Digitalizzazione e nuove tecnologie 02: esoscheletri, vantaggi e rischi

Torniamo a parlare della campagna europea 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale” e degli esoscheletri occupazionali parliamo di esoscheletri. Quali sono gli svantaggi e vantaggi? Le risposte di Alberto Ranavolo (Dimeila, Inail).

Con riferimento alla campagna 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”, promossa dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) sul quotidiano online PuntoSicuro in questi anni ho presentato diverse interviste su singole tecnologie e strumenti digitali già disponibili per le aziende e che possono servire a ridurre alcuni rilevanti rischi, ma che nascondono anche alcune sfide e possibili rischi emergenti da conoscere.

In un precedente post di “IndagineSicurezza” ho pubblicato l’intervista all’Ing. Alessandra Ferraro (Inail, Laboratorio IV – Sicurezza degli Impianti di Trasformazione e Produzione – Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti ed insediamenti antropici) sull’inquadramento tecnico-normativo, anche per comprendere quali sono i requisiti di queste nuove tecnologie e gli obblighi per fabbricanti e datori di lavoro.

Oggi ci soffermiamo su una seconda intervista realizzata durante il “Wearable robotics roadshow”, a cui ho partecipato come giornalista e che si è tenuto il 25 gennaio 2024 al MADE Competence Center i4.0 a Milano.

Parliamo con l’Ing. Alberto Ranavolo (Primo Ricercatore, Laboratorio di Ergonomia e Fisiologia, Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale dell’Inail), per comprendere in quali ambiti di lavoro sono più utilizzati gli esoscheletri, quali sono le difficoltà nella valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico, quali sono i vantaggi e le sfide da affrontare.

Gli esoscheletri possono essere suddivisi per funzione o per tipo di azionamento?

Come scegliere gli esoscheletri giusti?

Quali sono gli articoli o i punti del decreto 81/2008 interessanti per l’uso degli esoscheletri?

Quali sono i Regolamenti o le Direttive dell’Unione europea che possono riguardare gli esoscheletri e quali sono gli aspetti interessanti di queste normative?

Ci sono differenze significative tra la Direttiva Macchine e il Regolamento Macchine sugli aspetti che possono interessare le nuove tecnologie e la loro interazione con i lavoratori?

Quali sono le norme tecniche più rilevanti?

Cosa necessita da un punto di vista tecnico-normativo per diffondere e regolamentare meglio per il futuro l’uso degli esoscheletri nei luoghi di lavoro?

L’intervista testuale è stata realizzata per PuntoSicuro e pubblicata nell’articolo “Esoscheletri: i vantaggi, le sfide e la valutazione del rischio”.

Buona lettura…

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Ricordiamo innanzitutto quanto sono frequenti nel mondo del lavoro le patologie muscoloscheletriche. Perché continuano a rappresentare una delle malattie professionali più diffuse?

Alberto Ranavolo: Nei paesi occidentali del mondo le patologie a carico dell’apparato muscoloscheletrico correlate al lavoro rappresentano circa i due terzi di tutte le malattie professionali. Questo dato è confermato anche in Italia così come si evince dalla relazione annuale del Presidente INAIL del 2021 (1).

L’elevata incidenza di queste malattie è da attribuire alle attività di movimentazione manuale dei carichi (MMC) presenti in molti settori lavorativi come, ad esempio, quelli dell’edilizia, dell’agricoltura e dell’automotive. Si consideri che in Europa, la percentuale dei lavoratori che per almeno un quarto del loro turno di lavoro eseguono attività di MMC oscilla dal 24% del Portogallo al 44% della Romania (fonte Eurofound 2019).       

Veniamo agli esoscheletri occupazionali. Ricordiamo brevemente cosa sono e in quali ambiti di lavoro sono più utilizzati.

A.R.: La letteratura scientifica suggerisce diverse definizioni degli esoscheletri occupazionali sebbene esse siano tutte equivalenti: tecnologie robotiche portatili/dispositivi indossabili/ strutture meccaniche esterne al corpo in grado di supportare i lavoratori durante l’esecuzione di attività di MMC. Tali dispositivi sono utilizzati prevalentemente nell’industria sebbene esistano anche altri campi d’applicazione.

Le attività lavorative per cui vengono prevalentemente utilizzati sono quelle di sollevamento di carichi pesanti, di movimentazione di carichi leggeri ad alta frequenza (attività ripetitive) e di mantenimento di posture fisse e incongrue. Nel primo caso si utilizzano esoscheletri passivi o attivi per il tronco con la finalità di ridurre l’impegno della muscolatura paravertebrale e, indirettamente, il carico che agisce sull’articolazione lombosacrale. Negli altri casi vengono utilizzati principalmente esoscheletri passivi per il sostegno degli arti superiori. Negli ultimi anni la letteratura scientifica internazionale sta evidenziando l’efficacia di questi dispositivi nel breve periodo. Anche in Italia c’è una crescente attenzione a questi strumenti di lavoro anche grazie all’impegno dell’INAIL che ha di recente costituito un gruppo di lavoro interdipartimentale sull’argomento coordinato dalla Dott.ssa Giovanna Tranfo e dall’Ing. Corrado Delle Site.        

Affrontiamo subito un aspetto delicato, quello della valutazione dei rischi. Pur mancando una vera e propria norma per la valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico con l’utilizzo di esoscheletri, mi pare che in questi anni siano state prodotte varie ricerche e pubblicazioni sul tema …

A.R.: Questo è sicuramente uno degli aspetti più critici a cui alcuni gruppi di ricerca italiani ed internazionali stanno lavorando. Infatti, a fronte di una riduzione dell’impegno fisico del lavoratore, non è possibile oggi stimare la riduzione del livello di rischio da sovraccarico biomeccanico in attività eseguite con un esoscheletro rispetto alle stesse attività eseguite senza. Questa criticità è attribuibile al fatto che i metodi per la valutazione strumentale del rischio da sovraccarico biomeccanico elencati negli standard internazionali di ergonomia della ISO 11226 e della serie ISO 11228 non offrono la possibilità di valutare il rischio in presenza di esoscheletri. Difatti, questi metodi sono stati sviluppati in un’epoca in cui gli esoscheletri non esistevano. Va inoltre evidenziato che alcuni tentativi in corso per ovviare a questa lacuna sono poco esaustivi e in alcuni casi errati.

Per contro, un approccio particolarmente promettente è quello strumentale. I metodi di valutazione strumentale sono costituiti da tecnologie hardware e software che oggi sono particolarmente pronte ad un loro utilizzo sul campo. Esistono infatti dei tool di reti di sensori miniaturizzati e wireless e di algoritmi di intelligenza artificiale in grado di effettuare una stima del livello di rischio basata sul reale impegno del lavoratore durante l’esecuzione delle sue attività lavorative. Relativamente a ciò si segnalano molteplici pubblicazioni scientifiche internazionali, due documenti INAIL (2, 3) ed una pre-norma in ambito CEN (4) scritta grazie alle attività del progetto europeo Horizon 2020 SOPHIA. Questi approcci per il monitoraggio del lavoratore stimano il livello di rischio in tempo reale e ciò può anche permettere di somministrare degli stimoli al lavoratore per informarlo circa il suo impegno fisico.    

Forniamo qualche indicazione pratica. Cosa deve fare il valutatore che si trova in un’azienda in cui una parte degli operatori per lo svolgimento delle attività utilizza esoscheletri? Quali sono le difficoltà e le differenze rispetto ad una normale valutazione dei rischi ergonomici?

A.R.: Così come esposto sopra, la principale differenza risiede nella impossibilità di utilizzare i metodi tradizionali di valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico. Ad esempio, la nuova versione della ISO 11228-1 relativa alle attività di sollevamento di carichi pesanti dichiara esplicitamente la non utilizzabilità degli approcci tradizionali nel caso di lavorazioni eseguite con gli esoscheletri. Per questo motivo sarà importante che gli operatori della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro apprendano le modalità con cui è possibile effettuare questa valutazione con approcci strumentali

Che competenze deve possedere un valutatore per fare questa tipologia di valutazioni? Esistono metodologie innovative per la valutazione del rischio biomeccanico?

A.R.: Gli approcci innovativi di valutazione del rischio biomeccanico presuppongono sicuramente un percorso di formazione e addestramento sebbene essi siano di semplice utilizzo. Questo percorso può aumentare la consapevolezza dell’operatore sulla necessità di eseguire misure precise ed accurate. Non va nascosto comunque che questo tipo di trasformazione è solo agli inizi e per tale motivo andrà governata con pazienza, serietà e competenza.

Con la campagna europea sul lavoro sano e sicuro nell’era digitale si stanno approfondendo i vantaggi, ma anche i rischi, connessi all’utilizzo occupazionale degli esoscheletri. A suo parere quali sono i principali vantaggi di queste nuove tecnologie nella prevenzione di infortuni e malattie professionali?

A.R.: I vantaggi sono ascrivibili ad una indiscussa e scientificamente evidente efficacia degli esoscheletri occupazionali nella riduzione, nel breve periodo, dello sforzo fisico del lavoratore durante l’esecuzione di attività di MMC. Per questo motivo questi dispositivi indossabili stanno rappresentando una nuova opzione di intervento di ergonomia di concezione e di correzione con la finalità di ridurre l’insorgenza delle malattie professionali a carico del sistema muscoloscheletrico. 

Quali sono, invece, le principali sfide o i rischi che questi esoscheletri possono comportare?

A.R.: Gli esoscheletri occupazionali possono alterare la naturale strategia motoria del lavoratore, possono modificarne l’assetto biomeccanico ed alterarne le richieste cardiovascolari. Questi fattori di rischio emergenti possono implicare problematiche non ancora note e per tale motivo si sta ponendo attenzione ad eventuali effetti avversi.        

Parlando di tecnologie relativamente nuove, non ci potrebbero essere effetti nel lungo periodo che non sono ancora noti?

A.R.: Nel medio e lungo periodo il lavoratore che utilizza sistematicamente un esoscheletro potrebbe, paradossalmente, affaticarsi di più o rischiare di cadere dovendo controllare un centro di massa traslato rispetto a quello fisiologico. Inoltre, ulteriori criticità potrebbero essere associabili ad un ridotto scambio termico con l’ambiente soprattutto in contesti lavorativi estremamente caldi. Infine, sono da monitorare approfonditamente le zone del corpo che entrano in contatto con l’esoscheletro. Su di queste, insistendo per un tempo prolungato delle forze altrimenti assenti, potrebbero generarsi patologie dermatologiche ed ortopediche.

Quale sarà, a suo parere, il futuro degli esoscheletri. Diventeranno presto una panacea per la riduzione dei disturbi muscoloscheletrici nei luoghi di lavoro o hanno ancora costi e criticità che richiedono più tempo per la loro diffusione?

A.R.: Sebbene questa sia una domanda a cui è molto difficile rispondere con esattezza, credo che il costo non possa rappresentare una barriera per una loro diffusione nei luoghi di lavoro. Un investimento fatto per la salute dei lavoratori è di sicuro un giusto investimento. Credo inoltre che gli esoscheletri occupazionali possano rappresentare un ausilio valido per i lavoratori solo se messi in relazione ad una corretta organizzazione del lavoro.

Sono anche sufficientemente confidente che i futuri sviluppi tecnologici possano aiutare questo processo di diffusione rendendo gli esoscheletri occupazionali sempre più leggeri, adattabili al corpo del lavoratore ed intelligenti.    

Bibliografia

  1. https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/pubblicazioni/rapporti-e-relazioni-inail/relazione-annuale-anno-2021.html
  2. Ranavolo A, Chini G, Draicchio F, Varrecchia T. LA VALUTAZIONE STRUMENTALE E IN TEMPO REALE DEL RISCHIO DA SOVRACCARICO BIOMECCANICO. COLLANA SALUTE E SICUREZZA Tipolitografia Inail – Milano, novembre 2023, ISBN 978-88-7484-821-8.
    1. Papale, G. Chini, F. Draicchio, A. Fiorelli, L. Fiori, A. Ranavolo, A. Silvetti, A. Tatarelli, R. Trovato, T. Varrecchia.
  3. METODOLOGIE INNOVATIVE PER LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO BIOMECCANICO. ISBN 978-88-7484-704-4 © 2021 Inail. Stampato dalla Tipolitografia Inail di Milano • Edizione 2021 • Progetto editoriale: Inail-Dimeila • Editing e grafica: A. Luciani
  4. Kåre Sørensen, Robert Fox, Chris Hayot, Arash Ajoudani, Emir Mobedi, Marta Lorenzini, Alberto Ranavolo, Giorgia Chini, Alessio Silvetti, Tiwana Varrecchia, Aleid Ringelberg, Francesco Draicchio, David Rodriguez Cianca, Diego Torricelli, Tom Turcksin – Guideline for introducing and implementing real-time instrumental-based tools for biomechanical risk assessment – Ref. No.:CWA 17938:2023 E. ICS 13.100; 13.180 – 2023 CEN: EUROPEAN COMMITTEE FOR STANDARDIZATION. CEN-CENELEC Management Centre: Rue de la Science 23, B-1040 Brussels.

Il link al sito della campagna “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”.

Intervista di Tiziano Menduto

L’articolo originale che contiene l’intervista: “Esoscheletri: i vantaggi, le sfide e la valutazione del rischio”.

NB: L’intervista è precedente alla pubblicazione del rapporto tecnico UNI/TR 11950:2024 “Sicurezza e salute nell’uso degli esoscheletri occupazionali orientati ad agevolare le attività lavorative”. Su questo rapporto tecnico pubblicherò più avanti una intervista fatta a Luigi Monica (Inail, DIT) durante la manifestazione Ambiente Lavoro a Bologna.

Digitalizzazione e nuove tecnologie 01: normativa ed esoscheletri occupazionali

Con riferimento alla campagna europea 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”, parliamo di esoscheletri. Come sceglierli? Quali sono le indicazioni normative? Le risposte di Alessandra Ferraro (DIT, Inail).

Su “IndagineSicurezza” iniziamo a parlare di un importante campagna europea che affronta un tema, la digitalizzazione, che sta avendo e avrà sempre più un rilevante impatto nel mondo del lavoro, anche in materia di salute e sicurezza.

Con riferimento alla nuova campagna 2023-2025 “Lavoro sano e sicuro nell’era digitale”, promossa dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) – e che approfondiremo in prossimi post – sul giornale online PuntoSicuro in questi mesi ho presentato varie interviste realizzate sia sullo svolgimento della campagna, sia su singole tecnologie e strumenti digitali già in parte disponibili per le aziende e che possono servire a ridurre alcuni rilevanti rischi, ma che nascondono anche alcune sfide e possibili rischi emergenti da conoscere.

E per poter presentare alcune informazioni esoscheletri occupazionali – tecnologie robotiche portatili/ dispositivi indossabili/ strutture esterne al corpo in grado, ad esempio, di supportare i lavoratori durante la movimentazione manuale dei carichi – ho partecipato come giornalista al “Wearable robotics roadshow”, che si è tenuto il 25 gennaio 2024 al MADE Competence Center i4.0 a Milano dove si è parlato, in particolare, di queste nuove tecnologie.

All’incontro hanno partecipato come relatori anche due ricercatori dell’Inail per fornire sia un quadro tecnico-normativo di riferimento di queste nuove tecnologie, sia alcune indicazioni sull’utilizzo e la funzione degli esoscheletri.

Presentiamo oggi un’intervista – già presentata da PuntoSicuro – all’Ing. Alessandra Ferraro (Inail, Laboratorio IV – Sicurezza degli Impianti di Trasformazione e Produzione – Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti ed insediamenti antropici).

L’intervista affronta i temi da lei trattati durante l’evento, l’inquadramento tecnico-normativo, un aspetto basilare per comprendere quali sono i requisiti di queste nuove tecnologie e gli obblighi per fabbricanti e datori di lavoro.

Gli esoscheletri possono essere suddivisi per funzione o per tipo di azionamento?

