Problemi normativi 03: interferenze, DUVRI e PSC

Per ricordare come le nostre leggi in materia di sicurezza sul lavoro a volte non solo siano complicate da un punto di vista lessicale, ma contengano veri e propri aspetti oscuri, che lasciano troppo spazio all’interpretazione e all’arbitraria applicazione, pubblico oggi un’intervista, realizzata per PuntoSicuro, su un tema delicato: la gestione delle interferenze nei luoghi di lavoro.

Come devono essere gestite? Con quali documenti? Con il Documento unico per la valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI) e/o il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC)?

Che non ci sia chiarezza nella norma e convergenza nelle opinioni degli operatori ho potuto rendermene conto partecipando – come conduttore della Tavola Rotonda finale – al workshop “Articolo 26 e titolo IV del D.Lgs 81/08 a confronto nella gestione degli appalti” organizzato il 14 luglio 2016 a Modena, nell’ambito del progetto “A Modena la sicurezza sul lavoro, in pratica”. Un workshop cui si affrontava proprio il tema della gestione di appalti e interferenze con riferimento alla normativa e alla stesura di DUVRI e PSC.

Benché si volesse fare chiarezza su questi temi, si sono evidenziate durante il workshop alcune differenze interpretative della normativa. Differenze che mostrano come questo tema necessiti di ulteriori approfondimenti o, secondo alcuni relatori al workshop, di futuri interventi interpretativi/normativi che individuino, senza ombre o dubbi, ambiti e soluzioni idonee da utilizzare per gestire le interferenze. Intervento normativo che, a distanza di un anno, non è ancora avvenuto.

E proprio per cercare di fare chiarezza su questi temi ho intervistato, per PuntoSicuro,  Fabrizio Lovato, presidente di Federcoordinatori, un sindacato dei coordinatori per la sicurezza del lavoro che era rappresentato a Modena da un consigliere nazionale del sindacato (Nicola Nicolini).

Nell’articolo apparso su PuntoSicuro, dal titolo “Gestione delle interferenze: quando elaborare il DUVRI e il PSC?”, riporto anche alcune utili tratte dal documento Inail “L’elaborazione del DUVRI – Valutazione dei rischi da interferenze”, curato da Raffaele Sabatino con la collaborazione di Andrea Cordisco.

Il documento, che vuole chiarire la differenza esistente tra il DUVRI e il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) e sulle eventuali problematiche che possono insorgere da “un’eventuale sovrapposizione dei due documenti”, indica che:

– “il PSC si applica esclusivamente ai lavori edili e di genio civile nei quali sia prevista la presenza, anche non contemporanea, di più Imprese esecutrici. Il DUVRI e il PSC non sono quindi, assolutamente, lo stesso documento; essi, pur riferendosi ad aspetti analoghi afferenti alla sicurezza sul luogo di lavoro sono riferiti, il primo, a qualsiasi ambiente di lavoro, mentre il secondo, esclusivamente al cantiere edile”;

– in alcuni casi “la stesura del PSC esonera da quella del DUVRI, pur tuttavia occorre precisare che anche nel cantiere edile, il PSC non sempre costituisce il documento unico per la pianificazione della sicurezza, dovendo essere comunque necessaria l’elaborazione del DUVRI. Esistono infatti molti casi in cui i documenti vanno redatti entrambi, occupandosi ciascuno della prevenzione e protezione dai rischi da interferenze nel cantiere”.

Veniamo ora all’articolo di PuntoSicuro e alla parte  relativa all’intervista a Fabrizio Lovato.

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto


 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Sappiamo che il DUVRI e il PSC sono documenti differenti che operano in contesti diversi. Secondo la sua esperienza di coordinatore ci sono dubbi sul fatto che un’attività possa o meno essere considerata un lavoro edile e di ingegneria civile con applicazione del Titolo IV del D.Lgs. 81/2008?

 Fabrizio Lovato: “No, nessun dubbio, la norma quando definisce un cantiere è chiara. È un cantiere temporaneo o mobile qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile”.

