambienti. Si parla di ambienti circoscritti. Già partendo da lì, si ha l’indicazione che da noi c’è confusione…

Con “da noi” intende che da qualche parte ce n’è di meno…

APB: Il concetto è che se uno parla di confined spaces a livello internazionale quelli sono e sono chiari. Dopo di che, per fare una esemplificazione, a livello nazionale noi parliamo di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui al DPR 177. Le stesse OSHA[2] hanno cinque definizioni diverse di confined spaces a seconda che sia edilizia, industriale, agricoltura, navi o porti. (…) E lasciamo perdere l’NFPA[3], perché (…)anche le NFPA hanno altre modalità per identificare questi ambienti. Ci sarà un motivo per cui qualcuno ha perso tempo per definire in cinque modi – simili, ma con peculiarità differenti – l’ambiente confinato a seconda di quale tipologia di ambiente è. Ci deve essere un motivo e il motivo è relativo al fatto che non è possibile applicare gli articoli 66, 121 (D.Lgs. 81/2008, ndr) e l’articolo 3 dell’allegato IV a tutto il mondo. Ci sono peculiarità diverse che dovrebbero essere tenute in considerazione…

Cambierà qualcosa in Italia? Miglioreranno le definizioni e le normative?

APB: (…)Io amo citare (…) Neil McManus[4], che tra l’altro è stato in audio conferenza ieri al mio terzo convegno nazionale. Lui, quando ad un certo punto, è stato chiamato dall’ILO[5] a parlare degli ambienti confinati, dei confined spaces, ha detto una cosa lapidaria ma che è di una chiarezza cristallina: “qualsiasi ambiente dove una persona lavora può diventare uno spazio confinato”. Quindi in realtà questa abitudine italica di caratterizzare – quanto è lungo, quanto è largo, quanto è profondo (…) – deve “uscire”. I concetti da noi sono quelli che, ad esempio, portano a fare la valutazione del rischio dimenticando un fattore di rischio che è fondamentale che nella normativa americana che definisce il cosiddetto IDLH, ovverossia la condizione di pericolo grave o immediato per la salute e sicurezza del lavoratore. E al di là del fatto che ci sia presente una sostanza chimica o meno, al di là del fatto che ci siano delle condizioni di rischio diverso, la terza condizione prevista nei IDLH è l’autosalvamento. Se una persona non è in grado in particolari condizioni di essere capace con le proprie forze di poter uscire o poter risolvere una situazione pericolosa.  Su questa condizione dell’IDLH bisogna ragionare. E questo non fa parte della nostra cultura… (…)

No, il problema non è solo il TLV/TWA[6] è l’IDLH, perché se il TLV/TWA è anche rispettato ma se ad un certo punto, come abbiamo sentito in alcuni interventi, vai a fare l’analisi, scopri che la persona che sta facendo quel ripristino con un solvente (…) è abbondantemente oltre all’IDLH, cioè a quella concentrazione tale per cui si genera una situazione di pericolo o di rischio immediato per la salute e sicurezza, addirittura la vita, del lavoratore…(…)

Tuttavia l’IDLH alcuni lo conoscono, altri non sanno cos’è… (…)

Tutta la norma americana si basa su questo, non va a vedere quanto è lungo, quanto è largo. Dice, con alcune condizioni specifiche per quanto riguarda l’accessibilità e la presenza di rischi, hai una condizione IDLH? Loro (…), ad esempio, dicono “ambiente confinato con il permesso d’ingresso o senza?”, se sei nella condizione di richiedere, di essere un permitted required confined spaces, a questo punto te lo modulo in tre classi: A, B e C. A è IDLH, B è un grado severo ma non così rilevante, C è un grado inferiore… (…)

Quest’idea è di scalare i livelli di rischio, di scalare le attività necessarie in funzione dell’effettivo rischio.

L’applicazione pedissequa del decreto 177 porta la gente fondamentalmente a fare tutto anche quando c’è un livello di rischio molto basso. E tutto questo è spesso utilizzato per dire “Devo fare tutta questa roba qui, per una roba così? Allora non faccio niente”. Chiedere tutte queste cose a fronte di rischi anche limitati o gestibili in maniera diversa e non avere questa scalabilità del rischio con obblighi conseguenti, pone le aziende nella condizione o dà il là per (…) non fare niente.

Dunque cosa dovrebbe cambiare?

APB: [Bisognerebbe] limitare l’applicazione o l’orientamento legislativo a dare i principi derivanti dalla Costituzione: tutela del lavoro, tutela dei lavoratori, … Poi su alcuni argomenti limitarsi a sollecitare in maniera puntuale l’applicazione di norme tecniche che sono molto più dinamiche, che sono condivise, che fanno parte comunque dell’evoluzione e che sono facilmente aggiornabili rispetto all’esperienza.

La 177 così è e ce la terremo per i prossimi 10 anni. Esattamente nello stesso modo. Ti esce la circolare del Ministero che spiega il subappalto? È una circolare: che valenza giuridica ha un domani? Se qualcuno ha un problema e va in giudizio… Il giudice applicherà la legge o andrà a vedere anche le eventuali interpretazioni e i parere dei vari soggetti? (…)

Credo che su alcune tematiche come questa andrebbe veramente fatto questo: uno sforzo per capire cosa c’è a livello internazionale,  a livello di evoluzione. Perché gli americani sono 40 anni che sono dietro alle norme Osha…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Spazi confinati: chiarimenti e criticità del DPR 177″…

Per altri approfondimenti rimandiamo anche al post “Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011”.

Intervista di Tiziano Menduto



[1] Decreto Legislativo n.272 del 27 luglio 1999 – Adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori nell’espletamento di operazioni e servizi portuali, nonché di operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi in ambito portuale, a norma della legge 31 dicembre 1998, n. 485, ndr

[2] Occupational Safety and Health Administration (USA), ndr

[3] National Fire Protection Association

[4] CIH, ROH, CSP, NorthWest Occupational Health & Safety North Vancouver, British Columbia, Canada

[5] International Labour Organization

[6] Threshold Limit Value (TLV)-Time Weighted Average (TWA): Il TLV rappresenta il valore limite di soglia, le concentrazioni sotto le quali la maggior parte dei lavoratori può rimanere esposta senza alcun effetto negativo per la salute. I TLV/TWA sono relativi al valore medio ponderato nel tempo. La durata di esposizione media, riportata negli elenchi dei limiti di esposizione professionale, è pari, di norma, a un orario lavorativo di otto ore al giorno.

Responsabilità sociale 01: se le imprese fossero socialmente responsabili

Malgrado le percentuali, a volte sbandierate con eccessiva leggerezza, sugli errori umani alla base degli infortuni professionali, è indubbio che se le imprese fossero “socialmente responsabili” avremmo meno incidenti e malattie professionali.

Essere socialmente responsabili per un’azienda vuol dire essere consapevoli dell’impatto delle proprie decisioni e attività sulla società e sull’ambiente, significa tener conto non solo degli aspetti economici della gestione aziendale, ma anche dell’ambiente e del contesto sociale in cui l’azienda è inserita, con riferimento alle condizioni di lavoro e, dunque, in relazione anche alle tutele in materia di salute e sicurezza.

Cosa bisogna fare per essere socialmente responsabili? Ci sono normative e indicazioni sulla responsabilità sociale d’impresa?

Per parlarne e fornire qualche informazione utile riprendo una mia intervista fatta qualche mese fa a Lucina Mercadante della Consulenza Accertamento Rischi e Prevenzione dell’INAIL che si è lungamente occupata della responsabilità sociale d’impresa, con particolare riferimento alla norma UNI ISO 26000Guida alla responsabilità sociale”. Intervista che è stata pubblicata   su PuntoSicuro del 24 maggio 2019 nell’articolo “La responsabilità sociale riguarda anche la tutela della sicurezza?”.