Come scegliere gli esoscheletri giusti?

Quali sono gli articoli o i punti del decreto 81/2008 interessanti per l’uso degli esoscheletri?

Quali sono i Regolamenti o le Direttive dell’Unione europea che possono riguardare gli esoscheletri e quali sono gli aspetti interessanti di queste normative?

Ci sono differenze significative tra la Direttiva Macchine e il Regolamento Macchine sugli aspetti che possono interessare le nuove tecnologie e la loro interazione con i lavoratori?

Quali sono le norme tecniche più rilevanti?

Cosa necessita da un punto di vista tecnico-normativo per diffondere e regolamentare meglio per il futuro l’uso degli esoscheletri nei luoghi di lavoro?

L’intervista testuale è stata realizzata per PuntoSicuro e pubblicata nell’articolo “Esoscheletri occupazionali: qual è il quadro tecnico-normativo di riferimento?”.

Buona lettura…

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Cerchiamo innanzitutto di conoscere meglio gli esoscheletri. Come possono essere suddivisi per funzione o per tipo di azionamento?

Alessandra Ferraro: Gli esoscheletri possono essere classificati per la loro funzione e per la tipologia di azionamento. Per quanto riguarda la funzione questa può essere il supporto, il potenziamento o la cura della persona che si attua rispettivamente attraverso la ridistribuzione di forze sul corpo, l’aumento della forza della persona, il riposizionamento o il rinforzo delle funzioni corporee. 

Oltre a queste tre funzioni ultimamente si assiste alla realizzazione di esoscheletri per la cosiddetta extended reality, che consentono, al contrario di quelli precedentemente annoverati, la percezione di carichi e sforzi realizzati in un ambiente virtuale che in tal modo viene esteso rispetto alla realtà attraverso questa ulteriore dimensione. In tale contesto il laboratorio IV del Dit ha sviluppato con un bando di ricerca in collaborazione (Bric 2019 ID 37) un progetto “SIDE-Sviluppo di un esoscheletro per dinamica simulata e interfaccia aptica” mediante il quale è stato realizzato un prototipo per cui è stata depositata domanda di brevetto.

Per quanto riguarda la tipologia di azionamento si hanno esoscheletri attivi azionati ad esempio mediante energia elettrica, idraulica o pneumatica, ma anche esoscheletri passivi in cui l’energia è generata esclusivamente dal movimento dell’utilizzatore attraverso l’impiego di molle e assorbitori.

Immagino che un aspetto importante degli esoscheletri sia la scelta giusta per il tipo di attività da svolgere. Ci sono tipologie di esoscheletri più adatti a particolari attività o movimenti?

A.F.: Gli esoscheletri destinati ad essere utilizzati per l’esecuzione di un’attività lavorativa (cosiddetti esoscheletri occupazionali) devono essere idonei per la destinazione d’uso prevista, per l’ambiente in cui sono utilizzati e non creare rischi supplementari per l’operatore (es. impigliamento, trascinamento, etc…). La maturità tecnologica di queste attrezzature è indispensabile per poterne osservare un utilizzo diffuso.

In linea generale l’evoluzione degli esoscheletri dai primi modelli a quelli di più recente costruzione ha migliorato l’indossabilità (riduzione di peso, libertà nei movimenti, adattabilità, etc.), ma anche l’autonomia degli esoscheletri attivi. In linea generale gli esoscheletri passivi sono più leggeri e meno ingombranti, pertanto, più facilmente accettabili.

Per cercare di comprendere il quadro tecnico-normativo interessante per queste nuove tecnologie partiamo dal D.Lgs. 81/2008. Quali sono gli articoli o i punti del decreto interessanti per l’uso degli esoscheletri?

A.F.: Gli esoscheletri occupazionali si configurano come attrezzature di lavoro e pertanto ricadono nell’ambito di applicazione del titolo III del D.lgs. 81/2008 per la parte relativa all’uso delle attrezzature di lavoro.

In particolare, l’articolo 70 richiede che qualsiasi attrezzatura di lavoro debba essere conforme alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle Direttive comunitarie di prodotto. Importante, dunque, è avere chiaro il quadro giuridico-regolamentare di riferimento per l’esoscheletro messo a disposizione di un lavoratore.

All’atto della scelta delle attrezzature di lavoro, il datore di lavoro deve prendere inoltre in considerazione le condizioni i rischi presenti nell’ambiente di lavoro ed i rischi derivanti dall’impiego delle attrezzature stesse. Quando si fornisce una nuova attrezzatura, anche indossabile, ci si devono aspettare benefici ed i nuovi rischi devono essere opportunamente gestiti.

Veniamo ora alla normativa europea. Quali sono i Regolamenti o le Direttive dell’Unione europea che possono riguardare gli esoscheletri e quali sono gli aspetti interessanti di queste normative?

A.F.: A seconda della loro funzione e della destinazione d’uso gli esoscheletri possono essere inquadrati nel campo di applicazione della Direttiva 2006/42/CE relativa al prodotto macchina (a partire dal 20 gennaio 2027 dal Regolamento (UE) 2023/1230) o del Regolamento (UE) 2017/745 relativo ai dispositivi medici. Quest’ultimo stabilisce le norme relative all’immissione sul mercato, la messa a disposizione sul mercato o la messa in servizio dei dispositivi medici per uso umano e degli accessori per tali dispositivi nell’Unione. «Dispositivo medico» è qualunque strumento, apparecchio, apparecchiatura, software, (…) o altro articolo, destinato dal fabbricante a essere impiegato sull’uomo, da solo o in combinazione, per una o più delle seguenti destinazioni d’uso mediche specifiche. Tra le varie destinazioni d’uso contemplate vi sono la prevenzione, il trattamento o l’attenuazione di malattie, di una lesione o di una disabilità.

Ciò che mi sentirei di evidenziare è il fatto che, qualora una persona indossi un esoscheletro con destinazione d’uso sia medica che non medica, ad esempio perché lavora in un contesto industriale, questo dispositivo deve soddisfare cumulativamente sia i requisiti applicabili ai dispositivi con destinazione d’uso medica sia i requisiti applicabili ai dispositivi con destinazione d’uso non medica. Il Regolamento Dispositivi Medici si preoccupa chiaramente dei rischi derivanti da qualcosa che muove la persona o che comunque è in contatto diretto con lei.

Ci sono differenze significative tra la Direttiva Macchine e il Regolamento Macchine sugli aspetti che possono interessare le nuove tecnologie e la loro interazione con i lavoratori?

A.F.: Il Regolamento relativo al prodotto macchina contiene un interessante aggiornamento del requisito relativo ai rischi dovuti a elementi mobili. In particolare, richiede che le misure adottate tengano conto anche delle tensioni psichiche che possono essere causate dall’interazione con la macchina. Gli esoscheletri sono a contatto diretto con l’operatore e la loro interazione con il soggetto che l’indossa deve essere a maggior ragione studiata ed approfondita.

In letteratura si trovano studi volti alla realizzazione di algoritmi che siano in grado di anticipare i movimenti futuri dell’operatore o di parti del corpo che hanno suscitato, soprattutto negli ultimi anni, un forte interesse.  Questa è un’attività estremamente complessa, in quanto devono essere considerati molti fattori, legati sia alla natura del corpo umano che al contesto circostante, ma anche molto interessante nel campo della sicurezza e trasversale rispetto ai contesti applicativi.

Veniamo alle norme tecniche. Quali sono quelle più importanti in relazione agli esoscheletri?

A.F.: In linea generale per gli esoscheletri, come anche per tutti i prodotti che vengono immessi sul mercato o messi in servizio, avere norme tecniche specifiche per la sicurezza armonizzate alle Direttive o Regolamenti di riferimento supporta e agevola la valutazione dei rischi che il fabbricante è tenuto a fare e fornisce un riferimento dello stato dell’arte per le misure adottabili.

Ad oggi l’unica norma di riferimento armonizzata alla Direttiva Macchine è la UNI EN ISO 13482:2014 Robot e dispositivi robotici – Requisiti di sicurezza per i robot per la cura personale, oltre la serie di riferimento per i sistemi robotici industriali (UNI EN ISO 10218), nel quale non è però considerata l’indossabilità del dispositivo.

A livello di standard internazionali, non armonizzati alla direttiva di riferimento, si hanno diversi contributi interessanti. Ad esempio, vi è la serie di norme ISO 18646 che tratta i criteri prestazionali e relativi metodi di prova per robot di servizio. La parte 4 tratta specificatamente gli esoscheletri che supportano la parte bassa della schiena (Lower-back support robots).

Inoltre, la American Society for Testing & Materials (ASTM International) ha prodotto, in seno al comitato tecnico F48, istituito per lo sviluppo e l’aggiornamento di standard per esoscheletri, numerosi documenti.

In conclusione, cosa necessita, a suo parere e anche da un punto di vista tecnico-normativo, per diffondere e regolamentare meglio per il futuro l’uso degli esoscheletri nei luoghi di lavoro?

A.F.: Sicuramente l’emanazione di norme tecniche di riferimento che coprano le diverse tipologie di dispositivi robotici indossabili, considerando che tali norme dovrebbero contenere anche informazioni specifiche per la destinazione d’uso e sulle modalità d’uso di tali dispositivi, costituisce un valido supporto nella valutazione dei rischi che deve essere svolta dal fabbricante, ma anche nelle considerazioni che il datore di lavoro deve fare nel momento in cui mette a disposizione un esoscheletro per lo svolgimento di attività lavorative.

Inoltre, gli studi sulla predizione del movimento dell’uomo in un contesto in cui si utilizzano dispositivi robotici indossabili ed in cui l’operatore e le macchine si muovono in spazi sempre più condivisi, consentiranno un miglioramento della sicurezza delle soluzioni e dei sistemi implementati.

Intervista di Tiziano Menduto

L’articolo originale che contiene l’intervista: “Esoscheletri occupazionali: qual è il quadro tecnico-normativo di riferimento?.

NB: L’intervista è precedente alla pubblicazione del rapporto tecnico UNI/TR 11950:2024 “Sicurezza e salute nell’uso degli esoscheletri occupazionali orientati ad agevolare le attività lavorative”. Su questo rapporto tecnico pubblicherò più avanti una intervista fatta a Luigi Monica (Inail, DIT) durante la manifestazione Ambiente Lavoro a Bologna.

Covid e smart working 04: qual è il futuro del lavoro agile?

Una intervista per conoscere il futuro dello smart working e l’impatto della tecnologia e della digitalizzazione sul mondo del lavoro. Le risposte e le riflessioni di Marco Carlomagno, segretario della FLP.

Nei mesi scorsi ci siamo soffermati, in “IndagineSicurezza”, sul lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, specialmente in considerazione della fase emergenziale connessa all’emergenza COVID-19. E abbiamo ricordato, attraverso le parole di vari rappresentanti del Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI) che hanno elaborato sul tema delle vere e proprie linee guida, che il lavoro a distanza è molto di più di un’attività idonea ad affrontare le emergenze che toccano anche il mondo del lavoro. È un modello organizzativo, un “mutamento copernicano” con cui confrontarsi per il presente e per il futuro.

Ora che la fase emergenziale si è conclusa, è bene chiedersi quale sarà il futuro del lavoro agile. E, più in generale, qual è l’impatto della tecnologia e della digitalizzazione sul mondo del lavoro. Anche perché, a breve, l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) lancerà una nuova campagna per un futuro digitale sicuro e sano, con particolare attenzione ai rischi psicosociali ed ergonomici emergenti.

Per poter affrontare questi temi, con particolare riferimento al comparto della funzione pubblica, per il giornale PuntoSicuro ho intervistato Marco Carlomagno, giornalista, segretario della FLP (Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche), docente e, quando l’intervista è stata realizzata (marzo 2022), componente del Gruppo di monitoraggio della “Sperimentazione del lavoro agile” della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’intervista è stata realizzata per PuntoSicuro e pubblicata nell’articolo “Quali sono i vantaggi dell’integrazione digitale nel mondo del lavoro?”.  

Buona lettura…

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Lei si è occupato spesso di lavoro agile e la pandemia ha portato ad un enorme sviluppo di questa modalità lavorativa. Cosa pensa di questa forma di modernizzazione del mondo del lavoro? Quali sono gli aspetti positivi, anche dal punto di vista della produttività aziendale?

Marco Carlomagno: Il lavoro agile emergenziale, resosi necessario al fine di prevenire il contagio, ancorché più vicino al telelavoro che al lavoro agile previsto dalla Legge 81/2017, ha sicuramente permesso una accelerazione nel campo della modernizzazione dei processi e nella digitalizzazione di molti di essi.

Molte Amministrazioni, ma direi anche gran parte del tessuto produttivo del nostro Paese, in questi anni hanno dovuto fare i conti con la necessità di adottare nuovi modelli organizzativi, non solo per una scelta interna, quanto per far fronte alle richieste che provenivano dalla società e dal mondo esterno.

Bisogna dire che se ci sono state da una parte esperienze di innovazione e di capacità di organizzazione e di lavoro più adeguate ai bisogni del Paese, le imprese italiane e le Pubbliche Amministrazioni, che sono tante e diverse sia per complessità organizzativa che per compiti, nel loro complesso segnano ancora grandi difficoltà ad adeguarsi ai nuovi modelli organizzativi e alle modifiche richieste.

Ma questa è comunque una necessità ineludibile: il cambio di paradigma è sempre più necessario e la pandemia ha dimostrato, pur nella sua eccezionalità, come la produttività possa aumentare e i servizi possano essere erogati meglio e con maggiore tempestività e fruibilità, con modalità organizzative e tecnologiche diverse rispetto al passato.

L’implementazione del lavoro agile è stata una formidabile occasione, pur nei limiti derivanti da un’applicazione improvvisata e da sistemi organizzativi digitali non sempre al passo con i tempi, per dimostrare come i cambiamenti organizzativi, una nuova organizzazione del lavoro più orizzontale e meno gerarchico-piramidale, con la piena responsabilizzazione degli addetti ed il riconoscimento dell’autonomia, sono un valore aggiunto.

La sfida della modernizzazione necessita di ripensare l’assetto burocratico, basato sulla mera proceduralizzazione degli atti e sulla cultura dell’adempimento, privilegiando l’organizzazione per obiettivi e per risultati.

Qual è il futuro del lavoro agile? Tornerà ad essere una modalità di lavoro marginale o rimarrà una risorsa importante in ogni ambito lavorativo? Quali errori si sono commessi o si stanno commettendo riguardo allo sviluppo del lavoro agile?

M.C.: Il futuro del lavoroè agile, nella sua articolazione prevista dalla L. 81/2017 (organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro), ben differente dal telelavoro o lavoro da casa.

Non penso ovviamente che il lavoro agile sia l’unica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa per tutte le realtà organizzative e produttive.

È evidente che alcune attività sono ancora tendenzialmente da svolgere in presenza, almeno con gli attuali livelli di digitalizzazione dei processi, o per specifiche lavorazioni.

Ma l’obiettivo a cui tendere è quello di implementare le dotazioni tecnologiche delle amministrazioni pubbliche e delle imprese e rivisitare le lavorazioni, in un’ottica integrata capace di produrre semplificazione amministrativa, velocizzazione delle decisioni e dell’emanazione degli atti, modernizzando tecnologicamente sempre più anche i settori produttivi e del terziario.

Penso a regime a modelli organizzativi che coniughino in modo armonico il lavoro agile con quello in presenza, che comunque è utile non solo per fornire servizi non diversamente erogabili, ma anche per permettere momenti di condivisione e di scambio professionale.

Quello che contesto è l’approccio pregiudiziale sull’efficienza e la produttività della prestazione lavorativa in modalità agile rispetto a quella in presenza, che costituisce oggettivamente un passo indietro nell’organizzazione del lavoro e dei servizi, oltre che incidere in modo pesante su tutti gli strumenti di conciliazione vita-lavoro.