 Nel workshop si è parlato di DUVRI e PSC ricordando quando è necessario elaborare un documento o l’altro. Tuttavia ci sono casi in cui i due documenti potrebbero essere compresenti e, in qualche modo, sovrapporsi… In quali casi può succedere? E questa sovrapposizione è un errore normativo o ha una qualche effettiva funzione di prevenzione dei rischi?

FL: “È possibile che in determinate situazioni, si abbia la compresenza (non sovrapposizione) di entrambe i documenti: DUVRI e PSC. Basti pensare a lavori relativi ad interventi di manutenzione edile da eseguirsi all’interno di una struttura industriale che deve comunque continuare ad essere operativa. Per gestire la sicurezza all’interno del cantiere verrà elaborato il PSC mentre per gestire e coordinare la sicurezza tra l’azienda e il cantiere (il cantiere, non le singole aziende) verrà elaborato il DUVRI.

In nessun modo comunque i due documenti potranno essere sovrapposti in quanto il DUVRI è il documento iniziale che il Coordinatore tiene in considerazione mentre sta elaborando il PSC, e gli fornisce informazioni in merito allo stato dei luoghi e ai rischi presenti in cui il cantiere si dovrà insediare. Mentre nella fase esecutiva è lo strumento che consente al CSE il dialogo con il datore di lavoro committente ospitante. I due documenti non sono dunque sovrapponibili quanto piuttosto complementari!”.

 Per chiarire le cose faccio riferimento ad un esempio riportato nell’articolo “ Gestione delle interferenze: normativa, dubbi e difficoltà delle imprese”, uscito su PuntoSicuro il 14 settembre scorso. Nell’articolo, riportando il contenuto di una relazione, si indica, ad esempio, che “quando il cantiere è ubicato presso una ditta che svolge l’attività lavorativa anche durante le opere del cantiere stesso, si ritiene che il PSC debba prendere in considerazione anche questo tipo di interazione rendendo, di fatto, inutile il DUVRI (il documento di valutazione dei rischi da interferenza che il datore di lavoro committente è tenuto a redigere in tutti gli altri casi di interferenza con altre attività). In questo caso, quindi, sarà il Coordinatore per la Progettazione che dovrà tenerne conto in fase di redazione del PSC, sarà quello incaricato della Esecuzione a verificare nel tempo, durante lo svolgimento dei lavori, che il piano venga rispettato, che sia adeguato all´effettiva situazione di rischio, che tutte le ditte presenti (e che influiscono sul cantiere) siano rispettose del piano stesso”.

Tuttavia l’esempio riportato a mio parere è fuorviante in quanto caso “limite”, ossia l’unica attività interferente nella mia azienda è il cantiere … possibile, ma improbabile. Mi domando: l’azienda dell’esempio, non ha fornitori, manutentori o ospiti per la normale gestione della sua attività? Non ha imprese di pulizie, o aziende che fanno manutenzione agli impianti fissi (elettrico o idraulico), o il gestore del distributore delle bevande?

Riporto anche alcune indicazioni tratte da una Linea guida INAIL:

– “Il DUVRI è redatto dal DLC, e non dalle Imprese o lavoratori autonomi, affidatarie del/dei contratto/i d’appalto, d’opera o di somministrazione (o “ordini d’acquisto” utilizzati per aggirare l’indicazione normativa, nda); questi ultimi dovranno in ogni caso cooperare onde permettere al DLC di evidenziare tutti i possibili rischi da interferenza e fornendo tutti i documenti attestanti l’idoneità tecnico professionale richiesti dall’art. 26;

– Il DUVRI deve essere redatto o aggiornato ogniqualvolta siano posti in essere dei contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione, anche non formalizzati, che implichino la presenza di Imprese operanti all’interno dell’Azienda, anche se non si ravvisano particolari rischi da interferenza: in questo caso il documento dovrà evidenziare l’assenza di rischio (contratto cosiddetto non rischioso);

– Il DUVRI è un documento UNICO per tutti gli appalti e per questo DINAMICO, in quanto deve essere aggiornato in caso si ravvisino nuovi rischi da interferenza, all’ingresso di nuove Imprese, ove si presentino variazioni nella struttura e nella tecnologia delle varie Imprese, in caso di acquisto ed utilizzo di nuove attrezzature da parte dell’Azienda, ecc.”.