Ne riportiamo oggi la prima parte, rimandando la seconda parte, che si sofferma in particolare su due prassi di riferimento UNI, ad un futuro post.

Prima di arrivare ad affrontare le novità in materia di Responsabilità Sociale d’Impresa vediamo di ricordare brevemente ai lettori non solo cosa sia la responsabilità sociale nel mondo del lavoro, ma anche l’importanza e le finalità della norma UNI ISO 26000…

Lucina Mercadante: Inizio stimolante. Cosa è la responsabilità sociale d’impresa, mi domanda…

Potremmo dire “La responsabilità di ciascuno di noi, che ciascuno di noi ha nei confronti della società”. Se però dovessimo attenerci ad una definizione tecnica e tecnicamente corretta, attingendo all’unica norma internazionale che ad oggi tratti il tema della responsabilità sociale – delle organizzazioni, allora dovremmo intendere la “Responsabilità da parte di un’organizzazione per gli impatti delle sue decisioni e delle sue attività sulla società e sull’ambiente, attraverso un comportamento etico e trasparente che:

  • contribuisce allo sviluppo sostenibile, inclusi la salute e il benessere della società;
  • tiene conto delle aspettative degli stakeholder
  • è in conformità con la legge applicabile e coerente con le norme internazionali di comportamento);
  • è integrata in tutta l’organizzazione e messa in pratica nelle sue relazioni”.

Definizione, questa, certamente complessa ed articolata, che estende la tematica alle organizzazioni, intese come “Entità, o raggruppamento di persone e strutture, con un assetto di responsabilità, autorità e relazioni e con obiettivi identificabili”.

In sostanza è la “Responsabilità che le organizzazioni hanno nel gestire le loro occupazioni e/o preoccupazioni di carattere economico tenendo conto degli altri, laddove gli altri sono gli stakeholder – tutti – avendo in considerazione anche gli impatti e le conseguenze (soprattutto quelle negative) che le loro attività esercitano, anche nei confronti della società e dell’ambiente, oltre che dell’economia, a seguito ed in conseguenza delle decisioni assunte e delle attività intraprese da un’organizzazione, siano queste passate o presenti”.

Tale approccio, e tale visione, trovano sistemazione, organicità, sistematicità, appunto nella UNI ISO 26000, pubblicata nel lontano 2010 e che ad oggi non ha avuto, a mio avviso, il dovuto risalto e, soprattutto, la giusta diffusione.

Quali le ragioni di ciò?

Svariate:

  • la prima, seguendo un ragionamento prosaico e materiale  – la norma non è certificabile, è una linea guida infatti, dunque poco appeal per il mercato e il mondo delle certificazioni;
  • la seconda – troppo avanti rispetto al momento culturale in cui è stata pubblicata – anno 2010. Il mondo commerciale non era allineato con il quadro culturale, economico, produttivo che la norma sin da allora ha tracciato. Parlare di etica, di due diligence, di catena del valore, di corrette prassi gestionali, dieci anni fa, ha rappresentato un approccio ed una narrazione antesignani del modo di fare impresa.

Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile, di sostenibilità – oggi totalmente inflazionato, alterato, sovrausato, che rappresenta la finalità ultima, l’obiettivo verso una visione responsabile che ciascuno di noi, impresa, organizzazione, soggetto privato, deve avere ed assumere – è apparso come fumoso, inutile, se non addirittura privo di consistenza.

Eppure se si studia e interpreta il quadro sinottico della UNI ISO 26000 si comprende immediatamente come ogni possibile costruzione o itinerario si segua per mettere in piedi un modello di RS, la RS stessa appare come un modo di vivere, un tempo di vita, o meglio un tempo, kaiρos direi, nel senso etimologico più stretto.

Tempo che si sviluppa e realizza basandosi su sette principi fondamentali, che costituiscono l’ossatura dell’agire, e che sono la responsabilità di rendere conto, la trasparenza, il comportamento etico, il rispetto degli interessi degli stakeholder, il rispetto del principio di legalità, il rispetto delle norme internazionali di comportamento, il rispetto dei diritti umani, come riportato al punto 4 del quadro su rappresentato.

Dove tale agire deve essere applicato è invece raffigurato nel punto 6, che riporta gli ambiti di applicazione, definiti temi fondamentali, o core subjects.

Ciascun tema fondamentale si connota poi per aspetti specifici, detti core issues, che rappresentano le aree, proprie di quel determinato tema fondamentale, ove possono realizzarsi le correlate azioni ed attività socialmente responsabili.

Volendo esemplificare, preso in considerazione il tema fondamentale “rapporti e condizioni di lavoro” troveremo come aspetti specifici in cui andare a mettere in piedi azioni ed attività socialmente responsabili:

  1. Occupazione e rapporti di lavoro
  2. Condizioni di lavoro e protezione sociale
  3. Dialogo sociale
  4. Salute e sicurezza sul lavoro
  5. Sviluppo delle risorse umane e formazione sul luogo di lavoro

Ed all’interno di ciascuno dei 5 aspetti specifici citati l’organizzazione secondo coerenza, finalità, affinità, può scegliere il proprio agire che si estrinsecherà, preso ancor ad esempio l’aspetto specifico 4 – Salute e sicurezza sul lavoro – attraverso le correlate azioni ed aspettative che una l’organizzazione stessa potrà realizzare.

La UNI ISO 26000 propone:

“Un’organizzazione dovrebbe:

  • sviluppare, attuare e mantenere una politica della salute e della sicurezza sul lavoro basata sul principio che norme severe sulla sicurezza e la salute e le prestazioni dell’organizzazione si sostengono e si rafforzano reciprocamente;
  • comprendere e applicare i principi di gestione della salute e della sicurezza, compresa la gerarchia dei controlli: eliminazione, sostituzione, controlli tecnici, controlli amministrativi, procedure di lavoro e dispositivi di protezione individuale;
  • analizzare e controllare i rischi per la salute e la sicurezza generati dalle sue attività;
  • formulare la richiesta che i lavoratori dovrebbero seguire tutte le pratiche sicure in ogni momento e assicurarsi che i lavoratori seguano le procedure corrette;
  • fornire l’attrezzatura di sicurezza necessaria, compresi i dispositivi di protezione individuale, per la prevenzione di lesioni, malattie e incidenti di lavoro e per la gestione delle emergenze;
  • registrare e investigare tutti gli incidenti e i problemi relativi alla salute e alla sicurezza per ridurli al minimo o eliminarli;
  • trattare i modi specifici in cui i rischi per la sicurezza e la salute sul lavoro (OHS) influiscono diversamente sulle donne (per esempio le donne in gravidanza, che hanno appena partorito o che stanno allattando) e sugli uomini o sui lavoratori in circostanze particolari quali, per esempio, persone con disabilità o lavoratori inesperti o più giovani;
  • fornire uguale protezione in materia di salute e sicurezza ai lavoratori part-time e temporanei, e ai lavoratori dei subappaltatori;
  • cercare in tutti i modi di eliminare i pericoli psicosociali nel luogo di lavoro, che contribuiscono o conducono a stress e malattia;
  • fornire formazione adeguata a tutto il personale su tutti gli argomenti pertinenti;
  • rispettare il principio che le misure di salute e di sicurezza sul luogo di lavoro non dovrebbero comportare alcun esborso economico da parte dei lavoratori;
  • basare i propri sistemi per la salute, la sicurezza e l’ambiente sulla partecipazione dei lavoratori coinvolti e riconoscere e rispettare i diritti dei lavoratori di:
    • ottenere informazioni tempestive, complete ed accurate sui rischi per la salute e la sicurezza e sulle migliori prassi utilizzate per affrontare tali rischi,
    • informarsi liberamente ed essere consultati su tutti gli aspetti della loro salute e sicurezza correlati al loro lavoro,
    • rifiutare un lavoro che possa ragionevolmente comportare un pericolo imminente o serio per la loro vita o salute o per la vita e la salute di altri,
    • chiedere consiglio ad organizzazioni esterne dei lavoratori e dei datori di lavoro e ad altri che hanno esperienza,
    • relazionare su questioni legate alla salute e alla sicurezza alle autorità competenti,
    • partecipare a decisioni e attività sulla salute e la sicurezza, compresa l’investigazione di incidenti e infortuni,
    • essere liberi da minacce di ritorsioni per aver agito in uno di questi modi”.