Già nel 2018 una ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ribadiva i vantaggi economico-sociali dei modelli di lavoro agile: incremento di produttività del lavoratore (+15%), riduzione del tasso di assenteismo (-20%), miglioramento dell’equilibrio fra lavoro e vita privata (+80%). Valori notevolmente migliorati negli ultimi due anni, come risulta dai report di tante università e istituti di ricerca pubblici e privati.

Ritengo inoltre assolutamente sbagliato continuare sulla materia a ipotizzare soluzioni centralistiche, calate dall’alto, uguali per tutti, prevedendo addirittura per legge il numero massimo di giornate autorizzabili in lavoro agile, o imponendo il principio della prevalenza del lavoro in presenza rispetto a quello agile per ogni singolo lavoratore, a prescindere dall’attività che svolge e dalle caratteristiche di quella prestazione lavorativa. In Italia l’eccesso di normazione, primaria o secondaria, non ha risparmiato neanche questo importante fattore di innovazione. Il combinato disposto di tale azione, unitamente alla resistenza di imprese (soprattutto PMI), e delle singole pubbliche amministrazioni a individuare in modo analitico le attività che si possono svolgere a distanza, comporta un oggettivo ostacolo al decollo stabile del lavoro agile nel nostro Paese.

La stipula dei nuovi Contratti di lavoro del pubblico impiego, insieme alle migliori esperienze contrattuali definite in questi mesi nel mondo delle aziende e del terziario, costituiscono invece, a mio modo di vedere, la strada da seguire, basata sulla massima flessibilità dello strumento, la piena responsabilizzazione degli attori interessati, la valorizzazione delle autonomie professionali e del senso di responsabilità degli addetti. 

L’evoluzione tecnologica sta trasformando il mondo del lavoro. Qual è la sua opinione sulla diffusione della tecnologia e della digitalizzazione in materia di salute e sicurezza e in materia di formazione?

M.C.: Preliminarmente bisogna rilevare che siamo ancora in ritardo, molte zone sono ancora alle prese con infrastrutture tecnologiche arcaiche e il “digital divide” spezza in due, se non in tre aree, il nostro Paese.

Il gap infrastrutturale e anche tecnologico deve essere assolutamente colmato nei confronti anche dei nostri competitor internazionali. Basti considerare che l’Italia si posiziona al 25° posto della classifica stilata nell’ultima edizione del Desi (Digital Economy and Society Index) – l’indice che misura il progresso degli Stati membri dell’UE verso un’economia e una società digitale.

Il PNRR che investe nella digitalizzazione ingenti risorse deve essere l’occasione per cambiare passo.

La digitalizzazione è un fattore non solo per aumentare la produttività, rendere servizi più efficienti e fruibili, ma è soprattutto un importante ausilio a rendere i nostri cicli produttivi più sicuri in un momento in cui le morti sul lavoro sono ancora una triste realtà e scontiamo ancora danni ambientali devastanti causati da decenni di produzioni industriali altamente inquinanti e nocive.

L’innovazione non servirà solo a rendere più competitivo il nostro Paese, ma anche a renderlo più sicuro. Il paradigma Industria 4.0 dovrà quindi garantire maggiore competitività, innovazione e diversificazione produttiva, ma anche sicurezza sui posti di lavoro e difesa dell’ambiente.

Per non parlare poi dei benefici e delle ricadute positive di quel pezzo di innovazione digitale che è il lavoro agile e a distanza sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sul traffico e le emissioni che asfissiano le nostre aree metropolitane, sui risparmi derivanti dai minori spostamenti per raggiungere fisicamente il posto di lavoro, tanto importanti in un momento in cui la crisi energetica sta portando alle stelle i costi della benzina, del gasolio e delle altre risorse energetiche.

È indubbio che la digitalizzazione e l’innovazione tecnologica necessitino di un forte e strutturato piano di formazione con procedure diffuse e mirate che siano in grado di poter accompagnare in tutto il percorso lavorativo la crescita professionale e l’acquisizione di nuove competenze del personale. La formazione, invece che essere un mero adempimento formale, come troppo spesso avviene oggi, deve diventare uno dei principali “asset” delle politiche di sviluppo del personale e delle risorse umane; con adeguati finanziamenti, lo scambio di esperienze con il lavoro privato, pubblico e quello dell’Università e della ricerca, tali da creare un interscambio ormai ineludibile per avvicinare mondi separati ma assolutamente interconnessi.

Nella riorganizzazione lavorativa successiva alla fine delle emergenze pandemiche non c’è il rischio di un ritorno al passato? Si continueranno a cogliere tutti i benefici offerti dalla società digitale e dalla tecnologia?

M.C.: La pandemia ci ha dato modo di realizzare che un cambiamento prima ritenuto impensabile è invece possibile. Le circostanze critiche che stiamo vivendo hanno valorizzato l’uso della tecnologia, anche in rapporto ad alcuni esiti negativi che meritano una riflessione accurata e consapevole.

In linea generale, tuttavia, è caduta l’ipervalutazione della presenza fisica come condizione necessaria al buon esito di un processo decisionale. Ancora una volta, le riunioni rappresentano un terreno d’indagine significativo. Pensiamo all’epoca pre-pandemica e alle sue riunioni di lavoro inutili, interminabili, per cui si muovevano persone da luoghi geograficamente distanti, con un enorme dispendio di risorse in termini di trasporti, tempo investito in spostamenti, consultazione di documenti cartacei difficili da trasportare, consultare, condividere.

L’unico modo per rendere strutturale il passaggio alle forme ibride e agili di lavoro, riunioni in testa, è cambiando i processi. Il micropotere manageriale non deve più essere contemplato: questo modello è diventato obsoleto. Alcuni manager hanno ammesso che nei paradigmi gerarchici tradizionali i vertici dirigenziali non avevano chiaro di cosa si occupassero i dipendenti e gli altri membri del team. Ecco perché così spesso indicazioni e decisioni risultavano carenti o inefficaci: l’attenzione era spostata sul controllo del singolo, e non sul risultato delle diverse mansioni e dell’efficacia generale del processo. Rendere il cambiamento strutturale significa passare dall’ottica dell’adempimento a quella degli obiettivi. Il lavoro agile nella sua veste matura richiede formazione, sia nell’utilizzo delle tecnologie sia nel cambiamento di paradigmi culturali, attestati ma non più funzionali.

L’epoca del “si è sempre fatto così” è finita: l’introduzione di nuove tecnologie specificamente dedicate al lavoro agile deve entrare in sinergia con processi orizzontali di governance e di gestione dei team di lavoro. Per questo è necessario affidarsi a professionisti specializzati nella cultura dell’engagement. Servono competenze di project management e di team work. Occorre investire nei giovani, valorizzandone la preparazione e le competenze.

In questo, ci sostiene l’esempio di aziende e amministrazioni pubbliche internazionali forti, con una potente capacità reputazionale. 

Le nuove tecnologie nel pubblico impiego: l’impatto, le resistenze e i vantaggi

Qual è l’impatto della diffusione del lavoro a distanza e delle nuove tecnologie nel comparto del pubblico impiego?

M.C.: Nel pubblico impiego il lavoro agile è stato adottato soprattutto per fronteggiare la pandemia; in una situazione di assoluta arretratezza previgente su tale istituto, è stato di fatto un lavoro da remoto, svolto in gran parte con le dotazioni delle lavoratrici e dei lavoratori e con modelli organizzativi e lavorativi che nulla hanno a che vedere con le forme di lavoro agile come dovrebbero essere intese a regime.

Numerose sono state comunque le esperienze positive, non solo nella capacità di erogare servizi e prestazioni a cittadini e imprese, quanto anche a limitare l’estendersi della pandemia e a produrre notevoli vantaggi nel campo della conciliazione vita -lavoro.

Pensiamo alle esperienze dell’Agenzia delle Entrate e dello stesso INPS che seppure dopo una fase iniziale di forte difficoltà dovuta all’enorme aggravio aggiuntivo di attività e di servizi da rendere in remoto nei diversi settori relativi alla cassa integrazione in deroga e ai cosiddetti ristori, comunque ha gestito ed evaso milioni di richieste, pur a fronte di procedimenti nuovi che prevedevano il concorso di più Enti (vedi Regioni).

In generale, come dimostrano i dati rilevabili dal monitoraggio effettuato dal Ministero per la Pubblica Amministrazione a fine 2020, soprattutto nelle Amministrazioni centrali il lavoro da remoto ha interessato percentuali di personale che complessivamente sfiorano il 70 per cento degli addetti, senza che questo abbia comportato un blocco delle attività e neanche un loro rallentamento.

La resistenza più forte verso questo processo che, partendo dall’emergenza sanitaria, ha permesso di poter sperimentare la possibilità di una reale modifica organizzativa e tecnologica delle nostre Amministrazioni è venuta dai settori più arretrati tecnologicamente, che in questi anni non hanno investito in tale direzione, come l’amministrazione della giustizia, sia civile che penale, sia amministrativa che tributaria.

Non a caso le inefficienze del nostro sistema giudiziario trovano la loro radice non solo negli interessi corporativi di alcune parti degli operatori del settore, che hanno costruito rendite di posizione sui ritardi e le inefficienze del sistema, ma anche nella mancata predisposizione di tutti quegli strumenti che pure potevano permettere la digitalizzazione di molti processi lavorativi.

Si è fatto comunque molto per modernizzare le PA e, tuttavia, si sarebbe potuto fare di più se non ci fossimo trovati di fronte al brusco dietro front di questi mesi, con il rientro in presenza di tutti i lavoratori pubblici, voluto dall’attuale Ministro per la Pubblica Amministrazione che da sempre si oppone al lavoro agile. Ora tutti i detrattori del lavoro agile, la burocrazia feudale che vuole che nulla cambi, sicuramente avranno una ragione in più per ostacolare e opporsi al cambiamento, frenando su tutte le innovazioni che erano state progettate e in molti casi già attuate nella direzione della digitalizzazione.

Il rischio che le sue azioni rallenteranno nel nostro Paese i processi di modernizzazione e di innovazione purtroppo esiste, perché nel nostro Paese i pregiudizi nei confronti del lavoro pubblico sono ancora radicati e vi è un problema evidente di “vision” della classe dirigente.

Non si può contemporaneamente mettere in campo un piano di digitalizzazione del Paese e allo stesso tempo avallare azioni in netta controtendenza che non tengono conto degli impatti che le politiche di diffusione del lavoro agile hanno sul territorio: impatti in termini di maggiore sostenibilità ambientale, maggiore produttività, maggiore equità e sostenibilità sociale e maggiore sostenibilità istituzionale che sono poi tra quelli promossi nell’ambito dell’Agenda 2030.

Nel 2023 la “digitalizzazione” sarà il tema centrale della campagna europea per favorire ambienti di lavoro sani e sicuri. Cosa deve ancora essere realizzato per una rivoluzione digitale? Quale dovrebbe essere il rapporto del mondo del lavoro con la tecnologia e la digitalizzazione?

M.C.: Una vera rivoluzione digitale passa per gli interventi infrastrutturali quali quelli della banda larga su tutto il territorio nazionale, le dotazioni informatiche delle Amministrazioni in termini di numero e di qualità, la digitalizzazione dei processi in gran parte ancora cartacei, la creazione e l’interoperabilità delle banche dati.

A questo si deve accompagnare un processo di modifica organizzativa che adegui gli assetti alle nuove tecnologie e alle nuove forme di lavoro.

Bisogna accorciare i livelli di responsabilità, diminuire l’eccessiva gerarchizzazione delle strutture, che in questi anni è servita solo a permettere il proliferare di ben remunerate posizioni di vertice aumentando i livelli di burocrazia e la deresponsabilizzazione degli addetti.

Bisogna privilegiare un’organizzazione più orizzontale e meno verticale, in cui aumentino i livelli di responsabilità, il lavoro per team. In cui si premino le innovazioni, le proposte, si valorizzino i tanti talenti presenti.

Valorizzare la dirigenza, aumentandone i profili di managerialità e di capacità di gestire processi e dinamiche organizzative, e il lavoro pubblico, mediante un sistema di valutazione basato sui risultati e non sugli adempimenti o sulla mera presenza, riconoscendo il diritto alla carriera, a mettersi in gioco e a migliorare il proprio ruolo nell’organizzazione. Valori oggi del tutto disconosciuti dalla sconsiderata politica di questi decenni basata sulla denigrazione del lavoro pubblico, sul blocco dei salari, delle carriere, dei riconoscimenti professionali.

È necessario anche ridisegnare la mappa dei processi lavorativi e le professionalità necessarie, prevedendo un massiccio inserimento mirato di nuova forza lavoro con la riconversione e la riqualificazione di quella oggi presente, mediante processi di formazione diffusa e permanente.

Elemento essenziale, inoltre, per raggiungere una completa integrazione digitale risulta l’adozione di un cambio di paradigma che consenta il superamento dei timori e delle inerzie della direzione aziendale in merito allo sviluppo di organizzazioni digital e green.

Lo studio “La nuova era del lavoro da remoto: tendenze della forza lavoro distribuita” condotto da Vanson Bourne, evidenzia come l’adozione del lavoro da remoto non abbia avuto impatti negativi sulla produttività e sui rapporti tra i componenti dei team di lavoro. Il 67% degli intervistati rileva un incremento, o una invarianza, del tasso di produttività; mentre il 76% afferma che i rapporti interpersonali sono migliorati, quantomeno con alcuni dei colleghi ed il 14% sostiene un miglioramento dei rapporti con la totalità dei colleghi.

La stessa analisi riporta inoltre come l’adozione del lavoro da remoto stia gradualmente livellando la concorrenza tra imprese, consentendo ad organizzazioni e settori in precedenza svantaggiati di ridurre il distacco e trovare nuove opportunità per innovare e aprirsi ad una maggiore partecipazione. Il 77% degli intervistati afferma infatti che le proprie capacità di lavoro da remoto sono state sottoutilizzate e le organizzazioni aziendali più piccole, che hanno effettuato un passaggio al lavoro da remoto, confermano che le proprie doti di adattabilità consentano di competere maggiormente con le imprese più grandi.

L’integrazione digitale fornisce quindi maggiori opportunità di sviluppare servizi e business.

E, come risulta ormai dai principali istituti di ricerca, la possibilità di lavorare da remoto rappresenta per una buona parte degli intervistati, un prerequisito (e non più un benefit) fondamentale per le prossime esperienze lavorative. Questo dato dovrebbe sensibilizzare nuovamente le organizzazioni aziendali ad una modifica dell’obsoleto paradigma lavorativo ancora vigente, affinché, tramite lo sviluppo di modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da remoto, vi siano maggiori opportunità di attrarre i migliori talenti.

Senza dubbio, sarà necessario non perdere l’occasione di valorizzare le esperienze maturate in questi due anni di crisi epidemiologica, al fine di produrre un cambiamento del paradigma lavorativo, da fondarsi su nuovi e differenti modelli organizzativi e culturali, che consentano di predisporre un lavoro secondo obiettivi comuni e di accrescere sempre più i legami di fiducia e responsabilità tra aziende, amministrazioni pubbliche e lavoratori.  

Intervista di Tiziano Menduto

Gli altri post sul tema:

“Covid e smart working 01: criticità e prospettive future”;

“Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione”;

“Covid e smart working 03: i vantaggi della riduzione degli infortuni in itinere”.

Covid e smart working 03: i vantaggi della riduzione degli infortuni in itinere

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia e post-pandemia. L’intervista ad Andrea Bucciarelli, CSA Inail.


Concludiamo per il momento una breve indagine sullo smart working, sul lavoro agile, sul lavoro a distanza (smartworking, telelavoro, coworking, …) intesi non tanto come risposta emergenziale alla pandemia da COVID-19, ma come nuovo modello organizzativo che si sta diffondendo e con cui è necessario, anche dal punto di vista della salute e sicurezza sul lavoro, confrontarsi.

Per cercare di conoscere meglio il lavoro a distanza ho segnalato, in precedenti post, il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI.