Come dicevo: è improbabile che l’esempio portato corrisponda alla realtà, e quindi se la gestione della prevenzione è vera, TUTTE le aziende hanno la necessità di gestire le interferenze. Certo il risultato di questa attività (il DUVRI) sarà piccolo o grande in relazione alla complessità della valutazione, ma la sua esistenza a mio giudizio è indubbia.  Come è indubbio che tale documento diventi un documento d’ingresso del PSC che ad esso dovrà dedicare una parte specifica che riguarda il fondamentale scambio d’informazioni tra il datore di lavoro committente (con il DUVRI) e il coordinatore prima in progetto (con il PSC) e poi durante l’esecuzione per gli aggiornamenti.

 Nel workshop modenese sono state sollevate infatti alcune perplessità riguardo alla possibile compresenza/sovrapposizione tra i due documenti. Lei cosa ne pensa? Dietro queste differenze di opinioni c’è una diversa interpretazione della normativa? Qual è la corretta lettura del secondo comma dell’articolo 96 del TU, comma che qualcuno potrebbe leggere come esonero dal DUVRI tutte le volte in cui esiste un PSC?

FL: “Ribadisco che i documenti non sono sovrapponibili in quanto ognuno ha la propria area di azione.

Nello specifico l’art. 96 (e siamo in Titolo IV – cantieri temporanei o mobili) vuole chiarire i confini di operatività dell’uno e dell’altro documento. Se stiamo parlando di Cantiere avremo il PSC e i POS come documenti di riferimento, ed è con le loro regole che ci si ‘parla’ all’interno del cantiere, non con il DUVRI. Se parliamo dell’esempio precedente (intervento edile all’interno di un sito industriale), in questo caso avremo il DUVRI (azienda-cantiere) quale documento di riferimento che interesserà le attività e le aree esterne al cantiere, ma limitrofe a questo e che possono avere un’interazione con esso”.

Accade spesso nei cantieri in cui lavorate che si debbano elaborare due diversi documenti, il DUVRI e il PSC? E laddove siano necessari entrambi ma, ad esempio, manca il DUVRI, cosa fa un coordinatore?

FL: “Sovente, e soprattutto in caso di ristrutturazioni o ampliamenti industriali e condominiali (quando c’è la presenza del custode dipendente), capita di avere entrambi i documenti.

Il DUVRI per il coordinatore è il documento iniziale che prende in considerazione per l’elaborazione del PSC e nel caso in cui non sia presente lo richiede al datore di lavoro committente”.

 All’opposto nel caso di mere forniture di materiale ed attrezzature potrebbe non necessitare né DUVRI né POS. Anche in questo caso lei ritiene che sia corretto o siamo di fronte a una lacuna normativa? E come può essere garantita, in questo caso, una informazione reciproca sulle possibili interferenze? 

FL: “La normativa non può (e non deve) regolamentare tutto, ma deve fissare i principi. Laddove non vi sia una norma specifica per la gestione in sicurezza di un’attività, quale può essere per esempio la fornitura di materiale in cantiere o la realizzazione delle campionature, il Coordinatore avendo chiari i principi di prevenzione può definire una, o più procedure che le imprese e i fornitori dovranno rispettare”.

 Lasciamo da parte la norma e torniamo alle vostre esperienze. In alcuni commenti sul nostro giornale si indica che il DUVRI passa “sopra la testa” degli interessati, è un “monumento di carta” del tutto inutile, volto solo a cercare di ridurre le responsabilità aziendali. Cosa potrebbe rendere questo monumento meno formale e più effettivo ed efficace?

 FL: “Anzitutto occorre distinguere l’attività di ‘valutazione dei rischi interferenti’ dalla redazione del ‘Documento di valutazione dei rischi interferenti’. Nella prima viene fatta la valutazione dei rischi ma non viene registrata da nessuna parte. Ciò non significa che il datore di lavoro non abbia adottato misure di sicurezza tali per i cui i lavoratori non risultino tutelati.

Nel secondo caso viene elaborato un documento che riporti la valutazione dei rischi interferenti con indicate tutte le misure di sicurezza da attuare ma ciò non implica che il datore di lavoro li abbia valutati o che attui quanto indicato.