Beh, anche solo attraverso un unico esempio, questo, si può di certo affermare che la UNI ISO 26000 offre veramente una visione a tutto tondo; e questo sin dal 2010.

A questo punto mi permetto io di aggiungere un quesito e di proporre anche la risposta.

Come mai una norma di così ampia portata non è stata valorizzata come avrebbe dovuto? E non ha trovato diffusione ed applicazione come sarebbe naturale, considerato quanto offre?

Semplice: troppo avanti per le dinamiche del momento; troppo prematura per un contesto-mondiale non pronto. Adesso però, e da anni ormai, si parla continuamente di sostenibilità: ecco la sostenibilità è la parte di RSO (responsabilità sociale delle organizzazioni) che le organizzazioni perpetrano nel condurre le loro attività tenendo conto dell’impatto sulle generazioni future cui va garantito stesso benessere, dunque almeno stessa diponibilità di risorse offerte a noi se non migliori, anche in virtù delle nuove soluzioni che via via vengono rese disponibili.

Da quanto ci ha raccontato sembra che tra i temi rilevanti correlati alla responsabilità sociale delle imprese, si tenga dunque effettivamente conto anche delle condizioni di lavoro e la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori…

L.M.: Imprescindibilmente direi. Al punto tale che, oltre ad essere un aspetto specifico espressamente previsto all’interno di uno dei temi fondamentali – rapporti e condizioni di lavoro – di cui si compone il percorso di RS che ogni organizzazione deve intraprendere se vuole seguire un percorso secondo la UNI ISO 26000, l’ambito della salute e sicurezza sul lavoro rappresenta, come abbiamo già visto, un’area trasversale a tutti i temi fondamentali, cui vengono riconosciute una significatività ed una strategicità pari a quelle attribuite alla catena del valore ed agli aspetti economici.

Senza dover poi necessariamente richiamare standard di adozione volontaria, mi piace riportare il ragionamento nel contesto nazionale e nel panorama legislativo italiano.

Il legislatore ne prevede l’espressa articolazione nell’ambito del D.Lgs. 81/2008 e s.m.i., il nostro Testo unico, che ne inserisce la definizione (Articolo 2) come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate” e poi richiama le figure cardine, datore di lavoro, medico competente, lavoratori a seguire, nella estrinsecazione del ruolo, a mettere in atto comportamenti responsabili, ispirati ai criteri della RS.

Proprio come rappresentato in seno al D. Lgs. 81/2008 e s.m.i., ove la connessione profonda fra la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e la responsabilità sociale acquista valore e carattere quasi vincolanti, ed addirittura nell’orientare i comportamenti secondo i principi della responsabilità sociale, si ravvisano le peculiarità atte a migliorare i livelli di tutela definiti legislativamente.

Addirittura, nello stesso Testo si invita a (Articolo 6) “valorizzare sia gli accordi sindacali sia i codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria, che (…omissis) orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente”, e a rafforzare la connessione profonda fra la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e la responsabilità sociale che qui, assume ed acquista valore e carattere quasi vincolanti, se si ravvisano peculiarità atte a migliorare i livelli di tutela definiti legislativamente.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “La responsabilità sociale riguarda anche la tutela della sicurezza?”…

Intervista di Tiziano Menduto

Regolamento europeo DPI 01: criticità e applicazione

Benché i dispositivi di protezione individuale (DPI) debbano essere impiegati (come indicato nel D.Lgs. 81/2008) solo “quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro”, è indubbio che i DPI siano un importante risorsa, anche se non la prima, per la prevenzione e riduzione degli infortuni sul lavoro.

Per questo motivo mi pare interessante riportare, in questo e in prossimi articoli del blog, alcune informazioni sul nuovo Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui dispositivi di protezione individuale, che abroga la Direttiva 89/686/CEE del 21 dicembre 1989 e che si applica già dal 21 aprile 2018 (in questa data è abrogata la Direttiva 89/686/CEE).

Alcune brevi informazioni correlate da alcune interviste e approfondimenti realizzate, come si vedrà, prima del 21 aprile, ma ancora in grado di fornire utili indicazioni agli operatori sulle novità in atto.

Ricordiamo innanzitutto che Regolamento, rispetto anche a quanto contenuto nel decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 (Attuazione della direttiva 89/686/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi di protezione individuale), ha leggermente modificato la divisione in categorie dei DPI.

Una nuova divisione in categorie – contenuta nell’allegato I del Regolamento 2016/425 – che non può che avere conseguenze sullo stesso D. Lgs. 81/2008 e sugli allegati.

E, come ricordato nell’articolo “L’applicazione del nuovo regolamento europeo sui DPI” pubblicato su PuntoSicuro il 23 marzo 2018, le categorie di rischio da cui i dispositivi di protezione individuale sono destinati a proteggere gli utilizzatori secondo il nuovo Regolamento sono tre:

  • la categoria I “comprende esclusivamente i seguenti rischi minimi:
    • lesioni meccaniche superficiali;
    • contatto con prodotti per la pulizia poco aggressivi o contatto prolungato con l’acqua;
    • contatto con superfici calde che non superino i 50 °C;
    • lesioni oculari dovute all’esposizione alla luce del sole (diverse dalle lesioni dovute all’osservazione del sole);
    • condizioni atmosferiche di natura non estrema”.
  • la categoria III comprende “esclusivamente i rischi che possono causare conseguenze molto gravi quali morte o danni alla salute irreversibili con riguardo a quanto segue:
    • sostanze e miscele pericolose per la salute;
    • atmosfere con carenza di ossigeno;
    • agenti biologici nocivi;
    • radiazioni ionizzanti;
    • ambienti ad alta temperatura aventi effetti comparabili a quelli di una temperatura dell’aria di almeno 100 °C;
    • ambienti a bassa temperatura aventi effetti comparabili a quelli di una temperatura dell’aria di – 50 °C o inferiore;
    • cadute dall’alto;
    • scosse elettriche e lavoro sotto tensione;
    • annegamento;
    • tagli da seghe a catena portatili;
    • getti ad alta pressione;
    • ferite da proiettile o da coltello;
    • rumore nocivo”.

La categoria II “comprende i rischi diversi da quelli elencati nelle categorie I e III”.

E se la categoria di rischio dei DPI è importante per le procedure di valutazione della conformità dei DPI (la dichiarazione di conformità UE attesta il rispetto dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza), altre piccole modifiche riguardano poi proprio gli stessi requisiti essenziali di salute e di sicurezza dei DPI, come riportati nell’allegato II del nuovo regolamento.

Se, di fronte ad un Regolamento, manca la necessità di un decreto di recepimento specifico, la necessità di normative applicative specifiche è avvertita anche dal legislatore che nella legge 25 ottobre 2017, n. 163Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017” ha previsto un aggiornamento, un adeguamento della normativa in essere, anche con riferimento al tema delle sanzioni e delle notifiche, che dovrebbe avvenire indicativamente (se le nostre leggi non fossero purtroppo spesso in perenne ritardo) entro il 21 novembre 2018.

Rimandando all’articolo di Puntosicuro riguardo al testo della legge 25 ottobre 2017, n. 163, concludo ora con una prima breve intervista a Virginio Galimberti che ricopre vari ruoli in UNI (Ente italiano di normazione) ed è, in particolare, Presidente della Sottocommissione DPI.

Ricordiamo ancora che l’intervista è stata realizzata qualche settimana prima della data di applicazione del Regolamento (21 aprile 2018).