E in due interviste, prodotte e pubblicate sul quotidiano online PuntoSicuro, ho cercato di affrontare alcuni aspetti in materia di salute e sicurezza del lavoro agile:

L’intervista che presentiamo oggi è diversa. Non entra tanto nel dettaglio dello smart working, delle sue caratteristiche, ma cerca, dopo una presentazione di alcuni dati relativi agli infortuni, di affrontare l’impatto positivo del lavoro a distanza sugli infortuni in itinere.

I dati forniti nell’intervista non sono recenti. Si tratta di un’intervista fatta poco più di un anno fa (luglio 2021), in piena emergenza pandemica, con i dati totali complessivi relativi al 2020 e i primi dati non definitivi del 2021. Numeri ormai superati dai dati più recenti che sono visionabili:

  • per quanto riguarda il 2021 nel nuovo e recente Rapporto Inail
  • per quanto riguarda i primi dati del 2022 negli Open Data del sito Inail.

L’intervistato è un “attuario” (professionista che ha il compito di leggere i dati per disegnare la realtà nel breve, medio e lungo periodo), in particolare Andrea Bucciarelli (attuario della Consulenza statistico attuariale dell’Inail).

Tuttavia non sono i numeri la parte rilevante dell’intervista. Non è sui numeri che bisogna porre l’attenzione, ma sul significato che il modello organizzativo del lavoro a distanza può avere nel tempo per la riduzione degli infortuni per strada e in itinere.

Per questo motivo dall’intervista fatta per il giornale PuntoSicuro, che è stata pubblicata nell’articolo “COVID-19 e lavoro agile: crollano i dati relativi agli infortuni in itinere”, riprendiamo solo alcune parti che vogliono affrontare questo tema.

Non tanto i rischi del lavoro agile sui lavoratori, rischi ben descritti nel documento del CNI, ma i vantaggi, per la sicurezza, della riduzione dei viaggi casa-lavoro-casa.

Ricordiamo, ancora una volta, che i dati infortunistici presentati da Andrea Bucciarelli sono relativi per lo più al 2020 (nell’intervista pubblicata su PuntoSicuro, sono presenti varie domande generali di presentazione di questi dati).

Buona lettura.

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(…)

Un tema che mi interessa affrontare è l’impatto della pandemia e della riorganizzazione di molte aziende sugli infortuni professionali stradali e sugli infortuni in itinere. Cosa raccontano i dati su questa tipologia di infortuni?

Andrea Bucciarelli: Gli infortuni in itinere (occorsi lungo il percorso casa-lavoro-casa) e stradali più in generale (ricomprendono anche quelli avvenuti in occasione di lavoro con un mezzo di trasporto) sono crollati nel 2020. Innegabilmente un effetto collaterale della pandemia il cui contenimento ha indotto nelle fasi più acute a blocchi o comunque limitazioni della circolazione stradale e in generale ad un emergenziale, massiccio, ricorso al lavoro agile da casa. Ripartendo le 571mila denunce in complesso di infortunio del 2020, in 506mila in occasione di lavoro e in 65 mila in itinere, si può notare che se quelle in occasione di lavoro (comprensive però delle nuove denunce da contagio) sono diminuite del 6,2% rispetto al 2019, quelle in itinere sono diminuite del 38,2% ridimensionandosi notevolmente rispetto ai circa 100mila casi annui registrati tra il 2016 e il 2019; l’incidenza delle denunce in itinere sul totale è scesa all’11% rispetto al 16% del 2019.

Nella gestione per conto dello Stato (amministrazioni statali quali i ministeri ad esempio) dove diffuso è stato il ricorso emergenziale al lavoro agile, il calo degli infortuni in itinere tra i dipendenti ha superato il 50%.

Gli incidenti stradali non riguardano poi solo gli infortuni in itinere, ma anche quelli in occasione di lavoro con mezzo di trasporto (si pensi ai conducenti professionali come camionisti, tassisti, rappresentanti, ecc.) e anche per loro si è registrata una diminuzione importante, pari al -31,8% con un numero di denunce che si ferma nel 2020 a 13mila contro le consuete 20mila degli ultimi anni. 

In sintesi, definendo come infortuni “fuori azienda” la somma degli infortuni in itinere e di quelli in occasione di lavoro con mezzo di trasporto coinvolto, entrambi riconducibili al rischio da circolazione in strada, i 78mila casi denunciati del 2020 si confrontano con i circa 125 mila degli scorsi anni, con un calo rispetto al 2019 del 37% e un’incidenza percentuale sul totale delle denunce (571mila) scesa a circa il 13% dal 19% degli anni precedenti.

Analoghe considerazioni per i casi mortali: gli infortuni in itinere con decesso dell’infortunato denunciati, sempre superiori ai 300 casi negli ultimi anni, nel 2020 sono stati 226 (-31,7% rispetto ai 331 del 2019) con un’incidenza scesa dal consueto 25%-28% del totale dei decessi al 15%. Così anche per gli infortuni in occasione di lavoro con mezzo di trasporto, scesi dagli oltre 200 l’anno a 181 nel 2020 (con incidenze percentuali che calano dal consueto 20% al 12%). Le due casistiche assieme, 407 “fuori azienda” nel 2020, evidenziano un calo di quasi il 28% rispetto al 2019 delle denunce e un’incidenza che da quasi il 50% degli scorsi anni (praticamente 1 decesso su 2 collegato al rischio strada) è scesa al 26,5% (1 decesso su 4).

Ricordiamo brevemente cosa si intende con infortuni in itinere.

Andrea Bucciarelli: L’infortunio “in itinere” è disciplinato dall’articolo 12 del decreto legislativo 38/2000.

È “in itinere” l’infortunio avvenuto durante il normale tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il luogo di lavoro, da un luogo di lavoro a un altro (nel caso di rapporti di lavoro plurimi), oppure durante il tragitto abituale per la consumazione dei pasti se non esiste una mensa aziendale. E’ ripartibile in due sottoinsiemi, con e senza mezzo di trasporto coinvolto.

È “in itinere con mezzo di trasporto coinvolto”, l’infortunio in itinere avvenuto in un’area aperta alla pubblica circolazione col concorso di almeno un mezzo di trasporto (veicoli terrestri e non), ad esempio l’infortunio occorso ad un impiegato che si reca in ufficio con i mezzi pubblici o la propria auto (se necessitato) o ad un lavoratore che, tornando a piedi a casa, venga travolto da un veicolo; è “in itinere senza mezzo di trasporto coinvolto”, ad esempio quello occorso ad un lavoratore che inciampa sul marciapiede recandosi al lavoro (comunque una minoranza).

Per inciso, l’Italia è un paese all’avanguardia nella tutela del lavoratore “da quando esce di casa a quando vi ritorna”, dato che in altri paesi (anglosassoni ad esempio) l’infortunio stradale in itinere non viene rilevato come da lavoro ma gestito nell’ambito della responsabilità civile auto; inoltre quanto previsto dalla normativa del 2000 è di fatto in continua evoluzione con l’Inail che recepisce i pareri della Cassazione su fattispecie particolari (come nel 2014 per la tutela degli infortuni occorsi al lavoratore in caso di deviazione dal percorso casa-lavoro effettuata dal genitore per accompagnare i figli a scuola) e gli aggiornamenti normativi (ad esempio, il riconoscimento dell’uso della bicicletta non più solo su pista ciclabile, a seguito del Collegato Ambiente alla Legge di Stabilità 2016).

Comunque il riconoscimento di un infortunio in itinere è subordinato alla verifica di modalità e circostanze di ogni singolo evento nel rispetto di alcuni vincoli ai fini della copertura assicurativa: se il tragitto è percorso con ordinarie modalità di spostamento (mezzi pubblici, a piedi ecc.), devono sussistere le finalità lavorative, la normalità del tragitto e la compatibilità degli orari, inoltre se si verifica a bordo di mezzo privato (automobile, scooter)  è tutelato solo se l’utilizzo del proprio mezzo é “necessitato” (per esempio, mancanza di mezzi pubblici o relativi tempi di attesa/percorrenza eccessivamente dispendiosi); le interruzioni e deviazioni del percorso “normale” non rientrano nella copertura assicurativa, a meno che non ricorrano specifiche condizioni di necessità; non sono tutelati gli infortuni direttamente causati dall’abuso di sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni, dalla mancanza del titolo di abilitazione alla guida da parte del conducente.

A suo parere l’aumento delle attività in smart working o comunque di lavoro a distanza, come è stato durante la pandemia, possano essere un incentivo e una strategia per ridurre gli infortuni in itinere?

Andrea Bucciarelli: Direi che l’equazione “meno percorrenze stradali = meno incidenti stradali” vale anche per gli infortuni in itinere che del rischio da circolazione in strada sono diretta conseguenza.

Sul fenomeno degli incidenti stradali (in generale, non solo lavorativi), le stime Aci-Istat relative ai primi nove mesi del 2020, divulgate a dicembre scorso, parlavano di una diminuzione del 29% degli incidenti con lesioni e del 26% di vittime rispetto al pari periodo anno precedente (ripeto, per incidenti occorsi a chiunque, non solo lavoratori).

Tornando agli infortuni sul lavoro “in itinere” denunciati, come già detto, nel 2020 quelli in complesso sono calati del 38% rispetto al 2019 (e la loro l’incidenza sul totale dal 16% del 2019 è scesa all’11% nel 2020), mentre le denunce in itinere con esito mortale sono calate del 32% (e la loro incidenza sul totale dei decessi denunciati è diminuita al 15% dal 27% rilevato sul 2019). Considerando poi anche gli infortuni in occasione di lavoro con mezzo (conducenti professionali, ecc), prevenire gli incidenti stradali, significa quindi ridurre un’importante quota degli infortuni sul lavoro.

L’Inail è già attivo da tempo in tal senso e, ad esempio, nell’ambito dell’oscillazione per prevenzione – uno sconto sul premio di tariffa alle aziende che raggiungono un certo punteggio per aver eseguito interventi per il miglioramento delle condizioni di prevenzione e tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro – ha previsto specifiche voci per la sicurezza stradale (per es. corsi di guida, fornitura di servizi navetta, partecipazione con gli enti competenti per il miglioramento delle infrastrutture stradali in prossimità del luogo di lavoro). Vengono inoltre sottoscritti periodicamente protocolli di intesa con altre istituzioni in materia di sicurezza stradale per lo scambio di dati e collaborazione in iniziative di formazione/informazione nonché avviati specifici progetti di ricerca/studio/sperimentazione attraverso i suoi due dipartimenti scientifici (l’Inail nel 2010 ha incorporato l’Ispesl, Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro).

Per tornare alla domanda, il massiccio e normativamente “emergenziale” ricorso allo smart working del 2020 è stato ovviamente una necessità dettata dal contenimento della pandemia ma ha costituito anche una sperimentazione su vasta scala del lavoro agile di cui analizzare modalità, caratteristiche, produttività, criticità e vantaggi.   

(…)

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “COVID-19 e lavoro agile: crollano i dati relativi agli infortuni in itinere”

Intervista di Tiziano Menduto

Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Alessandro Negrini e all’Ing. Serenella Corbetta del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.


Come raccontato in un precedente post, il lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, non è solo una conseguenza della pandemia e dell’emergenza COVID-19. Il modello organizzativo del lavoro a distanza è molto di più: è una nuova prospettiva, un “mutamento copernicano” con cui il mondo del lavoro deve confrontarsi per il presente e per il futuro. E non solo in riferimento alla scelta, o meno, di adottarlo, ma anche in relazione alle nuove strategie di prevenzione e alle corrette prassi di valutazione dei rischi di una realtà che la normativa attuale fatica ancora a riconoscere e gestire adeguatamente, almeno per quanto riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Per cercare di conoscere meglio questo mondo ho già segnalato il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI. E ho presentato – nel post “Covid e smart working 01: criticità e prospettive future” – una intervista ad alcuni dei suoi autori, gli ingegneri Gaetano Fede e Stefano Bergagnin.

Se in quella intervista mi sono soffermato sulle caratteristiche del lavoro agile e sulle carenze normative, nell’intervista che presento oggi- con due componenti del GTT “Smart working e lavori in solitudine”, gli ingegneri Alessandro Negrini e Serenella Corbetta – affronto alcuni aspetti più operativi relativi allo smart working.

Ricordo che l’intervista è stata realizzata e pubblicata per PuntoSicuro nell’articolo “Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”.  


Possiamo dare qualche consiglio alle aziende che si trovano a dover valutare i rischi dello smart working anche in relazione all’attuale contesto emergenziale?

Ing. Alessandro Negrini: Come molti strumenti innovativi legati all’organizzazione d’impresa, anche il lavoro agile richiede una solida pianificazione fondata su quelli che possiamo considerare i tre pilastri di qualsiasi processo di sviluppo destinato al successo: una comunicazione efficace, una formazione graduale (quanto continua nel tempo) e l’accesso a nuove tecnologie scalabili con cui poter prendere confidenza via via che si procede lungo la curva d’apprendimento.

Il primo consiglio, quindi, è di agire in modo ponderato nonostante l’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria: lo smart working impone di definire chiaramente a priori sia gli obiettivi che le risorse destinate ad alimentare quello che sarà un cambiamento strutturale, importante e – soprattutto – articolato nel tempo. Questo per non confondere la flessibilità con l’improvvisazione.

Quali sono i rischi più sottovalutati o meno conosciuti nel lavoro a distanza e nello smart working in particolare?

Ing. Alessandro Negrini: Parlando di sicurezza occupazionale in genere, i rischi psicosociali sono spesso trattati alla stregua di una tematica di secondo piano: forse perché è complicato parlare in modo oggettivo di questioni spesso legate alla sfera emotiva, personale. La remotizzazione del lavoro, tuttavia, accentua molte di queste criticità e ci pone davanti alla necessità di affrontarle in modo aperto proprio attraverso la comunicazione e la formazione.

Più nello specifico, una valida gestione dei rischi psicosociali dovrebbe poter stabilire precisi confini tra “pubblico” e “privato” sia in termini di orari che di strumenti di comunicazione anche e soprattutto in funzione delle specifiche necessità individuali: ciò equivale a riconoscere – innanzitutto – che, se anche lo smart working impone un ampio ricorso alla digitalizzazione, questo non implica necessariamente l’estraniamento, l’isolamento o la frustrazione. Si può lavorare (e si deve) in modo agile favorendo un’interazione sociale più ricca ed equilibrata che affianchi il principio d’inclusione a quello della creazione di un mero valore economico.

Certo è che il primo radicale cambiamento di prospettiva (un mutamento copernicano, in un certo senso) prescinde dalle scelte tecnologiche e si fonda, anzi, sulle persone stesse: sullo svecchiamento di una mentalità aziendale che, troppo spesso, considera lo stress (nelle sue varie espressioni) come una componente strutturale dell’attività lavorativa in sé. In questo dobbiamo riconoscere che molti dei problemi associati al lavoro agile (parliamo, fra l’altro, di tecnostress, di burnout, di ansia da controllo/ micro-management) sono gli stessi punti dolenti che, mal gestiti, portano una parte delle aziende ad uscire dal mercato perché insistono tout court nel rifiutare nuovi approcci alla gestione d’impresa sulla base di un equivoco di fondo: la convinzione che un’attività lavorativa bilanciata e “a misura d’uomo” costituisca un’utopia, al pari di un modello organizzativo (come lo smart working) focalizzato sulla qualità del risultato anziché su logore metriche di stampo quantitativo.

Nelle linee di indirizzo si parla di “boundary”, di confine tra spazio lavorativo e spazio domestico. Quali sono i problemi connessi alla gestione degli spazi lavorativi negli ambienti privati e nelle abitazioni?

Ing. Alessandro Negrini: : Nel momento in cui l’impresa diviene “liquida“, i confini fisici dello spazio lavorativo tradizionale si fanno indistinti e, soprattutto, non consentono più di ragionare secondo i vecchi criteri che permettevano di definire un’attribuzione diretta di responsabilità (es. incidente in sede o in itinere, vigilanza di terzi o autonoma ecc.) oltre a stabilire un’implicita compartimentazione tra sfera lavorativa e dimensione privata (fisicamente collocate in luoghi diversi).