Il fatto di produrre un ‘monumento di carta’, o un documento fine a se stesso, serve a dimostrare agli organismi di vigilanza che tale attività è stata effettuata. Se ci limitassimo a fare vedere il nostro buon operato, le modalità operative, gli apprestamenti messi a disposizione ma non presentassimo alcun documento scritto tutta la nostra ‘buona condotta’ non verrebbe presa in considerazione e non ci salverebbe da una sanzione.

La cultura della sicurezza deve essere le fondamenta del ‘monumento’ che ogni datore di lavoro deve predisporre e realizzare”.

So che lei ha partecipato, come esperto, alla stesura dei nuovi modelli standardizzati/semplificati di POS/PSC e PSS. Non si è pensato a modelli standardizzati/semplificati di DUVRI?

 FL: “C’è da dire che a differenza del PSC, POS e PSS per i quali l’All. XV del D.Lgs. 81/2008 e smi ne definisce i contenuti minimi, per il DUVRI non vi è questa precisazione.

Diversi enti, tra cui ricordiamo Regione Lombardia e Inail, hanno elaborato delle linee guida relative la redazione del DUVRI lasciando comunque al datore di lavoro committente la possibilità di elaborare il documento come meglio riteneva.

In fine, ma come si dice non per ultimo, dobbiamo ricordare che l’art.26 per la parte relativa al DUVRI è stata ‘semplificata’ dall’art. 32 del DL n.69 del 21.06.2013 recante ‘disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia’, infatti per i lavori a basso rischio in sostituzione del DUVRI è stata introdotta la figura dell’incaricato che però deve essere in possesso di formazione aggiornata, di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, di esperienza e competenza professionale, adeguata e specifica in relazione all’incarico … un genio ! Che però per dare evidenza di assolvimento dell’incarico al suo datore di lavoro … dovrà redigere un DUVRI! E se non lo fa spontaneamente glielo chiederà il datore di lavoro al fine di verificare il suo operato … perché nel nostro paese (di apparenze) i fatti non sono sufficienti, ci voglio i documenti a provarlo”.

Concludiamo infine con qualche considerazione. Qual è l’attenzione, nelle aziende e tra i committenti, per adempimenti come DUVRI e PSC?  I documenti vengono realizzati solo quando è un obbligo di legge o anche quando è necessario?

FL: “Capita, talvolta, che i datori di lavoro/committenti non siano a conoscenza degli obblighi di predisposizione del DUVRI e del PSC, non per disinteresse nel riguardo del tema sicurezza, ma semplicemente per ignoranza nei confronti della materia.

Occorre una maggiore informazione che come Federcoordinatori abbiamo cercato di fornire tramite l’istituzione dello “Sportello del committente” – attività di consulenza specialistica gratuita alla cittadinanza, ma che non ha trovato il supporto delle pubbliche amministrazioni”.

E, infine, ritiene che sia utile un intervento interpretativo/normativo per togliere dubbi in merito a quali documenti elaborare per affrontare il rischio di interferenze?

FL: “No, tutt’altro! Ritengo che il legislatore debba fermarsi e non continuare ad emettere decreti attuativi e di specifica che fanno perdere il riferimento ai principi regolamentari di partenza.

Infine smettiamo di abusare della parola ‘semplificazione’ al fine di una ricerca utopistica della perfezione legislativa, perché: ‘La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere’ (Antoine de Saint-Exupéry).

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011

Torniamo a parlare in questo blog delle criticità e oscurità della nostra normativa sulla tutela della salute e sicurezza in Italia e lo facciamo affrontando alcune differenze interpretative del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un articolo di PuntoSicuro del 7 novembre 2016, con riferimento ad un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”), si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”. E l’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Tuttavia sempre sul quotidiano online PuntoSicuro altri hanno segnalato che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista ho realizzato un’intervista a più voci con domande elaborate anche dai vari intervistati:

– Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza);

– Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza);

– Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia).

Nei giorni scorsi ho presentato la prima parte dell’intervista, pubblicata su PuntoSicuro il 18 gennaio 2017, con le risposte di Massimo Peca, oggi riporto la seconda parte dell’intervista con le risposte di Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini

Anche in questo caso l’intervista è stata pubblicata su PuntoSicuro, con il titolo “Ambienti confinati e DPR 177/2011: si certificano i contratti d’appalto?”.