Quali sono le conseguenze più rilevanti della prossima applicazione del regolamento UE 2016/425?

Virginio Galimberti: “La prossima applicazione del regolamento UE 2016/425 prevista per il 21 Aprile 2018 comporterà sicuramente parecchie modifiche alla legislazione nazionale in particolare in tutte quelle parti che fanno specifico riferimento alla abrogata D.E. 89/686/CEE.

Di fatto il Regolamento va a sostituire (o modificare, come sembra di capire dall’art 6 comma 3 lettera a) della legge 163/2017) il D.Lgs. 475/92 emanato per il recepimento a livello nazionale della sopra citata direttiva.

L’eventuale abrogazione o modifica del D.Lgs. 475/92 dovrebbe comportare a sua volta la modifica dell’articolo 76 comma 1 del D.Lgs. 81/2008 (Requisiti dei DPI) nel quale, come unico requisito base, si dice che il DPI deve essere conforme alle norme di cui al D.Lgs. 475/92.

Altro punto del regolamento che dovrebbe causare la modifica del D.Lgs. 81/2008 (art 77 comma 5 obbligo di addestramento) sta nel fatto che inserisce in terza categoria (grandi rischi o “salvavita” per la vecchia direttiva o D.Lgs. 475/92) i dispositivi di protezione dell’udito che prima erano allocati nella seconda categoria.

L’attuale art 77 comma 5 richiede che: l’addestramento è indispensabile per ogni DPI che ai sensi del decreto legislativo  4 dicembre 1992, n. 475, appartenga alla terza categoria e per i dispositivi di protezione dell’udito.

Ulteriore conseguenza dell’applicazione del regolamento UE 2016/425 nei confronti del D.Lgs. 81/2008 consiste nell’adeguamento della terminologia riportata nell’allegato VIII del decreto.

Ai fini dell’applicazione dei nuovi Requisiti Essenziali di Salute e di Sicurezza (RES), oltre ad inserire un capitolo “Osservazioni preliminari” con il quale si specifica cosa sono i RES che devono essere conferiti da parte del fabbricante al DPI e come ciò deve essere fatto, al punto 1 viene giustamente sostituito il termine “Assicurare” riportato nella DE con “Offrire”.

La maggior parte dei cambiamenti è rappresentato da un adeguamento più consono dei termini mantenendo inalterati i requisiti richiesti.

Come novità si possono evidenziare le seguenti aggiunte:

– Punto 1.3.4 – relativo a “Indumenti protettivi contenenti dispositivi amovibili” (es.: giacche per motociclisti)

– Punto 1.4 – Istruzioni e informazioni del fabbricante – i) il riferimento al presente regolamento e, se del caso, i riferimenti ad altre normative di armonizzazione dell’Unione; – k) i riferimenti alla o alle pertinenti norme armonizzate utilizzate, compresa la data della o delle norme, o i riferimenti ad altre specifiche tecniche utilizzate; – l) l’indirizzo internet dove è possibile accedere alla dichiarazione di conformità UE – Le informazioni di cui alle lettere i), j), k) e l) non devono essere contenute nelle istruzioni fornite dal fabbricante, se la dichiarazione di conformità UE accompagna il DPI

– Punto 3.8.2 – Dispositivi conduttori (Lavori sotto tensione)

Con riferimento alla documentazione tecnica che il fabbricante deve produrre per la certificazione dei DPI il nuovo regolamento, a differenza della abrogata direttiva, non fa più distinzione di contenuti tra la prima categoria e le altre.

Una delle novità per i produttori di DPI di prima categoria consiste nel fatto che devono prevedere il “Controllo interno della produzione” (Modulo A) non richiesto dalla legislazione precedente.

Altro grosso problema per il quale al momento non si riesce a recuperare indicazione è rappresentato dalla gestione del periodo di interregno di un anno tra il regolamento e la direttiva che viene abrogata dal 21 Aprile 2018 ma per alcuni aspetti resta in vigore fino al 21 Aprile 2019”.

 

In alcuni prossimi post, sempre dedicati a questo Regolamento, riporterò ulteriori approfondimenti e commenti sulle novità in materia di sicurezza per i lavoratori, gli operatori e le aziende.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

Problemi normativi 01: come verificare le interferenze negli spazi confinati?

 

Non c’è nulla da fare, malgrado abbiamo in Italia – a detta almeno dell’ex magistrato Raffaele Guariniello – ottime leggi,  in materia di salute e sicurezza, tuttavia non mancano le criticità, le oscurità, le difficoltà interpretative. Non mancano i dubbi negli operatori, non mancano le scappatoie per chi ha una visione solo formale della normativa, non sfuggono le differenze interpretative tra gli stessi ispettori e controllori, regionali o statali, del Testo Unico e dei testi correlati.

Probabilmente abbiamo effettivamente una buona legislazione, ma è doveroso non solo riconoscerne la complessità (aumentata dalle migliaia di proroghe e rimandi che rendono incomprensibile e inapplicate le norme), ma anche rilevare la tendenza italiana a normare con la pressione delle emergenze, degli equilibri di potere e delle convenienze. E in questo modo non sempre le norme arrivano da riflessioni motivate, verificate e comprovate da dati reali.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Miriadi di errori nelle normative. Ruscelli impetuosi di dubbi arginati a malapena dagli interpelli. Ritardi continui nei decreti attuativi che spesso ci costano messe in mora dall’Unione Europea e che comunque rendono la normativa incompleta e inefficace. Con Testi Unici che non riescono ad unificare e obiettivi che non vengono raggiunti, come nel caso dell’infinita proroga degli adempimenti antincendio per scuole e alberghi.

 

Un esempio delle cattive conseguenze di questo modo di legiferare mi è parso emblematico e mi ha spinto qualche settimana fa a realizzare e pubblicare su PuntoSicuro, attraverso un originale format comunicativo, una sorta di intervista interattiva a tre persone, rappresentanti di un modo diverso, per idee, competenze e mission, di interpretare e utilizzare la normativa in materia di sicurezza e salute.

Stiamo parlando dell’interpretazione del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Un DPR scandito dalle emergenze di una serie di infortuni mortali avvenuti in spazi confinati e inizialmente depositato, nella fretta, con un errore nel titolo: “confinanti” al posto di “confinati”.

 

Riguardo a questo DPR un articolo di PuntoSicuro ha presentato il 7 novembre 2016 un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”). L’intervento ricordava quanto richiesto dal DPR e si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”.

 

L’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Un’indicazione correlata alla ratio e agli obiettivi della normativa con riferimento specifico anche a quanto contenuto nella nota 11649 del 27 giugno 2013 del MLPS.

Tuttavia in risposta alle sue parole, su PuntoSicuro alcuni commenti  hanno successivamente ribadito che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista interpretativi e per cercare eventuali punti di contatto ho realizzato un’intervista a più voci: un’intervista in cui le domande non sono elaborate solo dal giornale, ma anche da ciascun interlocutore che ha avuto la possibilità di proporre a sua volta una o due domande per gli altri intervistati.

 

Continuiamo riprendendo le parole dell’articolo di PuntoSicuro e della prima parte dell’intervista. Nei prossimi giorni pubblicherò sul blog anche la seconda parte…


A questa inusuale forma di intervista hanno gentilmente partecipato:

Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza) che, come abbiamo mostrato, ha presentato l’intervento al convegno sugli spazi confinati;

Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza) che ha commentato criticamente l’intervento;

Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) che su queste tematiche relative alla certificazione ex 171/2011 si è confrontata in passato all’interno della propria Commissione di Certificazione.