Il lavoro agile mette in discussione questi stessi confini e, al contempo, impone di concordarne di nuovi con l’impresa, offrendo – a mio avviso – la preziosa opportunità di superare la standardizzazione tipica dei modelli tradizionali, per focalizzarsi finalmente sugli elementi che davvero possono favorire il benessere individuale dei lavoratori in base alle loro specifiche esigenze di vita.

La gestione dei rischi che interessano i lavoratori agili assume, d’altronde, un’ottica di ampio respiro improntata ad una diversa concezione di welfare, tenendo in conto che la frequente sovrapposizione tra ambiente privato e ambiente di lavoro induce a trasferire le abitudini personali (salutari e non) anche al contesto professionale. Questa tendenza impone la necessità di individuare le fonti di rischio per la salute psico-fisica dei lavoratori secondo una prospettiva a lungo termine e, a mio parere, con un approccio che definirei “olistico” cioè teso a superare la logica dei “compartimenti stagni” menzionata poco fa.

In questo, stimo di rilievo gli esperimenti promossi negli scorsi mesi da alcune imprese che hanno varato programmi di miglioramento della salute aziendale volti a garantire ai propri dipendenti in smart working tutta una serie di iniziative (es. formazione nutrizionale e sugli effetti nocivi del fumo, attività fisica ed educazione posturale on-line ecc.) che ne migliorassero lo stile di vita nonostante la nuova sfida costituita dalla remotizzazione emergenziale. Le implicazioni anche a livello di welfare sociale (es. il contributo alla diffusione di una cultura della salute, l’opportunità di un invecchiamento attivo ecc.) sono evidenti, quanto interessanti.

Come affrontare la valutazione dei rischi nel lavoro agile? Come operare una valutazione in “luoghi di lavoro e in condizioni non controllabili e non monitorabili” direttamente?

Ing. Serenella Corbetta: Ai sensi del D.Lgs. 81/2008, il Datore di lavoro è tenuto alla verifica della conformità dell’ambiente di lavoro ma per quanto concerne i lavoratori agili e la loro prestazione di lavoro “anywhere”, appare evidente la quasi impossibilità di verificare lo stato di tutti i luoghi di lavoro privati in cui operano i lavoratori agili o i luoghi all’aperto.

E’ pertanto utile ricorrere a strumenti di autocontrollo con ausilio di check list compilate dal lavoratore, che deve essere evidentemente reso partecipe e consapevole della valutazione.

La check list deve essere di facile comprensione identificando in primis il luogo prevalente dello svolgimento dell’attività e declinando poi i potenziali rischi da analizzare, contribuendo così ad innalzare il grado di consapevolezza del lavoratore: indicativamente le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, degli spazi di lavoro, degli arredi, del rischio elettrico, incendio , dei fattori organizzativi , di conciliazione spazi vita lavoro, del lavoro in solitario, delle modalità organizzative.

Questa check list sarà poi utile a definire l’informativa – richiesta sempre dall’art. 22 della L. 81/2017- ai lavoratori stessi sui rischi generali e specifici dell’attività lavorativa in modalità agile.

Nella prima parte dell’intervista abbiamo accennato alla riduzione degli infortuni in itinere, ma ci sono esempi di infortuni durante le attività di smartworking?

Ing. Serenella Corbetta: Nel settembre scorso, l’INAIL è stata sollecitata da una richiesta di indennizzo per una lavoratrice caduta dalle scale, mentre effettuava una telefonata di lavoro e svolgeva la sua attività in modalità agile. Alcuni chiarimenti sull’infortunio in smartworking si ricavano dalla circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017, dove è precisato che il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio proprio dell’attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni del profilo professionale del lavoratore.

E’ necessario ricordare che l’art. 22 della Legge 81/2017- attuale normativa sul lavoro agile – prevede espressamente che il datore di lavoro garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori che svolgono l’attività in modalità agile.

Anche in questo caso riteniamo importante, da un lato una check list redatta secondo i suggerimenti che abbiamo prima elencato e dall’altro disciplinare nell’accordo le modalità e i luoghi dove il lavoratore potrà svolgere l’attività lavorativa, con una adeguata e dettagliata informativa sui rischi.

Diciamo qualcosa anche sullo stress lavoro correlato nello smart working. Spesso si è parla di tecnostress e di diritto alla disconnessione. Sono temi che avete affrontato anche nelle linee di indirizzo?

Ing. Serenella Corbetta: Certo, il documento da ampio spazio al diritto della disconnessione, ovvero “il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psico- fisiche”.

Il lavoratore agile è particolarmente esposto all’intensificazione dei ritmi (iper connessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero) all’isolamento e alla connotazione labile dei confini tra spazi/tempi lavorativi e non lavorativi, variabili in parte compensati dall’autonomia nella gestione del tempo.

È il Datore di lavoro che deve evitare che il lavoratore agile, che svolge la propria attività lavorativa da remoto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici, sia sottoposto a stress da eccesso di lavoro o tecno stress disciplinando lo speculare “dovere di disconnessione” nel quadro della nuova organizzazione del lavoro.

Veniamo, infine, a un altro importante argomento trattato nelle linee di indirizzo: la formazione. Che tipo di formazione necessita per uno smart worker?

Ing. Serenella Corbetta: La formazione è certamente un elemento cardine per il miglioramento della consapevolezza dei rischi dello smart worker e deve essere finalizzata ad un cambiamento effettivo degli atteggiamenti e dei comportamenti dei lavoratori che devono acquisire la consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei contesti in cui lavorano. La formazione è l’unico strumento a disposizione delle aziende per tutelare i lavoratori agili aumentando le loro conoscenze e competenze in merito alla sicurezza in ambienti completamente diversi dal tradizionale ufficio aziendale ed è fondamentale per l’azienda che non può garantire il continuo monitoraggio dei luoghi di lavoro.

Ricordiamo che nell’informativa INAIL sullo smart workingil lavoratore è tenuto ad adottare un comportamento coscienzioso e prudente, escludendo luoghi che lo esporrebbero a rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici della propria attività svolta in luoghi chiusi”.

La prestazione all’aperto comporta rischi di cui il lavoratore potrebbe non avere la percezione: rischio furto, rapina, aggressione, per citarne alcuni di cui il lavoratore deve essere conscio nella scelta del luogo dove operare la propria prestazione.

Il dipendente ha l’obbligo di osservare le direttive aziendale e collaborare all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte dal Datore di Lavoro utilizzando gli strumenti tecnologici in sua dotazione, in conformità alle policy aziendali, per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali (art. 22 comma 2 lg 81/2017). La violazione degli obblighi di collaborazione, oltre alla rilevanza disciplinare, potrebbe determinare una limitazione di responsabilità in capo al datore di lavoro.

È pertanto implicito nel disposto normativo l’obiettivo di rendere consapevoli e partecipi i lavoratori all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte e solo un valido percorso formativo ad hoc, può permettere il raggiungimento dell’obiettivo.

Parliamo di una riprogettazione del processo formativo dello smart worker, dando certamente spazio alla formazione sui rischi tradizionali, ma pensando anche a percorsi di autoformazione guidati dal Rspp o da formatori qualificati, che declinino diversi momenti di autovalutazione delle proprie condizioni lavorative anche tramite interviste e somministrazioni di check list, training on the job o mentoring.

È necessario poi una grande attenzione ai nuovi contenuti di digital divide, diritto al distacco, problem solving e capacità di gestire il cambiamento. Riteniamo che l’aggiornamento formativo dello smart worker, partendo dal percorso tracciato dall’Accordo Stato Regione del 21/12/2011 che prevede 6 ore nel quinquennio, debba essere declinato con un monte ore annuale, esplicitato nell’accordo individuale con il lavoratore che diviene parte attiva del processo stesso con lavori a progetto che stimolino la capacità di acquisire competenze, riconoscere fonti attendibili, identificare i propri indicatori di perfomance.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Intervista di Tiziano Menduto

Covid e smart working 01: criticità e prospettive future

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Gaetano Fede e all’Ing. Stefano Bergagnin del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.

Non c’è ormai alcun dubbio sul fatto che molte conseguenze sul mondo del lavoro della pandemia siano ormai quasi irreversibili, specialmente in termini di innovazione e riorganizzazione lavorativa. Il rischio biologico connesso al COVID-19 ci ha avvicinato ad un nuovo possibile modello lavorativo a distanza che tuttavia necessita di adeguate tutele e di una normativa moderna e adeguata, anche in materia di prevenzione.

Proprio per cercare di ragionare su questi aspetti, aiutare aziende e lavoratori a migliorare la prevenzione e proporre eventuali modifiche normative sono state pubblicate dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI) le “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working”. Un documento – a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo “Smart working e lavori in solitudine” del CNI – che ho pensato fosse utile approfondire attraverso alcune mie interviste pubblicate dal giornale online PuntoSicuro.

Nella prima intervista presentata oggi – pubblicata nell’articolo “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future” – ho posto alcune domande all’Ing. Gaetano Fede (Consigliere CNI e Coordinatore del Gruppo di Lavoro Sicurezza) e all’Ing. Stefano Bergagnin (Gruppo di Lavoro Sicurezza CNI) cercando di comprendere quali possano essere le carenze nella tutela dei lavoratori agili, quali siano i rischi del fraintendimento tra smart working e telelavoro e, specialmente, quali lacune si annidino in una normativa, la Legge n. 81 del 22 maggio 2017 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato“, che, come ricordato nell’articolo, “non sembra essere al passo del cambiamento richiesto dalle conseguenze della pandemia”.

L’intervista vuole comprendere anche cosa è possibile fare per migliorare le tutele dei lavoratori e quali siano gli eventuali vantaggi del lavoro a distanza, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere.

Nelle prossime settimane riporterò sul blog anche una seconda intervista sul lavoro agile con particolare attenzione ad aspetti più operativi, come la formazione dello smart worker e l’analisi e valutazione dei rischi, con riferimento al tecnostress e al confine tra spazio lavorativo e domestico.

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Partiamo dalle motivazioni che hanno portato il CNI a occuparsi di smart working… Quali sono a vostro parere le principali lacune e carenze, normative e culturali, che possono portare a sottovalutare o a non tutelare adeguatamente i rischi dei cosiddetti lavoratori agili?

Ing. Gaetano Fede: C’è da sottolineare innanzitutto che la veloce diffusione del lavoro a distanza a partire dall’inizio del periodo pandemico del COVID19 nel nostro Paese ha colto tutti impreparati considerato che il telelavoro, e soprattutto lo smartworking, in Italia non erano diffusi come in altri Paesi.

Il GdL sicurezza del CNI aveva tuttavia già attivato un GTT (Gruppo Tematico a Tempo) in merito proprio allo smartworking e al lavoro in solitudine, che a volte coincidono, perché ritenemmo, già 2 anni fa, che fosse necessario un approfondimento sui rischi per i lavoratori che svolgono la propria attività secondo tali modalità.

Con il diffondersi della pandemia e l’incremento del lavoro a distanza abbiamo ritenuto ancora più urgente sviluppare il lavoro delle linee di indirizzo con la massima urgenza, in quanto l’unica norma in vigore in merito al lavoro agile è la Legge 81/2017, a nostro avviso non sufficientemente dettagliata per fornire indicazioni su come valutare e gestire i rischi che sono presenti, a volte in modo diverso, anche per chi lavora esternamente alla sede aziendale.

Nelle vostre linee di indirizzo si fa riferimento al “diffuso fraintendimento” tra le diverse modalità del lavoro agile e del telelavoro. Quali sono le differenze tra queste due modalità di lavoro e i rischi di questa confusione?

Ing. Gaetano Fede: Ci sono diversi aspetti in comune tra lavoro agile e telelavoro, ad esempio il fatto che si lavori a distanza, ma vi sono differenze fondamentali che non sono mai state messe in evidenza e di conseguenza quando i “media” trattano il tema del lavoro a distanza, così diffuso in questo periodo, lo indicano semplicemente come smartworking.

Tuttavia non è così, perché vi sono due differenze fondamentali.

In primo luogo l’assoluto vincolo di orario presente nel telelavoro ma non previsto, o previsto soltanto parzialmente, per il lavoro agile. Inoltre il lavoro agile (sostanzialmente coincidente con la definizione smartworking) prevede che vi sia sempre un obiettivo concordato tra lavoratore e azienda (o ente perché è applicato anche nel settore pubblico), aspetto questo che il telelavoro non prevede. Mettere insieme due diverse tipologie di lavoro a distanza rischia pertanto di confondere pericolosamente le acque, anche in relazione ai nuovi rischi che ne possano derivare.

A suo parere nella riorganizzazione lavorativa seguita alla pandemia qual è stata la reale proporzione, nella diffusione del lavoro a distanza, tra le nuove realtà di telelavoro o di lavoro agile?

Ing. Gaetano Fede: Non ci sono ancora dati governativi ufficiali dai quali possiamo attingere.

Al momento sui quotidiani si parla di circa 6 milioni di lavoratori a distanza (qualcuno continua a dire in smartworking e, come sopra detto, non è corretto), ma abbiamo potuto appurare, avendo rapporti giornalieri con enti pubblici, che in questi ambiti non si tratta quasi mai di lavoro agile ma semplicemente di telelavoro, modalità già presente da anni ma poco utilizzata.

Anche nel privato la condivisione di obiettivi tra lavoratori e azienda non viene spesso definita e ufficializzata. Senza dubbio la percentuale di lavoratori agili tra gli attuali 6 milioni è decisamente minoritaria.

Parlando di prevenzione il lavoro in smart working e in telelavoro hanno indubbiamente anche dei vantaggi rispetto al lavoro svolto nei classici ambienti lavorativi, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere. Ci sono dati a questo proposito? Qual è il suo parere sulla diffusione del lavoro a distanza anche successivamente all’emergenza?

Ing. Gaetano Fede: I dati INAIL del 2020 non sono ancora ufficiali e pertanto non possiamo sapere se effettivamente gli infortuni in itinere sono diminuiti, ma ci aspettiamo sicuramente che la riduzione sia stata significativa. A tal proposito evidenziamo anche un minore impatto ambientale (diminuzione dell’inquinamento atmosferico) legato senza dubbio al lockdown scaturente dalla pandemia; tutti abbiamo notato negli ultimi 15 mesi un’aria più pulita e una maggiore visibilità! Se riducessimo gli spostamenti per un numero importante di lavoratori a distanza, sicuramente tale situazione sarebbe comunque costante nel tempo.

Il lavoro a distanza sarà certamente predominante nel prossimo futuro, come già prevedono le modalità di importanti aziende multinazionali, che lo alternano con giornate in presenza; solo così saranno più facilmente raggiungibili gli obiettivi condivisi e saranno più gestibili i rischi, sia in merito agli aspetti propriamente tecnici, sia per gli aspetti collegabili alle delicate tematiche della “socialità” e dello “stress lavoro correlato”.

Le linee di indirizzo sottolineano che la Legge n. 81/2017, benché relativamente recente, risente di “un approccio di vecchio stampo”. Quali sono a suo parere gli aspetti su cui il legislatore dovrebbe intervenire per rendere la norma più efficace?

Ing. Stefano Bergagnin: L’abbiamo definita “vecchio stampo” semplicemente perché riprende il principio risalente al primo recepimento con il D.Lgs. 626/94 della direttiva quadro europea sulla sicurezza, la 89/391/CEE, che prevedeva praticamente buona parte della responsabilità sulla valutazione dei rischi a carico del “datore di lavoro”. In merito al lavoro agile siamo decisamente ancora in queste condizioni, quando invece l’approccio dovrebbe essere diverso, anche per ragioni pratiche.

Facciamo un esempio: come può un datore di lavoro (anche se con la collaborazione del RSPP) effettuare una completa e approfondita valutazione dei rischi per il lavoratore che magari opera da casa sua? Non è senza dubbio sufficiente l’informativa di cui parla la Legge 81/2017; non è possibile effettuare una buona valutazione dei rischi basandosi semplicemente su un’informativa annuale come prevede la nostra norma. All’estero, in alcuni casi, la collaborazione del lavoratore stesso, tramite la trasmissione di dati specifici utili alla redazione del documento in merito alla valutazione dei rischi, è obbligatoria.

Il mondo sta cambiando repentinamente, la sede di lavoro non sarà più per molti la sede aziendale, c’è bisogno di un nuovo paradigma, di una maggiore collaborazione tra le parti per il bene, in primo luogo, del lavoratore.

Qual è il suo parere su quello che si è fatto, in questa fase di emergenza, per favorire, insieme alla diffusione del lavoro a distanza, anche un’adeguata tutela? Si poteva fare di più?

Ing. Stefano Bergagnin: E’ difficile dare un giudizio in merito: c’è chi ha agito bene e chi ha sottovalutato le possibili conseguenze. In alcuni grandi gruppi industriali c’è stata senza dubbio una collaborazione tra aziende e sindacati, si sono definiti obiettivi, condizioni di lavoro, approfondimenti e la conseguenza è stata la focalizzazione di problemi specifici che possono condizionare il lavoro a distanza.

Parallelamente, soprattutto nel pubblico e nelle aziende di piccole dimensioni, il problema non è stato affrontato, la condivisione tra azienda/ente e lavoratori è stata minima soprattutto in relazione all’improvviso diffondersi della pandemia e del necessario spostamento a distanza del lavoratore, senza neppure trattarne le conseguenze e, addirittura, confondendo e/o sovrapponendo telelavoro e smartworking.

Sono previsti, come è stato per le linee di indirizzo per gli spazi confinati, futuri aggiornamenti? Quali sono i prossimi progetti su cui lavorerà il CNI in materia di smart working?

Ing. Stefano Bergagnin: Senza dubbio ci sarà un futuro aggiornamento perché siamo in piena evoluzione. Ci aspettiamo in primo luogo un aggiornamento della normativa e un approfondimento da parte del legislatore ma nel frattempo noi del GdL e dello specifico GTT sullo smartworking continueremo a studiare l’evoluzione tecnologica legata al lavoro agile e la gestione dei rischi ad esso collegati. Non è escluso un sondaggio, tra i nostri iscritti esperti nel settore, al fine di raccogliere importanti e dettagliati contributi/criticità dai vari territori del nostro Paese.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Intervista di Tiziano Menduto

Spazi confinati 05: strumenti e formazione per ridurre gli infortuni

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Documenti Inail e strumenti per la formazione. Intervista a Luciano Di Donato, DIT Inail.

IndagineSicurezza”, blog di riflessione e di approfondimento sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro in Italia, ha ospitato in questi anni diversi materiali e interviste realizzate sul tema degli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un ambito, quello degli spazi confinati, che continua a mietere vittime, come recentemente avvenuto, a fine maggio 2021, per due operai che sono morti per esalazioni di vapori tossici all’interno di una vasca di lavorazione. E tutto questo malgrado anche normative ad hoc – come il Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 – che insieme al D.Lgs. 82/2008 dovrebbero garantire una adeguata tutela per i lavoratori che lavorano in questi ambienti.

Se l’ultimo post ha presentato uno studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludiamo questa piccola inchiesta, costruita con interviste da me realizzate per il giornale online PuntoSicuro, con le risposte dell’ing. Luciano Di Donato (Responsabile del Laboratorio II – macchine e attrezzature di lavoro Dipartimento DIT dell’Inail) riguardo ad alcune ricerche e alcuni documenti (tre factsheet) pubblicati dall’Istituto:

  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Aspetti legislativi e caratterizzazione”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Formazione in aula e addestramento in campo”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Prodotti di ricerca dell’Istituto”.

Questi tre factsheet possono offrire molti spunti per chi si occupa, anche dal punto di vista formativo, della prevenzione degli infortuni in questi ambienti. 

L’intervista, realizzata nel mese di maggio 2021, è stata pubblicata su PuntoSicuro nell’articolo “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”.

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In relazione ai tanti infortuni mortali che avvengono negli ambienti confinati il nostro giornale si è spesso soffermato sulle problematicità e carenze, anche a livello normativo. Cominciamo a parlare di questo nuovo progetto Inail partendo dalle norme. Quali sono quelle di riferimento e quali sono le principali criticità?

Luciano Di Donato: In merito a questo primo quesito voglio intendere il termine norma nel senso più ampio della parola e quindi includere in questo termine la legislazione applicabile che oggi è rappresentata dal D.lgs. 81/2008, norma sulla sicurezza del lavoro, e dal Dpr 177/2011, regolamento per la qualificazione delle imprese che operano in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento.

È invece, in corso di sviluppo, un progetto di norma tecnica (UNI) specifica per l’argomento con l’obiettivo di curare alcuni aspetti non completamente definiti dalla legislazione applicabile.

Le principali criticità della nostra legislazione sono:

  • Una mancanza di definizione di ambiente confinato e/o sospetto di inquinamento;
  • L’esistenza di un elenco non esaustivo di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento;
  • La mancata definizione di criteri, modalità, contenuti e durata per la formazione e l’addestramento dei lavoratori.         

I suggerimenti per risolvere le criticità di cui all’elenco possono evincersi da una lettura completa delle risposte a tutte le domande formulate oltre, per evitare ridondanze, dalla lettura dei factsheet prodotti.

Nei factsheet pubblicati sono presentati alcuni dati e si fa riferimento anche agli ambienti “assimilabili” e alla cosiddetta “catena della morte”. Cosa si intende e perché quest’ultima è spesso correlata agli infortuni che avvengono in questi ambienti?

LDD: I dati pubblicati derivano da una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro e non possono considerarsi dati statistici, rappresentano però una importante raccolta di casi che vogliono essere di indirizzo a chi lavora in questo campo. 

Con il termine assimilabili (anche questi riportati negli istogrammi), si intendono tutti quegli ambienti che hanno medesimi pericoli e conseguenti rischi di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento ma non inclusi in quelli descritti nei pertinenti articoli del DLgs. 81/2008

Il termine tragica catena di morte fu usato la prima volta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e pubblicato sulla cronaca della Repubblica dopo il grave infortunio con la morte di 5 lavoratori a Molfetta in una autocisterna. Viene ancora utilizzato perché per la tipologia degli ambienti dove questi infortuni accadono (ristretti, con difficoltà di ingresso e di uscita, inquinati e con una non facile applicazione delle fasi dell’emergenza) se fallisce la procedura di sicurezza (perché non adeguatamente realizzata o addirittura mancante), al primo lavoratore coinvolto seguono altri che nell’intento di soccorrere il compagno cadono vittima della stessa situazione pericolosa.

Se non è stata fatta una adeguata analisi e valutazione del rischio che tenga conto anche di una progettazione dell’emergenza questa catena si ripete. Non a caso parlo di progettazione dell’emergenza perché in alcuni casi si può arrivare a dover dissaldare parte di un serbatoio per salvare l’operatore che per qualsivoglia motivo è diventato non collaborante. 

Come si è sviluppato il vostro lavoro di ricerca e quali sono le criticità che avete riscontrato per la sicurezza in questi ambienti? Quanto è importante la formazione per prevenire efficacemente gli infortuni?

LDD: Le attività di ricerca hanno riguardato dapprima l’analisi dell’incidentalità e letalità correlate con le attività lavorative da svolgere in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e, successivamente, si sono concentrate nello studio di misure tecnico-organizzative per operare in sicurezza in tali ambienti. I risultati delle ricerche hanno permesso la progettazione di un simulatore fisico in grado di riprodurre diverse possibili condizioni di lavoro tipiche che caratterizzano gli ambienti in esame; il simulatore ha, poi, permesso di sperimentare specifici percorsi formativi e di addestramento da erogare agli operatori di settore.

La formazione, sia in aula che in campo, con enfasi all’apprendimento esperienziale consentito anche dall’uso del simulatore, diventa, quindi, un’attività fondamentale per accrescere la consapevolezza dell’operatore relativamente al corretto utilizzo della strumentazione, dei DPI e delle attrezzature di lavoro anche ai fini dell’emergenza. Tutto quanto sopra, col fine di realizzare una efficace applicazione della procedura di lavoro che, può crearsi anche a seconda della tipologia di ambiente per il quale viene richiesta la formazione e l’addestramento.

In cosa consiste la formazione esperienziale che avete messo a punto e come è stata applicata nei percorsi formativi nel 2020?

LDD: I lavoratori apprendono facendo: l’uso del simulatore fisico (passi d’uomo, tecnologia per il controllo delle azioni e per l’alterazione delle condizioni cognitive) nonché delle attrezzature a corredo (barella, fit test, sistema di sollevamento a sbraccio variabile, ecc) hanno consentito una esperienza realistica delle operazioni da compiere in emergenza.

Questa modalità, di fatto, forma le abilità richieste non solo attraverso l’addestramento diretto ma anche risolvendo le incertezze che possono sorgere in campo.

Proprio per questo, a valle dell’addestramento pratico, si è previsto un momento di confronto in aula dedicato a tutti dubbi (appositamente raccolti in forma anonima) insorti durante l’addestramento.

Questo iter aiuta anche i formatori a trovare insieme con i lavoratori e i datori di lavoro coinvolti nuove soluzioni operative, ancora una volta un apprendere facendo. Il percorso aiuta a risolvere gli inevitabili imprevisti che accadono e che, in un ambiente di simulazione protetto e sicuro, non portano ad incidenti (ma portano esperienza). Imprevisti che se accadessero nella realtà potrebbero essere mortali. 

Lei ha sottolineato l’importanza, per la formazione e l’addestramento, del simulatore fisico. Come è stato realizzato? Con quali criteri e risultati?

LDD: L’idea del simulatore, è nata diversi anni fa attraverso una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro che aveva, come obiettivo, la realizzazione di un serious game per innalzare le capacità di comprensione dei pericoli e conseguenti rischi dei lavoratori qualificati per operare in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento. La sua realizzazione è stata la risposta concreta ad un periodo di infortuni gravi e mortali che si ripetevano con grande frequenza e che coinvolgevano un numero, per incidente, molto elevato di lavoratori (un lavoratore e quattro colleghi/soccorritori morti in un solo caso – strage di Molfetta).

Il simulatore è stato realizzato utilizzando un container trasportabile dotato di strumentazione di controllo e con sistemi di alterazione della capacità cognitive dei lavoratori che possono manifestarsi anche durante l’esercitazione, simulando di fatto, una condizione critica in itinere. Molti casi di infortunio evolvono nelle fasi di lavorazione per il cambio nel tempo delle condizioni dell’ambiente o addirittura (vedi attività di saldatura o lavorazioni sul piano stradale) dove i fumi e/o gas invadono l’ambiente che era stato preventivamente bonificato.

L’idea del trasporto è stata vincente perché già alcune multinazionali (appena prima dell’avvio della pandemia) hanno portato presso la loro sede il simulatore formando, con la nostra assistenza, il personale operante e qualificato per quelle tipologie di lavoro.

I criteri che ne hanno guidato la progettazione sono stati quelli di avvicinarsi quanto più possibile, in un ambiente protetto, alle condizioni reali operative anche per il salvataggio in emergenza. I risultati, per ora – benchè i dati non siano sufficienti per poter parlare di statistica – sono davvero interessanti. Le interviste pre formazione/ addestramento e quelle in uscita hanno mostrato che il sistema funziona e si innalzano le capacità di attenzione ai pericoli e rischi dei lavoratori impiegati oltre ad un innalzamento della cultura della sicurezza perché praticata appunto in modo esperienziale. 

Nei factsheet si parla sia di simulazione fisica che di simulazione virtuale e di realtà aumentata. Quali sono le differenze e le specificità?

LDD: I vantaggi principali e rappresentativi della realtà virtuale ed aumentata sono essenzialmente quelli di poter ricreare un qualsivoglia ambiente anche molto complesso con l’obiettivo di: effettuare valutazioni e scelte appropriate, fare una panoramica della situazione, considerando le condizioni del momento e il rischio correlato, esercitarsi a stimare il rischio potenziale correlato all’evoluzione della situazione; allenarsi a reagire a contingenze e fallimenti generati stocasticamente (cioè guasti, incendi, esplosioni, ecc.).

Pur essendo una tecnologia di cui non dobbiamo fare a meno, ed il laboratorio ha già lavorato su questo aspetto e continua a produrre soluzioni, attualmente non risolvono in modo completo ed esaustivo la fase di addestramento dei lavoratori ma rappresentano un ottimo rinforzo delle attività in aula. 

Il simulatore fisico consente di replicare le sensazioni fisiche relative ad operazioni tipiche: uso delle imbragature, uso della barella con movimentazione dell’operatore, uso del sistema di sollevamento a sbraccio variabile per le operazioni di recupero e salvataggio, nonché le possibili alterazioni delle prestazioni cognitive. Una formazione specialistica per essere tale deve preparare efficacemente e in modo completo alle condizioni di rischio standard e meno prevedibili. L’uso della realtà aumentata e virtuale per la rappresentazione di ambienti diversi e, di un simulatore fisico per la riproduzione di sensazioni fisiche e alterazioni cognitive in contesti lavorativi differenti, sono complementari e di fatto rappresentano un efficace sistema per ottenere una formazione che sia la più completa possibile.

Nei documenti prodotti avete parlato anche del Fit Test. Ricordiamo innanzitutto cos’è e perché è importante…

LDD: Prima di dire che cosa è le rispondo sul perché è importante eseguire il Fit test: è importante perché serve a verificare che le maschere e i facciali monouso delle vie respiratorie forniscano la giusta protezione e cioè che aderiscano bene al volto di chi li indossa. Infatti, barba, baffi, eventuali cicatrici o piccole difformità faciali ne possono compromettere l’efficacia.

Il Fit Test determina appunto la capacità della maschera o del facciale di mantenere la tenuta quando il lavoratore è in movimento. Per questo motivo gli utenti sottoposti al test devono completare diversi esercizi. Un DPI che si sposta durante il movimento potrebbe non essere in grado di mantenere la tenuta.

Esistono due tipi di test: qualitativi e quantitativi: nel caso di un Fit Test quantitativo (QNFT), che può essere utilizzato per qualsiasi maschera e facciale monouso aderente, questo prevede l’utilizzo di uno strumento per misurare le perdite intorno al volto e produce un risultato numerico chiamato Fit Factor che ci fornisce l’idoneità o meno del dispositivo per l’operatore che indossa il dispositivo.

Nelle attività in cui è necessario accedere a spazi confinati con dispositivi di protezione delle vie respiratorie questi test sono eseguiti?

LDD: Non è semplice rispondere a questa domanda. Alcuni casi di infortunio grave e mortale hanno individuato la causa nella scelta sbagliata del DPI (facciale filtrante, piuttosto che facciale isolato in un ambiente dove non c’era un adeguato livello di ossigeno) ma questo, non denota appunto, un corretto uso se finalizzato al modo di indossare il facciale piuttosto una scorretta analisi del rischio. Il fit test non è ritenuto cogente dalla nostra legislazione, ma ritengo, sia una pratica importante da seguire dove possano esserci ambienti di lavoro inquinati e/o con carenza di ossigeno.

Tutto, comunque, deve essere inizialmente valutato nell’analisi del rischio da effettuare prima di qualunque intervento.    

Concludiamo ricordando gli strumenti che l’Inail ha predisposto, oltre al progetto di alta formazione, informazione e addestramento, per gli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili. Ci saranno sviluppi futuri per questa attività di ricerca? E cosa auspicarsi per un miglioramento reale della prevenzione degli infortuni in questi ambienti a rischio elevato?