 

Per chiarezza riportiamo anche un breve estratto della parte dell’articolo 2 del DPR 177/2011, il punto c) del comma 1, che fa riferimento alla certificazione dei contratti:

Art. 2 Qualificazione nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati

1. Qualsiasi attivita’ lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati puo’ essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti:

a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze;

b) integrale e vincolante applicazione anche del comma 2 dell’articolo 21 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nel caso di imprese familiari e lavoratori autonomi;

c) presenza di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione, in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale esperienza deve essere necessariamente in possesso dei lavoratori che svolgono le funzioni di preposto;

(…)

(…)

Partiamo oggi dalle risposte di Massimo Peca alle domande di Flavia Pasquini, Carmelo G. Catanoso e PuntoSicuro.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto?

Massimo Peca: Di entrambi.

Perchè?

Massimo Peca: Il termine “appalto” è riportato nell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011 ed è condizionato dalla frase “…in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati…”.

Chiaramente, l’impiego di lavoratori “appaltati” si riferisce a quelli aventi un rapporto di lavoro (di qualsiasi tipo) con le imprese a cui si appalta il lavoro da svolgere e la stessa definizione di “lavoratore” credo che vada intesa nel senso più ampio, quindi comprendendo quelli autonomi. Questa, in buona parte, è la stessa filosofia dell’articolo 2, comma 1, lettera a) del DLGS 81/2008 ed è una delle notevoli differenze tra la legislazione giuslavoristica (prevalentemente amministrativa) e quella che garantisce la salute e la sicurezza del lavoro (prevalentemente penale). Basti pensare, ad esempio, anche alla definizione di “datore di lavoro” contenuta nell’articolo 299 del medesimo decreto legislativo.

 

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati?

Massimo Peca: Sì.

Perchè?

Massimo Peca: Lo deduco dall’ampio contenuto della frase: “…ovvero con altre tipologie contrattuali…” dell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011. D’altra parte, se non fosse così, ci sarebbe una inspiegabile discriminazione tra lavoratori, con la conseguente diminuzione delle tutele imposte dal DPR, non certo da tutte le altre norme.

L’unica ed espressa esenzione di alcuni obblighi, sono quelli per il datore di lavoro che impiega direttamente i suoi lavoratori per svolgere attività negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui ha la “disponibilità giuridica”. 

Le tutele/obblighi del DPR 177/2011 sono estesi perfino ai lavoratori autonomi e, in parte, alle imprese familiari. Difformemente dal DLGS 81/2008. Penso che anche questo decreto legislativo non dovrebbe fare nessuna differenza tra lavoratori, se non altro perché i costi sociali della mancata prevenzione sono a carico di tutta la collettività nazionale. Quindi, mi sembra chiara la portata generale del DPR relativamente alle attività preventive che devono essere garantite, sebbene, tale regolamento, non innova quasi per nulla quanto già previsto dal DLGS 81/2008. Anzi. Lo stesso concetto di “qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi” non serve ad altro se non a stabilire una qualità del lavoro che deve servire a tutelare chi lo svolge. Chiunque sia. Questo lo condivido, ma, come ho detto: “… è un problema generale per tutti gli ambienti di lavoro…”. 

—–

 

Domande di Carmelo Catanoso:

Dal suo intervento presentato su PuntoSicuro, lascia intendere che una eventuale certificazione anche dei contratti d’appalto, sia auspicabile in quanto in grado di apportare dei benefici nella gestione delle attività negli “spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento”. Può spiegare quali siano i benefici concreti che tale adempimento può produrre nella gestione operativa della sicurezza?

Massimo Peca: Come ho già avuto modo di dire, l’obbligo di certificazione dei contratti di appalto mi sembra chiaro.

Un beneficio concreto è quello relativo alla verifica dell’organizzazione della sicurezza, sia della sua progettazione che della gestione del lavoro da svolgere, che si può attuare attraverso l’iter della certificazione da parte di un organismo esterno, presumibilmente esperto nella materia, altrimenti assente, senza considerare le figure preposte a tali funzioni dal DLGS 81/2008.

La prova di quanto affermo sono le incredibili e numerose tipologie di criticità rilevate durante la mia esperienza (anche di chi le dovrebbe controllare), risolte proprio con questa analisi dei requisiti necessari. Tutti previsti dall’articolo 2, comma 1 del DPR 177/2011.

Questa “analisi critica”, trasparente e prestabilita anche nei contenuti, l’ho sempre adottata come fase pre-istruttoria alla presentazione formale della domanda di certificazione ed ha risolto moltissimi problemi, elevando il grado di sicurezza delle ditte affidatarie o subappaltatrici, nonché creando una maggior consapevolezza e conoscenza dei problemi da parte dei committenti. Con questo sistema, la certificazione si ottiene in pochi giorni, mentre la durata del lavoro preparatorio e inversamente proporzionale alla quantità degli inadempimenti riscontrati e corretti “in corso d’opera”.

Questa attività di consulenza, assistenza, promozione e prevenzione è quella prevista e mutuata dall’articolo 4 del DM 21 luglio 2004, dall’articolo 81 del DLGS 276/2003 e dal DLGS 124/2004. Quindi, nulla di improvvisato o innovativo, ma cogente.

Nei casi di lavori urgenti, indifferibili a mio avviso e tramite una modifica legislativa, si dovrebbe utilizzare la procedura già prevista per le rimozioni urgenti dell’amianto (articolo 256, comma 5). In tal caso, la certificazione avverrebbe in un secondo tempo e le contravvenzioni riscontrate dovrebbero impedire a chi ha effettuato i lavori di poterne fare degli altri, oltre che essere contestate dall’organo di vigilanza. In poche parole: libertà e responsabilità.

Forse è questo il metodo apprezzato da molti ed è stata la ragione della partecipazione al V convegno nazionale sugli ambienti confinati.

Se questi non sono “benefici concreti” per la tutela dei lavoratori, non so quali possano essere: conciliare le esigenze normative con le necessità delle aziende.

Nella relazione che ho presentato al convegno, sintetizzata dalla redazione di Puntosicuro nell’articolo citato, ho elencato le maggiori criticità rilevate. Mi pare che parlino da sole. Certo, sono solo il frutto della mia esperienza locale, quindi non generalizzabili. Ma non credo siano rare.

Inoltre, nella relazione ho affermato chiaramente di sapere che il DPR 177/2011 non prevede espressamente la valutazione delle condizioni in cui sono chiamati ad operare i lavoratori, ma si giunge a questa salutare “ingerenza” sia perché il comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 prevede la necessità di allegare il DURC al contratto di appalto, e questo documento costituisce già una prima fonte di verifica da parte del certificatore, ma anche perché è necessario valutare in concreto la qualificazione delle imprese che operano in tali ambienti mediante, almeno, l’analisi degli aspetti principali previsti dal già citato articolo 2, comma 1: in sostanza tutto il DLGS 81/2008.   

Su questo punto, concorda perfino un esperto e critico della materia come Adriano Paolo Bacchetta. A tale proposito si veda quanto riportato nel suo articolo su PuntoSicuro: “…è necessario andare oltre a quanto strettamente previsto dal D.Lgs. 276/2003; ovvero ogni Commissione di certificazione, a prescindere dal soggetto giuridico che ne ha disposto la costituzione, deve quindi avere adeguate competenze per verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti di natura strettamente giuslavoristica sopraelencati, anche altri aspetti peculiari richiesti dal D.P.R. 177/2011 per la qualificazione delle imprese, quali l’effettiva presenza dei requisiti previsti dall’art. 2 c1..”.

Quindi, presumendo la presenza di un componente qualificato nella commissione di certificazione (non previsto), se vogliamo concretamente fare prevenzione questa è una strada offerta da questo DPR.

Se, invece, si vuole disquisire fra teorici del diritto (ed io non lo sono) possiamo appellarci alle definizioni del codice civile e di tutte le altre leggi che regolano i rapporti economici del lavoro. Nella mia relazione ho espresso inequivocabilmente la mia contrarietà a questo DPR ed ho evidenziato i difetti che contiene, proponendo un’alternativa. Ho in mente altre modifiche che potrei evidenziare, se ne avrò l’opportunità.

Ma, attualmente, questa è la legge. Cerco di usarla nel miglior modo possibile per il fine che essa si pone: la tutela della vita dei lavoratori. 

 

Cosa ne pensa della decisione del legislatore di limitare ai soli committenti che sono anche datori di lavoro, gli obblighi previsti dal DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Mi pare di capire che intende riferirsi, in sostanza, all’esclusione dell’obbligo di certificazione e della nomina di un incaricato per la supervisione dei lavori svolti presso aziende in cui il datore di lavoro impiega i propri lavoratori per effettuare attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui abbia la disponibilità giuridica. 

Se è così, e seguendo la logica del DPR, penso che sia un errore, dovuto all’equivalenza che si fa in questo DPR tra certificazione del contratto di lavoro e garanzia, che questa offre, della presenza di condizioni ottimali inerenti la sicurezza/salute.

Nel caso delle prerogative concesse a questi datori di lavoro, presumere che sia superfluo certificare un contratto di lavoro, solo perché è già instaurato stabilmente e questa “stabilità” garantisca un lavoro svolto in sicurezza, ed inoltre, il datore di lavoro abbia tutte le necessarie conoscenze per controllare l’esecuzione delle attività da svolgere, è quantomeno poco reale in moltissimi casi. In altri è plausibile. Ad esempio, penso al settore chimico e dei servizi pubblici di fornitura di acqua, metano o telefonia.

In generale, mi sembra una pericolosa presunzione dell’effettiva presenza della prevenzione legata solo all’astratto obbligo del rispetto della legge. Secondo me, la regolarità del rapporto di lavoro non garantisce affatto che questo si svolga in modo sicuro e salutare, tutt’al più può rappresentare un indizio positivo.

Basti pensare che perfino nelle aziende con certificazioni OHSAS 18001 (e simili) o in quelle a rischio di incidenti rilevati (DLGS 105/2015) si verificano infortuni e malattie professionali, gravi e gravissimi.

Con questo non voglio dire che bisogna certificare tutto e sempre, come sarebbe logico aspettarsi da questo DPR, che segue la logica nostrana di prevedere inizialmente obblighi generali e poi introdurre distinzioni e deroghe.

Al contrario, come ho già detto nella mia presentazione al Convegno, bisognerebbe usare in sua vece la qualità della vigilanza e non la quantità, molto più efficace. Anche perché, durante lo svolgimento di questa funzione, si hanno tutti i poteri di polizia giudiziaria che, invece, mancano nell’iter della certificazione: una miscela mal riuscita di tutele giuslavoristiche e della salute/sicurezza dei lavoratori. 

—–

Domanda di Tiziano Menduto (PuntoSicuro): 

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Sicuramente dall’ambiguità del DPR, dalla sua incompletezza a cui si devono aggiungere le naturali predisposizioni dovute alle diverse attività professionali svolte.

Auspico delle modifiche sostanziali che rendano efficace un provvedimento normativo scritto con una fretta relativa, sebbene condivisibile nello scopo, ma molto discutibile nella sua applicazione quotidiana, di cui la certificazione è senz’altro il tratto caratteristico e sicuramente quello più inapplicato perché eluso, che ripropone un vecchio schema burocratico, pressoché medioevale: un atto di garanzia concesso da terzi, senza il quale si è interdetti ad operare.   

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

 

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Formazione alla sicurezza 4: andiamo a controllare?

Non c’è dubbio – come già raccontato in diversi post precedenti, sia in riferimento a un documento sindacale che ad un documento della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP) – che il sistema formativo per migliorare la prevenzione di infortuni e malattie professionali nei luoghi di lavoro non sia esente da falle. Da carenze, da deviazioni, da non conformità, in alcuni casi, da truffe vere e proprie, che rovinano uno dei momenti più importanti per la gestione della salute e sicurezza aziendale.

Non bisogna poi dimenticare che la responsabilità di questi inefficaci percorsi formativi ricadono non solo su chi eroga la formazione, ma anche sulle aziende che volendo risparmiare sui costi della sicurezza non si preoccupano della qualità dei percorsi proposti per i propri lavoratori.

E ci sarebbe una gran necessità di poter controllare, di poter verificare la qualità e l’efficacia della formazione erogata nelle aziende in Italia. Servirebbe un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati.

Per approfondire queste problematiche ho realizzato per il giornale PuntoSicuro un’intervista a tre degli estensori del documento CIIP: Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).

Una lunga intervista divisa in tre parti.

Nel post precedente ho presentato la prima parte che si soffermava in particolare sul “mercato della sicurezza” in Italia e continuiamo oggi con la seconda parte che entra nel merito delle proposte del documento.

Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ad erogare formazione alla sicurezza.

Queste le proposte CIIP:

– individuazione di soggetti autorizzati “ex lege” solamente tra enti, istituzioni o strutture private che svolgono attività di formazione in modo istituzionale (Regioni/ASL, INAIL, Università, Scuole Superiori di Formazione, ecc.), dotati di specifica conoscenza e competenza nel settore;

– tutti gli altri soggetti che svolgono attività di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sia autonomamente che in collaborazione con soggetti legittimati, devono dimostrare/certificare la competenza (accreditamento regionale con certificazione competenze e/o sistema di gestione, secondo standard riconosciuti in Italia e negli altri Paesi);

– tutti i soggetti accreditati/certificati possono operare sull’intero territorio nazionale (riconoscimento reciproco accreditamenti regionali).

Un’altra proposta chiede di programmare un Piano Nazionale dei Controlli (per gli organismi di vigilanza ASL) mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati e la definizione di metodi per la verifica dell’efficacia della “funzione educativa” della formazione erogata.

Inoltre le proposte CIIP affrontano anche il tema dell’istituzione del libretto formativo individuale elettronico e l’efficacia della formazione e-learning.

 

Riportiamo una parziale trascrizione della seconda parte dell’intervista, come pubblicata su PuntoSicuro lo scorso 21 gennaio con l’articolo “Le criticità della formazione: la carenza dei controlli sull’efficacia”.

 

Parliamo delle proposte, della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, in materia di formazione. Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ex lege ad erogare la formazione e la possibilità di certificazione/validazione di altri soggetti…

Norberto Canciani: Per legge, per una serie di percorsi legislativi degli anni passati, sono individuati, come soggetti autorizzati ad erogare la formazione, soggetti istituzionali quali le Regioni, le Asl, le Università, l’Inail, i Vigili del Fuoco, …

Oltre a questi soggetti istituzionali sono individuate anche le associazioni datoriali e sindacali. Per la verità in origine, già con riferimento al D.Lgs. 626/94, venivano individuati questi soggetti in quanto componenti di quelli che erano gli organismi che avevano la funzione specifica della formazione, gli organismi paritetici. Soggetti che, come individuati dalla norma di allora, erano costituiti attraverso la pariteticità dell’associazione datoriale e sindacale ed erano costituiti proprio per fare formazione con organizzazione, competenze e abilità adeguate.

Questo passaggio negli anni si è un po’ perso. Così invece di parlare di organismi paritetici si è cominciato a parlare di organismi paritetici e enti bilaterali, confondendo così ruoli anche diversi. Fino ad arrivare a consentire a soggetti datoriali e sindacali di poter erogare la formazione. Nessuno mette in discussione questa scelta, ma il vero è problema è che se questi soggetti non ne hanno la capacità succede quanto già raccontato (nella prima parte dell’intervista, con riferimento alle deleghe date per la formazione ad altri soggetti formativi più o meno abilitati e competenti, ndr).

La proposta CIIP dice: evitiamo di consentire a tutti di erogare formazione, a parte i soggetti istituzionali che lo fanno già per definizione e per competenze (vedi, ad esempio, le Università).