LDD: In relazione agli sviluppi della ricerca, stiamo già lavorando alla integrazione nel simulatore di sistemi di AG (Augmented Reality) e VR (Virtual Reality) con tecnologie integrate per simulare, in un ambiente virtuale, lo sforzo fisico che oggi non è possibile provare.

Infine, il miglioramento della prevenzione degli infortuni in questo caso passa attraverso:

  • Una prevenzione assistita;
  • Una definizione di criteri certi di formazione informazione ed addestramento del personale;
  • Una continua attività di ricerca per trovare nuovi sistemi e tecniche sicure per operare in questi ambienti.

Per il primo punto, possiamo citare le attività INAIL nella direzione di sconti sui premi assicurativi, nello specifico, nell’ultimo modello OT 23 – prevenzione degli infortuni mortali (non stradali) – è stata inserita la sezione A1 orientata agli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento mettendo in evidenza, tra le possibilità per ottenere questi sconti, la dimostrazione di avere sia la strumentazione (compresi robot) che formazione anche con simulatori. Questa è prevenzione, perché consente ai fruitori, di innalzare il grado di sicurezza con cui affrontare queste attività lavorative.

Per il secondo punto dalle attività con il simulatore vorrebbero arrivare delle proposte concrete, basate sull’esperienza della ricerca sul campo con cui proporre nelle sedi opportune un percorso formativo addestrativo virtuoso e di eccellenza che possa diventare un riferimento legislativo da seguire.

Infine, ad integrazione di quanto già risposto nella prima parte della domanda, un aspetto importante è l’attività di ricerca nel campo della robotica che, dove possibile, deve sostituire l’ingresso dell’uomo in questi ambienti. Anche su questo obiettivo, per altro molto ambizioso, il laboratorio sta lavorando.   

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”

Link ai tre factsheet prodotti dall’Inail

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Responsabilità sociale 01: se le imprese fossero socialmente responsabili

Malgrado le percentuali, a volte sbandierate con eccessiva leggerezza, sugli errori umani alla base degli infortuni professionali, è indubbio che se le imprese fossero “socialmente responsabili” avremmo meno incidenti e malattie professionali.

Essere socialmente responsabili per un’azienda vuol dire essere consapevoli dell’impatto delle proprie decisioni e attività sulla società e sull’ambiente, significa tener conto non solo degli aspetti economici della gestione aziendale, ma anche dell’ambiente e del contesto sociale in cui l’azienda è inserita, con riferimento alle condizioni di lavoro e, dunque, in relazione anche alle tutele in materia di salute e sicurezza.

Cosa bisogna fare per essere socialmente responsabili? Ci sono normative e indicazioni sulla responsabilità sociale d’impresa?

Per parlarne e fornire qualche informazione utile riprendo una mia intervista fatta qualche mese fa a Lucina Mercadante della Consulenza Accertamento Rischi e Prevenzione dell’INAIL che si è lungamente occupata della responsabilità sociale d’impresa, con particolare riferimento alla norma UNI ISO 26000Guida alla responsabilità sociale”. Intervista che è stata pubblicata   su PuntoSicuro del 24 maggio 2019 nell’articolo “La responsabilità sociale riguarda anche la tutela della sicurezza?”.

Ne riportiamo oggi la prima parte, rimandando la seconda parte, che si sofferma in particolare su due prassi di riferimento UNI, ad un futuro post.

Prima di arrivare ad affrontare le novità in materia di Responsabilità Sociale d’Impresa vediamo di ricordare brevemente ai lettori non solo cosa sia la responsabilità sociale nel mondo del lavoro, ma anche l’importanza e le finalità della norma UNI ISO 26000…

Lucina Mercadante: Inizio stimolante. Cosa è la responsabilità sociale d’impresa, mi domanda…

Potremmo dire “La responsabilità di ciascuno di noi, che ciascuno di noi ha nei confronti della società”. Se però dovessimo attenerci ad una definizione tecnica e tecnicamente corretta, attingendo all’unica norma internazionale che ad oggi tratti il tema della responsabilità sociale – delle organizzazioni, allora dovremmo intendere la “Responsabilità da parte di un’organizzazione per gli impatti delle sue decisioni e delle sue attività sulla società e sull’ambiente, attraverso un comportamento etico e trasparente che:

  • contribuisce allo sviluppo sostenibile, inclusi la salute e il benessere della società;
  • tiene conto delle aspettative degli stakeholder
  • è in conformità con la legge applicabile e coerente con le norme internazionali di comportamento);
  • è integrata in tutta l’organizzazione e messa in pratica nelle sue relazioni”.

Definizione, questa, certamente complessa ed articolata, che estende la tematica alle organizzazioni, intese come “Entità, o raggruppamento di persone e strutture, con un assetto di responsabilità, autorità e relazioni e con obiettivi identificabili”.

In sostanza è la “Responsabilità che le organizzazioni hanno nel gestire le loro occupazioni e/o preoccupazioni di carattere economico tenendo conto degli altri, laddove gli altri sono gli stakeholder – tutti – avendo in considerazione anche gli impatti e le conseguenze (soprattutto quelle negative) che le loro attività esercitano, anche nei confronti della società e dell’ambiente, oltre che dell’economia, a seguito ed in conseguenza delle decisioni assunte e delle attività intraprese da un’organizzazione, siano queste passate o presenti”.

Tale approccio, e tale visione, trovano sistemazione, organicità, sistematicità, appunto nella UNI ISO 26000, pubblicata nel lontano 2010 e che ad oggi non ha avuto, a mio avviso, il dovuto risalto e, soprattutto, la giusta diffusione.

Quali le ragioni di ciò?

Svariate:

  • la prima, seguendo un ragionamento prosaico e materiale  – la norma non è certificabile, è una linea guida infatti, dunque poco appeal per il mercato e il mondo delle certificazioni;
  • la seconda – troppo avanti rispetto al momento culturale in cui è stata pubblicata – anno 2010. Il mondo commerciale non era allineato con il quadro culturale, economico, produttivo che la norma sin da allora ha tracciato. Parlare di etica, di due diligence, di catena del valore, di corrette prassi gestionali, dieci anni fa, ha rappresentato un approccio ed una narrazione antesignani del modo di fare impresa.

Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile, di sostenibilità – oggi totalmente inflazionato, alterato, sovrausato, che rappresenta la finalità ultima, l’obiettivo verso una visione responsabile che ciascuno di noi, impresa, organizzazione, soggetto privato, deve avere ed assumere – è apparso come fumoso, inutile, se non addirittura privo di consistenza.

Eppure se si studia e interpreta il quadro sinottico della UNI ISO 26000 si comprende immediatamente come ogni possibile costruzione o itinerario si segua per mettere in piedi un modello di RS, la RS stessa appare come un modo di vivere, un tempo di vita, o meglio un tempo, kaiρos direi, nel senso etimologico più stretto.

Tempo che si sviluppa e realizza basandosi su sette principi fondamentali, che costituiscono l’ossatura dell’agire, e che sono la responsabilità di rendere conto, la trasparenza, il comportamento etico, il rispetto degli interessi degli stakeholder, il rispetto del principio di legalità, il rispetto delle norme internazionali di comportamento, il rispetto dei diritti umani, come riportato al punto 4 del quadro su rappresentato.

Dove tale agire deve essere applicato è invece raffigurato nel punto 6, che riporta gli ambiti di applicazione, definiti temi fondamentali, o core subjects.

Ciascun tema fondamentale si connota poi per aspetti specifici, detti core issues, che rappresentano le aree, proprie di quel determinato tema fondamentale, ove possono realizzarsi le correlate azioni ed attività socialmente responsabili.

Volendo esemplificare, preso in considerazione il tema fondamentale “rapporti e condizioni di lavoro” troveremo come aspetti specifici in cui andare a mettere in piedi azioni ed attività socialmente responsabili:

  1. Occupazione e rapporti di lavoro
  2. Condizioni di lavoro e protezione sociale
  3. Dialogo sociale
  4. Salute e sicurezza sul lavoro
  5. Sviluppo delle risorse umane e formazione sul luogo di lavoro

Ed all’interno di ciascuno dei 5 aspetti specifici citati l’organizzazione secondo coerenza, finalità, affinità, può scegliere il proprio agire che si estrinsecherà, preso ancor ad esempio l’aspetto specifico 4 – Salute e sicurezza sul lavoro – attraverso le correlate azioni ed aspettative che una l’organizzazione stessa potrà realizzare.

La UNI ISO 26000 propone:

“Un’organizzazione dovrebbe:

  • sviluppare, attuare e mantenere una politica della salute e della sicurezza sul lavoro basata sul principio che norme severe sulla sicurezza e la salute e le prestazioni dell’organizzazione si sostengono e si rafforzano reciprocamente;
  • comprendere e applicare i principi di gestione della salute e della sicurezza, compresa la gerarchia dei controlli: eliminazione, sostituzione, controlli tecnici, controlli amministrativi, procedure di lavoro e dispositivi di protezione individuale;
  • analizzare e controllare i rischi per la salute e la sicurezza generati dalle sue attività;
  • formulare la richiesta che i lavoratori dovrebbero seguire tutte le pratiche sicure in ogni momento e assicurarsi che i lavoratori seguano le procedure corrette;
  • fornire l’attrezzatura di sicurezza necessaria, compresi i dispositivi di protezione individuale, per la prevenzione di lesioni, malattie e incidenti di lavoro e per la gestione delle emergenze;
  • registrare e investigare tutti gli incidenti e i problemi relativi alla salute e alla sicurezza per ridurli al minimo o eliminarli;
  • trattare i modi specifici in cui i rischi per la sicurezza e la salute sul lavoro (OHS) influiscono diversamente sulle donne (per esempio le donne in gravidanza, che hanno appena partorito o che stanno allattando) e sugli uomini o sui lavoratori in circostanze particolari quali, per esempio, persone con disabilità o lavoratori inesperti o più giovani;
  • fornire uguale protezione in materia di salute e sicurezza ai lavoratori part-time e temporanei, e ai lavoratori dei subappaltatori;
  • cercare in tutti i modi di eliminare i pericoli psicosociali nel luogo di lavoro, che contribuiscono o conducono a stress e malattia;
  • fornire formazione adeguata a tutto il personale su tutti gli argomenti pertinenti;
  • rispettare il principio che le misure di salute e di sicurezza sul luogo di lavoro non dovrebbero comportare alcun esborso economico da parte dei lavoratori;
  • basare i propri sistemi per la salute, la sicurezza e l’ambiente sulla partecipazione dei lavoratori coinvolti e riconoscere e rispettare i diritti dei lavoratori di:
    • ottenere informazioni tempestive, complete ed accurate sui rischi per la salute e la sicurezza e sulle migliori prassi utilizzate per affrontare tali rischi,
    • informarsi liberamente ed essere consultati su tutti gli aspetti della loro salute e sicurezza correlati al loro lavoro,
    • rifiutare un lavoro che possa ragionevolmente comportare un pericolo imminente o serio per la loro vita o salute o per la vita e la salute di altri,
    • chiedere consiglio ad organizzazioni esterne dei lavoratori e dei datori di lavoro e ad altri che hanno esperienza,
    • relazionare su questioni legate alla salute e alla sicurezza alle autorità competenti,
    • partecipare a decisioni e attività sulla salute e la sicurezza, compresa l’investigazione di incidenti e infortuni,
    • essere liberi da minacce di ritorsioni per aver agito in uno di questi modi”.

Beh, anche solo attraverso un unico esempio, questo, si può di certo affermare che la UNI ISO 26000 offre veramente una visione a tutto tondo; e questo sin dal 2010.

A questo punto mi permetto io di aggiungere un quesito e di proporre anche la risposta.

Come mai una norma di così ampia portata non è stata valorizzata come avrebbe dovuto? E non ha trovato diffusione ed applicazione come sarebbe naturale, considerato quanto offre?

Semplice: troppo avanti per le dinamiche del momento; troppo prematura per un contesto-mondiale non pronto. Adesso però, e da anni ormai, si parla continuamente di sostenibilità: ecco la sostenibilità è la parte di RSO (responsabilità sociale delle organizzazioni) che le organizzazioni perpetrano nel condurre le loro attività tenendo conto dell’impatto sulle generazioni future cui va garantito stesso benessere, dunque almeno stessa diponibilità di risorse offerte a noi se non migliori, anche in virtù delle nuove soluzioni che via via vengono rese disponibili.

Da quanto ci ha raccontato sembra che tra i temi rilevanti correlati alla responsabilità sociale delle imprese, si tenga dunque effettivamente conto anche delle condizioni di lavoro e la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori…

L.M.: Imprescindibilmente direi. Al punto tale che, oltre ad essere un aspetto specifico espressamente previsto all’interno di uno dei temi fondamentali – rapporti e condizioni di lavoro – di cui si compone il percorso di RS che ogni organizzazione deve intraprendere se vuole seguire un percorso secondo la UNI ISO 26000, l’ambito della salute e sicurezza sul lavoro rappresenta, come abbiamo già visto, un’area trasversale a tutti i temi fondamentali, cui vengono riconosciute una significatività ed una strategicità pari a quelle attribuite alla catena del valore ed agli aspetti economici.

Senza dover poi necessariamente richiamare standard di adozione volontaria, mi piace riportare il ragionamento nel contesto nazionale e nel panorama legislativo italiano.

Il legislatore ne prevede l’espressa articolazione nell’ambito del D.Lgs. 81/2008 e s.m.i., il nostro Testo unico, che ne inserisce la definizione (Articolo 2) come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate” e poi richiama le figure cardine, datore di lavoro, medico competente, lavoratori a seguire, nella estrinsecazione del ruolo, a mettere in atto comportamenti responsabili, ispirati ai criteri della RS.

Proprio come rappresentato in seno al D. Lgs. 81/2008 e s.m.i., ove la connessione profonda fra la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e la responsabilità sociale acquista valore e carattere quasi vincolanti, ed addirittura nell’orientare i comportamenti secondo i principi della responsabilità sociale, si ravvisano le peculiarità atte a migliorare i livelli di tutela definiti legislativamente.

Addirittura, nello stesso Testo si invita a (Articolo 6) “valorizzare sia gli accordi sindacali sia i codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria, che (…omissis) orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente”, e a rafforzare la connessione profonda fra la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e la responsabilità sociale che qui, assume ed acquista valore e carattere quasi vincolanti, se si ravvisano peculiarità atte a migliorare i livelli di tutela definiti legislativamente.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “La responsabilità sociale riguarda anche la tutela della sicurezza?”…

Intervista di Tiziano Menduto

Regolamento europeo DPI 02: le scadenze e le modifiche necessarie

Partendo dall’importanza dei dispositivi di protezione individuali (DPI) in ogni strategia di prevenzione degli infortuni, specialmente laddove i rischi non possano essere evitati o sufficientemente ridotti diversamente, torniamo a parlare del nuovo Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui dispositivi di protezione individuale, che abroga la Direttiva 89/686/CEE del 21 dicembre 1989 (dallo scorso 21 aprile 2018).

Nel precedente post ho ricordato che, come indicato dalla legge del 25 ottobre 2017, n. 163, saranno necessari futuri adeguamenti, ad esempio per aggiornare le disposizioni del decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 o per abrogare eventuali disposizioni incompatibili con il Regolamento 2016/425. E forse sarà prevista qualche modifica allo stesso D.Lgs. 81/2008, Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Riguardo ai DPI cosa è cambiato dal 21 aprile 2018 per le aziende? Sarà veramente necessario modificare il D.Lgs. 81/2008 o potrebbe essere sufficiente una revisione del D.Lgs. 475/92? Quali sono le problematiche lasciate aperte dal nuovo regolamento?

Per rispondere a queste domande è stata pubblicata su PuntoSicuro – prima della scadenza del 21 aprile 2018 e nell’articolo “Le criticità relative all’applicazione del nuovo Regolamento DPI” – un’intervista a Virginio Galimberti, presidente della Sottocommissione DPI dell’UNI.