Questi sono gli unici legittimati: tutti gli altri soggetti che non hanno nella loro mission l’erogazione della formazione, per poterlo fare devono essere in qualche modo validati attraverso procedure. Le procedure attualmente vigenti sono essenzialmente le procedure dell’accreditamento regionale. Noi abbiamo proposto qualcosa di più: che si arrivi ad una certificazione che abbia anche una valenza internazionale.

E che abbia anche una valenza nazionale, perché ancora oggi l’accreditamento è regionale. Quindi un soggetto che è accreditato a svolgere formazione in una regione non può andare a farla nelle altre. O meglio, per svolgere formazione nelle altre regioni, deve farsi accreditare di volta in volta nelle diverse regioni.

Questo è un meccanismo molto farraginoso che porta a diverse distorsioni (vedi la prima parte dell’intervista, ndr).

Per cui è opportuno semplificare lasciando la legittimazione soltanto ai soggetti istituzionalmente legittimati e prevedendo una procedura di “autorizzazione” per i soggetti che vogliono erogare formazione, una autorizzazione che abbia una valenza più ampia, per lo meno sull’intero territorio nazionale…

 

Ci potrebbero essere variazioni riguardo al tema dell’accreditamento regionale con la probabile futura approvazione della riforma costituzionale che riporta le competenze in materia di sicurezza sul lavoro allo Stato?

Norberto Canciani: (…) In realtà la formazione professionale rimane di competenza regionale. Bisogna capire se ci sarà una ridefinizione della formazione in materia di sicurezza sul lavoro. È una formazione specifica e particolare che sfugge alla legislazione delle competenza regionale in materia di formazione professionale? Oppure no?

La complessità della questione è data dal fatto che noi parliamo di due piani di formazione diversi. Un conto è la formazione che la normativa prevede di base e specifica per tutti i lavoratori, un conto è la formazione professionale che deve essere erogata agli specialisti, pensiamo ad esempio ai corsi di formazione per gli RSPP. E’ chiaro che qui parliamo di un livello di formazione più elevata. Pensare che questo tipo di formazione sfugga al controllo regionale è al momento non così scontato.

E’ dunque possibile che permanga ancora una competenza regionale in tal senso anche a modifica legislativa avvenuta….

 

Giancarlo Bianchi: (…) Ricordo inoltre che a partire dalla Legge n. 4 del 14 gennaio 2013 e dal decreto legislativo 13/2013, (…)per la prima volta si parla di conoscenze, abilità e competenze professionali. E quindi si identifica con precisione, a seconda della professione, quali sono le differenze di conoscenze, abilità e competenze. Quindi ci sono strumenti, unificati a livello europeo, che per la prima volta permettono di fare una formazione (…) unificata a livello italiano e che può permettere (…) ai professionisti di andare nei 28 paesi dell’Unione Europea… Il processo è un processo molto articolato che esige diverse soluzioni di carattere legislativo generale, ma anche di applicazione puntuale e concreta delle due normative… (…)

 

 

In un’altra vostra proposta richiedete un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace”… Ci sono esperienze di controlli di questo tipo? Come avvengono questi controlli?

Norberto Canciani: (…) Come avviene? Per esperienza passata ci sono controlli che passano da momenti formali, ad esempio verificare la coincidenza della data in cui è stata erogata la formazione con l’effettività della formazione, attraverso controlli incrociati su badge di timbratura,… Poi vengono acquisiti i fascicoli formativi che ogni soggetto formatore deve avere, in cui deve esserci l’analisi dei bisogni formativi… Tutte cose peraltro scritti nell’Accordo Stato-Regioni… (…)

Dopo di che spesso si entra nel merito dell’efficacia della formazione andando a vedere i comportamenti reali di chi sta lavorando… E’ chiaro che si entra in un aspetto molto delicato. Ci possono certo essere a volte comportamenti incongruenti rispetto anche ad una formazione efficace, ma se la totalità dei lavoratori si comporta non coerentemente con la formazione erogata, questo è un problema diverso…

Su questi aspetti sono state fatte delle sperimentazioni, sono in corso di elaborazione dei modelli, per vedere, acquisire indicazioni sull’efficacia della formazione.

Negli ultimi tempi questi controlli degli organi di vigilanza aumentano, sicuramente in occasione degli incidenti. E, posso dire, per mia esperienza passata, che quando ci sono infortuni nella quasi totalità dei casi viene contestata tra le cause una carente, una mancata formazione. E pure in presenza di attestati…

(…)

 

Se l’efficacia formativa non è legata alla modalità formativa, ma alla qualità della formazione erogata, che strumenti ha il datore di lavoro per comprendere, conoscere questa qualità prima di scegliere che formazione erogare ai propri lavoratori? Quali controlli dovrebbero essere messi in atto per verificare l’efficacia della formazione?

Arnaldo Zaffanella: (…) Io ho avuto modo di vedere, essendo un centro convenzionato con strutture straniere per fare formazione, che in questi paesi, contrariamente a noi, l’elemento fondamentale è il controllo finale, l’esame di merito. Bisogna andare a vedere che cosa il lavoratore ha imparato. Si pensi che in molti centri di formazione stranieri addirittura viene allontanato il docente e l’esame viene fatto da una commissione indipendente. (…)

Questo è un elemento critico che si voleva sottolineare… (…)

Questo vale per l’e-learning e vale anche per gli altri modelli di formazione. Bisogna fare in modo tale di avere la certezza che questo addestramento (…) raggiunga l’obiettivo…

(…)

 

Arriviamo poi a parlare di crediti formativi…

Giancarlo Bianchi: Pavanello aveva messo in evidenza come il rilascio di crediti formativi privi di valore svilisse la formazione efficace.

E anche noi abbiamo ripreso un indirizzo condiviso nella CIIP con Pavanello e lo stiamo portando avanti. Lo portiamo avanti nell’ambito delle strutture formative che ci seguono rispettando i criteri legali relativi al rilascio di crediti. Quindi distinguiamo fra i corsi e la partecipazione a convegni: i convegni non possono essere visti come strumento normale di superamento di una formazione efficace di un professionista. Perché se no sviliamo il concetto di formazione. Un convegno prevalentemente è qualcosa in cui si dà una informazione, mentre un corso è invece qualcosa che porta ad un cambiamento comportamentale e di conoscenze.

 

Link all’articolo di PuntoSicuro “Le criticità della formazione: la carenza dei controlli sull’efficacia”

Link alla prima parte dell’intervista.

Formazione alla sicurezza: il diritto dei lavoratori ad una formazione efficace

È indubbio che la formazione dei lavoratori e di tutti gli attori della sicurezza nelle aziende sia uno dei principali strumenti di tutela della salute e sicurezza nelle aziende. È indubbio che solo una formazione efficace possa contribuire a modificare realmente i comportamenti pericolosi e a migliorare le buone prassi e la prevenzione nei luoghi di lavoro. È indubbio anche che una buona formazione non dipenda solo dalla conformità alla legge, ma anche dalla qualità dei contenuti erogati, dalla modalità con cui sono comunicati, dalle competenze dei formatori.

Malgrado tutte queste certezze, la situazione della formazione alla sicurezza nel nostro paese non gode di buona salute.

Certo esistono ottime proposte formative (in aula, in e-learning, …), ma queste proposte rischiano di annegare in un mercato della formazione in cui le aziende rincorrono il minor prezzo senza preoccuparsi della qualità di quanto si propone ai lavoratori. Una situazione che nasce dalla miopia degli imprenditori che non vedono come solo una buona formazione possa diminuire gli alti costi della non sicurezza e che rischia di creare grossi problemi economici a chi propone alle aziende formazioni qualitativamente valide (e inevitabilmente più costose).

In questo mercato della formazione, come racconta un documento della CIIP che presenterò nei prossimi giorni, sono presenti “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti”.

Proprio di fronte alle necessità di denunciare queste zone di elusione, di superare il tema delle conformità di legge per arrivare ai veri obiettivi della formazione, ho deciso di dedicare alcuni dei prossimi post del mio blog informativo, ad una sorta di reportage, di breve indagine sulla situazione della formazione alla sicurezza nel nostro paese.

E iniziamo oggi presentando un documento elaborato da Sebastiano Calleri, Responsabile Salute e Sicurezza del principale sindacato italiano, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil).

Un contributo che speriamo possa essere utile per chiarire la situazione della formazione in Italia e per ribadire come il diritto alla formazione dei lavoratori debba essere inteso solo come diritto ad una formazione valida ed efficace.

Buona lettura.

Tiziano Menduto


Il diritto alla formazione dei lavoratori (e non solo): un problema ancora aperto

di Sebastiano Calleri, Responsabile nazionale salute e sicurezza nei luoghi di lavoro-CGIL

 

Si è appena chiusa la annuale fiera “Ambiente e lavoro”, che si tiene ogni anno a Bologna, e il tema della formazione in SSL anche quest’anno è stato al centro di molte (troppe) iniziative e discussioni. E molto bene ha fatto la CIIP, con una lettera documentata e circostanziata, a denunciare gli abusi o le semplici scorrettezze o addirittura le vere e proprie illegalità che si perpetrano in questo campo ad opera di operatori scorretti e fin troppo tollerati.

Il fatto è, come sempre, che nonostante ci sia stato un evidente miglioramento ed avanzamento delle prescrizioni normative (ovviamente non ancora perfetto, ma si sa che la perfezione è rara avis in questo mondo) attraverso l’81/08 e i famosi accordi Stato-Regioni c’è ancora molto cammino da fare. Questo non tanto perché le norme non siano chiare ma perché esiste una diffusa mentalità imprenditoriale e non solo che cerca in qualche modo di eludere i costi e gli obblighi che comporta un godimento pieno del diritto stesso da parte di tutti i lavoratori e lavoratrici (NB: intendo come tali anche i dirigenti, i preposti e le altre figure del SPP aziendale).

Pensiamo anche alle problematiche tuttora irrisolte (nonostante l’attività legislativa) della formazione in caso di somministrazione di lavoro o di contratti precari, nel caso di lavoratori autonomi che prestino la propria opera in contesti produttivi complessi, o alla ultima previsione del Jobs Act riguardante il non esplicito obbligo di formazione e addestramento alla mansione in caso di demansionamento da parte del DL. E perfino al mancato aggiornamento dell’accordo Sato-Regioni riguardante gli RSPP, che registra ancora nella sua bozza attuale molte critiche sia da parte imprenditoriale che da parte sindacale che istituzionale.

Eppure assistiamo ad un fiorire incredibile di iniziative formative e di corsi di tutti i livelli, e a stanziamenti robusti dal punto di vista economico da parte ad esempio dell’Inail. Ma sono molti i problemi che si riscontrano riguardo a questa tematica: nei relativamente pochi anni che ci separano dalla novella del corpus normativo si è potuto constatare che si sono sviluppate ampie zone di elusione ed evasione degli obblighi, con il quasi generalizzato ricorso a soluzioni di pura apparenza.

Un caso frequentissimo è il rilascio di attestati formativi di comodo a valle di iniziative meramente burocratiche e prive di contenuti utili o fianco realistici, con docenze affidate a formatori non accreditati né accreditabili alla funzione e la vendita di corsi in “formazione a distanza” privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti non pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti e delle aziende italiane. Bisogna dire anche per completezza ed obiettività che tali non conformità hanno potuto svilupparsi proprio a causa della mancanza o della inadeguatezza dei controlli che hanno consentito il dilagare di situazioni illegali, e della forza lobbistica potentissima di alcune associazioni o aziende.

Ovviamente, questa situazione ha agito a scapito della qualità dei corsi stessi e ha impedito agli operatori qualificati, non competitivi in termini di tempi, criteri e modalità di erogazione della formazione stessa di poter essere presenti ed apprezzati dal mercato. Inoltre, alcune pratiche difformi dalla normativa come l’acquisizione di crediti formativi attraverso la partecipazione a convegni, anche poco rilevanti e ancor meno partecipati o di buona qualità, sono diventate sempre più frequenti fino al punto che, in alcune bozze di revisione degli Accordi Stato-Regioni che regolano la materia, tale modalità viene ritenuta accettabile.

Bisogna dire che la scorsa consiliatura della Commissione consultiva ex art.6 D.Lgs.81 ha raggiunto un avanzamento importante: si sono infatti sanciti (dopo un percorso durato anni) i requisiti minimi del formatore abilitato a tenere i corsi in oggetto. Proprio durante quel processo assistemmo al tentativo da parte delle piccole imprese di provare ad introdurre il principio che in questi contesti la formazione potesse essere erogata direttamente dal datore o dal Rspp, senza alcuna esigenza di verifica e certificazione (che ovviamente, penserà qualcuno, non sono garanzie assolute di effettivo svolgimento o di qualità). Questo avrebbe però a nostro avviso determinato una ancora più vasta elusione dell’obbligo, anche perché è facile comprendere che i tempi della produzione e le esigenze organizzative avrebbero facilmente sopravanzato una sottovalutata efficacia prevenzionistica delle attività in questione.

Eppure non ci sarebbe bisogno di ribadire a persone avvedute e ai cultori della cosiddetta “cultura della sicurezza” che, come gli studi effettuati al riguardo mostrano chiaramente, una corretta ed efficace formazione (generale e specifica) è una delle prime fonti di diminuzione degli infortuni e delle malattie professionali. Ma evidentemente l’esigibilità del diritto e la correttezza di svolgimento dello stessa formazione non è tenuta in debito conto neanche dalle istituzioni statali e regionali preposte alla vigilanza, se moltissime denuncia a questo riguardo rimangono inascoltate. C’è da dire anche, però, che alcune previsioni della regolamentazione non rendono la sorveglianza e la sanzione conseguente molto facile. Mi riferisco ad esempio alla poco regolata ma diffusissima forma della modalità on-line di svolgimento dei corsi, che nelle sue pieghe lascia troppa possibilità di elusione da parte delle aziende.

In conclusione, ci sembra di poter affermare che sono opportune e accoglibili tutte le iniziative di finanziamento e di supporto ai processi formativi, ma bisognerebbe mettere in campo qualche sforzo in più per reprimere i diffusissimi comportamenti non corretti o peggio, e poi sfruttare in maniera forse migliore la possibilità della arcifamosa e arcifamigerata “collaborazione” con gli Organismi paritetici e gli Enti bilaterali. Prima che qualcuno smetta di leggere questo articolo a seguito di queste ultime righe, individuando una qualche “captatio benevolentiæ” a favore delle organizzazioni sindacali, provo a motivare questa affermazione. Gli organismi paritetici e gli enti bilaterali con competenze in materia di SSL sono enti formati dalle associazioni imprenditoriali e sindacali maggiormente rappresentative, che firmano i CCNL, e che quindi conoscono bene i contesti produttivi ed organizzativi nei quali questa formazione si deve svolgere. La previsione legislativa che assegnava la possibilità alle aziende di poter avvalersi della collaborazione di questi per l’elaborazione dei piani e per il loro svolgimento, non era una norma vessatoria (come impropriamente affermato da qualcuno) visto il fatto che non è neanche originaria di sanzione, ma una possibilità di sviluppare appunto iniziative in favore della famosa e sbandierata e troppo spesso citata “cultura della sicurezza”.

Credo che proprio a questo aspetto dovremmo porre attenzione in favore di un maggiore sviluppo delle attività di formazione di qualità ed aderenti ai bisogni educativi dei settori specifici. E’ una esigenza dei lavoratori e delle aziende, è un concreto campo di lavoro fruttuoso. Ed è anche un contributo “bilaterale” e “bipartisan” che sarebbe ora che fosse compreso, sviluppato ed implementato tenendo nel giusto e corretto conto le esigenze di produttività e di competitività generali.

Sebastiano Calleri