Presento in questo post le risposte alle prime tre domande che gli abbiamo posto sul significato della scadenza del 21 aprile, sulle modifiche normative e su alcune problematiche correlate alle “disposizioni transitorie”.

Nella seconda parte dell’intervista – che pubblicherò in un prossimo post – Virginio Galimberti si soffermerà sulle novità del nuovo Regolamento DPI, sulla futura normativa tecnica e sulle conseguenze del Regolamento sulle aziende e sulla sicurezza dei DPI.

 


Partiamo dalla scadenza del prossimo 21 aprile 2018 in cui si dovrà applicare il nuovo Regolamento 2016/425 e cerchiamo di capirne meglio il significato. In realtà il Regolamento era già entrato in vigore circa due anni fa, cosa cambia realmente ora con la scadenza del 21 aprile?

Virginio Galimberti: Non si può parlare di alcun tipo di cambiamento in quanto, a tutti gli effetti, il Regolamento UE 2016/425, per sua stessa imposizione (art. 48 “Entrata in vigore e applicazione”) stabilisce che lo stesso “entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” (20 aprile 2016) ma “si applica a decorrere dal 21 aprile 2018”. Pertanto non ha ancora visto la sua “applicazione”.

Sono previste alcune eccezioni le cui scadenze, passate e future, sono state fissate in:

  • 21 ottobre 2016 relativa agli articoli da 20 a 36 (Capo V Notifica degli Organismi di Valutazione della Conformità – 20 Notifica; 21 Autorità di notifica; Requisiti relativi alle autorità di notifica; 23 Obbligo di informazione a carico delle autorità di notifica; 24 Requisiti relativi agli organismi notificati; 25 Presunzione di conformità degli organismi notificati; 26 Affiliate e subappaltatori degli organismi notificati; 27 Domanda di notifica; 28 Procedura di notifica; 29 Numeri di identificazione ed elenchi degli organismi notificati; 30 Modifiche delle notifiche; 31 Contestazione della competenza degli organismi notificati; 32 Obblighi operativi degli organismi notificati; 33 Ricorso contro le decisioni degli organismi notificati; 34 Obbligo di informazione a carico degli organismi notificati; 35 Scambio di esperienze; 36 Coordinamento degli organismi notificati) e dell’articolo 44 (Capo VII Atti delegati e atti di esecuzione –  Procedura di comitato) della quale non sono aggiornato ma penso che siano stati definiti tutti gli articoli (anche con Accredia) in quanto necessari per permettere agli Organismi Notificati di procedere nelle fasi di certificazione CE previste dallo stesso regolamento;
  • 21 marzo 2018 relativa all’articolo 45, paragrafo 1 (Capo VIII Disposizioni transitorie finali – Sanzioni – Gli Stati membri stabiliscono norme sulle sanzioni da imporre in caso di violazione, da parte degli operatori economici, delle disposizioni del presente regolamento. Tali norme possono includere sanzioni penali in caso di violazioni gravi. Le sanzioni previste devono essere effettive, proporzionate e dissuasive. Gli Stati membri comunicano tali norme alla Commissione al più tardi entro il 21 marzo 2018, e notificano immediatamente qualsiasi modifica successiva che le riguardi) per la quale, anche in questo caso non sono aggiornato ma penso che si sia fatto ricorso alla legge 24 dicembre 2012 n° 234 che all’art . 33 stabilisce la “Delega al Governo per la disciplina sanzionatoria di violazioni di atti normativi dell’Unione europea”.

 

Immagino che il decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, malgrado l’abrogazione della direttiva recepita, sia ancora formalmente in vigore. È necessario e urgente, a suo parere, che il legislatore lo aggiorni con le novità del Regolamento? E sarà necessario anche modificare il D.Lgs. 81/2008 o potrebbe essere sufficiente una revisione del D.Lgs. 475/92?

Virginio Galimberti: Da quanto mi risulta il decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 (essendo una legge nazionale italiana di recepimento di una direttiva europea) non viene annullato automaticamente dall’abrogazione della direttiva europea 89/686/CEE che l’ha generata e, pertanto, è formalmente in vigore fino a quando verranno prese decisioni in merito.

Oltre alla attuazione della citata direttiva il D.Lgs 475/92 interessa direttamente anche il D.Lgs. 81/2008 in quanto viene specificatamente citato all’art. 76 comma 1 (Requisiti dei DPI) che recita “I DPI devono essere conformi alle norme di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, e sue successive modificazioni”.

Secondo il mio punto di vista non sono della opinione che sia necessario un aggiornamento del D.Lgs. 475/92 perché le regole di applicazione dei Regolamenti, contrariamente alla vecchia legislazione europea riferita alle Direttive, non prevedono decreti attuativi per la loro attuazione. Mi risulta, però che ci esista una legge italiana (legge 25 ottobre 2017, n.163 – Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017) che all’art. 6 (Delega al Governo per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sui dispositivi di protezione) delega il Governo ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con le procedure …..omissis…, uno o più decreti legislativi per l’adeguamento della normativa nazionale al regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sui dispositivi di protezione individuale e che abroga la direttiva 89/686/CEE del Consiglio.

Nello specifico il comma 3 stabilisce: “Nell’esercizio della delega di cui al comma 1 il Governo è tenuto a seguire, oltre ai principi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, anche i seguenti principi e criteri direttivi specifici:

  1. a) aggiornamento delle disposizioni del decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, per l’adeguamento alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/425 e alle altre innovazioni intervenute nella normativa nazionale, con abrogazione espressa delle disposizioni incompatibili con il medesimo regolamento (UE) 2016/425 e coordinamento delle residue disposizioni.

Per quanto riguarda la modifica del D.Lgs. 81/2008 ritengo possa essere sufficiente una eventuale revisione del D.Lgs. 475/92, sempre che avvenga, qualora la stessa tenga in considerazione tutti gli aspetti di adeguamento previsti dal regolamento (ad esempio l’adeguamento dell’art. 77 comma 5 dove si richiama lo specifico addestramento dei DPI per la protezione dell’udito allocati ora dal regolamento nella terza categoria).

 

Lei su PuntoSicuro ha accennato al problema della gestione del periodo di interregno di un anno tra il regolamento e la direttiva che viene abrogata dal 21 Aprile 2018 ma per alcuni aspetti resta in vigore fino al 21 Aprile 2019…

Virginio Galimberti: Il Regolamento UE 2016/425 abroga la Direttiva 89/686/CEE  del 21 dicembre 1989 (art. 4) a decorrere dal 21 aprile 2018 però, con l’art 47 (Disposizioni transitorie) stabilisce che “gli Stati membri non ostacolano la messa a disposizione sul mercato dei prodotti contemplati dalla direttiva 89/686/CEE conformi a tale direttiva e immessi sul mercato anteriormente al 21 aprile 2019”.

Quindi si tratta solo di Dispositivi di Protezione Individuale già coperti da regolare certificazione CE di tipo (attestati) effettuata antecedentemente al 21 aprile 2018 e già prodotti. Per messa a disposizione sul mercato si intende (vedi definizioni riportate nello stesso regolamento): “la fornitura di DPI per la distribuzione o l’uso sul mercato dell’Unione nell’ambito di un’attività commerciale, a titolo oneroso o gratuito”.

Ai fini del regolamento possono essere messi a disposizione sul mercato (Art. 4) solo DPI che, laddove debitamente mantenuti in efficienza e usati ai fini cui sono destinati, soddisfano il presente regolamento e non mettono a rischio la salute o la sicurezza delle persone, gli animali domestici o i beni.

Gli attestati di certificazione CE e le approvazioni rilasciati a norma della direttiva 89/686/CEE rimangono validi fino al 21 aprile 2023, salvo che non scadano prima di tale data”.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

 

Intervista di Tiziano Menduto

Regolamento europeo DPI 01: criticità e applicazione

Benché i dispositivi di protezione individuale (DPI) debbano essere impiegati (come indicato nel D.Lgs. 81/2008) solo “quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro”, è indubbio che i DPI siano un importante risorsa, anche se non la prima, per la prevenzione e riduzione degli infortuni sul lavoro.

Per questo motivo mi pare interessante riportare, in questo e in prossimi articoli del blog, alcune informazioni sul nuovo Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui dispositivi di protezione individuale, che abroga la Direttiva 89/686/CEE del 21 dicembre 1989 e che si applica già dal 21 aprile 2018 (in questa data è abrogata la Direttiva 89/686/CEE).

Alcune brevi informazioni correlate da alcune interviste e approfondimenti realizzate, come si vedrà, prima del 21 aprile, ma ancora in grado di fornire utili indicazioni agli operatori sulle novità in atto.

Ricordiamo innanzitutto che Regolamento, rispetto anche a quanto contenuto nel decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 (Attuazione della direttiva 89/686/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi di protezione individuale), ha leggermente modificato la divisione in categorie dei DPI.

Una nuova divisione in categorie – contenuta nell’allegato I del Regolamento 2016/425 – che non può che avere conseguenze sullo stesso D. Lgs. 81/2008 e sugli allegati.

E, come ricordato nell’articolo “L’applicazione del nuovo regolamento europeo sui DPI” pubblicato su PuntoSicuro il 23 marzo 2018, le categorie di rischio da cui i dispositivi di protezione individuale sono destinati a proteggere gli utilizzatori secondo il nuovo Regolamento sono tre:

  • la categoria I “comprende esclusivamente i seguenti rischi minimi:
    • lesioni meccaniche superficiali;
    • contatto con prodotti per la pulizia poco aggressivi o contatto prolungato con l’acqua;
    • contatto con superfici calde che non superino i 50 °C;
    • lesioni oculari dovute all’esposizione alla luce del sole (diverse dalle lesioni dovute all’osservazione del sole);
    • condizioni atmosferiche di natura non estrema”.
  • la categoria III comprende “esclusivamente i rischi che possono causare conseguenze molto gravi quali morte o danni alla salute irreversibili con riguardo a quanto segue:
    • sostanze e miscele pericolose per la salute;
    • atmosfere con carenza di ossigeno;
    • agenti biologici nocivi;
    • radiazioni ionizzanti;
    • ambienti ad alta temperatura aventi effetti comparabili a quelli di una temperatura dell’aria di almeno 100 °C;
    • ambienti a bassa temperatura aventi effetti comparabili a quelli di una temperatura dell’aria di – 50 °C o inferiore;
    • cadute dall’alto;
    • scosse elettriche e lavoro sotto tensione;
    • annegamento;
    • tagli da seghe a catena portatili;
    • getti ad alta pressione;
    • ferite da proiettile o da coltello;
    • rumore nocivo”.

La categoria II “comprende i rischi diversi da quelli elencati nelle categorie I e III”.

E se la categoria di rischio dei DPI è importante per le procedure di valutazione della conformità dei DPI (la dichiarazione di conformità UE attesta il rispetto dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza), altre piccole modifiche riguardano poi proprio gli stessi requisiti essenziali di salute e di sicurezza dei DPI, come riportati nell’allegato II del nuovo regolamento.

Se, di fronte ad un Regolamento, manca la necessità di un decreto di recepimento specifico, la necessità di normative applicative specifiche è avvertita anche dal legislatore che nella legge 25 ottobre 2017, n. 163Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017” ha previsto un aggiornamento, un adeguamento della normativa in essere, anche con riferimento al tema delle sanzioni e delle notifiche, che dovrebbe avvenire indicativamente (se le nostre leggi non fossero purtroppo spesso in perenne ritardo) entro il 21 novembre 2018.

Rimandando all’articolo di Puntosicuro riguardo al testo della legge 25 ottobre 2017, n. 163, concludo ora con una prima breve intervista a Virginio Galimberti che ricopre vari ruoli in UNI (Ente italiano di normazione) ed è, in particolare, Presidente della Sottocommissione DPI.

Ricordiamo ancora che l’intervista è stata realizzata qualche settimana prima della data di applicazione del Regolamento (21 aprile 2018).


Quali sono le conseguenze più rilevanti della prossima applicazione del regolamento UE 2016/425?

Virginio Galimberti: “La prossima applicazione del regolamento UE 2016/425 prevista per il 21 Aprile 2018 comporterà sicuramente parecchie modifiche alla legislazione nazionale in particolare in tutte quelle parti che fanno specifico riferimento alla abrogata D.E. 89/686/CEE.

Di fatto il Regolamento va a sostituire (o modificare, come sembra di capire dall’art 6 comma 3 lettera a) della legge 163/2017) il D.Lgs. 475/92 emanato per il recepimento a livello nazionale della sopra citata direttiva.

L’eventuale abrogazione o modifica del D.Lgs. 475/92 dovrebbe comportare a sua volta la modifica dell’articolo 76 comma 1 del D.Lgs. 81/2008 (Requisiti dei DPI) nel quale, come unico requisito base, si dice che il DPI deve essere conforme alle norme di cui al D.Lgs. 475/92.

Altro punto del regolamento che dovrebbe causare la modifica del D.Lgs. 81/2008 (art 77 comma 5 obbligo di addestramento) sta nel fatto che inserisce in terza categoria (grandi rischi o “salvavita” per la vecchia direttiva o D.Lgs. 475/92) i dispositivi di protezione dell’udito che prima erano allocati nella seconda categoria.

L’attuale art 77 comma 5 richiede che: l’addestramento è indispensabile per ogni DPI che ai sensi del decreto legislativo  4 dicembre 1992, n. 475, appartenga alla terza categoria e per i dispositivi di protezione dell’udito.

Ulteriore conseguenza dell’applicazione del regolamento UE 2016/425 nei confronti del D.Lgs. 81/2008 consiste nell’adeguamento della terminologia riportata nell’allegato VIII del decreto.

Ai fini dell’applicazione dei nuovi Requisiti Essenziali di Salute e di Sicurezza (RES), oltre ad inserire un capitolo “Osservazioni preliminari” con il quale si specifica cosa sono i RES che devono essere conferiti da parte del fabbricante al DPI e come ciò deve essere fatto, al punto 1 viene giustamente sostituito il termine “Assicurare” riportato nella DE con “Offrire”.

La maggior parte dei cambiamenti è rappresentato da un adeguamento più consono dei termini mantenendo inalterati i requisiti richiesti.

Come novità si possono evidenziare le seguenti aggiunte:

– Punto 1.3.4 – relativo a “Indumenti protettivi contenenti dispositivi amovibili” (es.: giacche per motociclisti)

– Punto 1.4 – Istruzioni e informazioni del fabbricante – i) il riferimento al presente regolamento e, se del caso, i riferimenti ad altre normative di armonizzazione dell’Unione; – k) i riferimenti alla o alle pertinenti norme armonizzate utilizzate, compresa la data della o delle norme, o i riferimenti ad altre specifiche tecniche utilizzate; – l) l’indirizzo internet dove è possibile accedere alla dichiarazione di conformità UE – Le informazioni di cui alle lettere i), j), k) e l) non devono essere contenute nelle istruzioni fornite dal fabbricante, se la dichiarazione di conformità UE accompagna il DPI

– Punto 3.8.2 – Dispositivi conduttori (Lavori sotto tensione)

Con riferimento alla documentazione tecnica che il fabbricante deve produrre per la certificazione dei DPI il nuovo regolamento, a differenza della abrogata direttiva, non fa più distinzione di contenuti tra la prima categoria e le altre.

Una delle novità per i produttori di DPI di prima categoria consiste nel fatto che devono prevedere il “Controllo interno della produzione” (Modulo A) non richiesto dalla legislazione precedente.

Altro grosso problema per il quale al momento non si riesce a recuperare indicazione è rappresentato dalla gestione del periodo di interregno di un anno tra il regolamento e la direttiva che viene abrogata dal 21 Aprile 2018 ma per alcuni aspetti resta in vigore fino al 21 Aprile 2019”.

 

In alcuni prossimi post, sempre dedicati a questo Regolamento, riporterò ulteriori approfondimenti e commenti sulle novità in materia di sicurezza per i lavoratori, gli operatori e le aziende.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…