Buona lettura.

Tiziano Menduto

 


Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto


La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Massimo Peca:

 

  1. Come può incidere la sola verifica della regolarità del rapporto di lavoro, da lei sostenuta, accertata mediante la procedura di certificazione, sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (obiettivo del DPR 177/2011) non considerando l’obbligo previsto dal comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 (DUVRI/PSC/POS/contratto di appalto e tutto quello che ne consegue nel merito dei contenuti) e la valutazione da effettuare, in particolare, dell'”organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio” richiesta dalla circolare 48/2004 del MLPS?

 Carmelo G. Catanoso: Va premesso che per la gestione della sicurezza nei lavori in appalto all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, il datore di lavoro committente è gravato (art. 26 comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008), nei confronti degli appaltatori o dei lavoratori autonomi, dagli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale e di informazione riguardo i rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate. Inoltre, il successivo comma 2 richiede al datore di lavoro committente, agli appaltatori ed ai subappaltatori di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi nonché di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. La cooperazione e il coordinamento devono essere promossi elaborando il DUVRI.

Naturalmente, visto che si sta parlando di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, quanto appena detto dovrà essere specificatamente modellato sulla particolare e pericolosa tipologia di lavori da eseguire attraverso una contestualizzazione “spinta” del DUVRI.

Pertanto, visto che l’art. 26 si applica ai contratti d’appalto di lavori, servizi e forniture ed ai contratti d’opera, appare evidente che, ad esempio, un appalto per l’esecuzione della sostituzione di un galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio, possa ritenersi “coperto” dalla citata norma, sempre che il datore di lavoro committente, gli appaltatori e/o i subappaltatori intendano adempiere concretamente ad essa, tenendo conto delle specificità del lavoro da eseguire.

Quindi, il vero problema non è far certificare un contratto d’appalto ma adempiere concretamente ad obblighi che la legislazione vigente già prevede.

Quindi, un datore di lavoro committente deve scegliere con oculatezza il proprio appaltatore verificando preventivamente l’idoneità tecnico professionale, dove la sussistenza documentata di tutti i requisiti fissati dal D.P.R. n° 177/2011 occupa, visto il lavoro da effettuare, una parte fondamentale, e poi attuare quanto operativamente richiesto dall’art. 26 comma 1, lett. b) e comma 2. Il tutto deve poi essere consolidato all’interno del DUVRI che dovrà prevedere anche quanto previsto all’art. 3 del D.P.R. n° 177/2011 e dovrà essere contestualizzato in funzione della specifica operazione da eseguire nell’ambiente sospetto d’inquinamento o confinato. La contestualizzazione del DUVRI potrà avvenire con il Permesso di Lavoro che se, ben strutturato e concretamente applicato, prevedrà quanto necessario per eseguire i lavori in sicurezza, ivi compresa la gestione di eventuali emergenze.

Analogo discorso se i lavori che espongono i lavoratori al rischio derivante da attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati si debbano svolgere in un cantiere edile o d’ingegneria civile dove, le regole da applicare per il principio di specialità sono quelle del Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008. Qui sarà il CSP a prevedere ed integrare nel PSC le regole previste dal D.P.R. n° 177/2011 mentre toccherà al committente verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa che eseguirà i lavori anche in riferimento ai requisiti previsti per operare negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Sarà poi il CSE a verificarne, sul campo, la concreta applicazione.

Quindi, se le norme oggi vigenti (art. 26 e Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) sono applicate correttamente e compiutamente, l’eventuale certificazione dei contratti di appalto da parte degli organi abilitati alla certificazione (art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003), risulta inutile e costituisce solo un aggravio burocratico. Infatti, se per sostituire il galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio citata nell’esempio, un appaltatore impiega meno di un’ora, rispettando quanto previsto nel Permesso di Lavoro, altrettanto non può dirsi per la certificazione di questo appalto, visto che l’istruttoria ha solo l’obbligo di concludersi e comunicarne l’esito entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta e ciò con le conseguenze facilmente immaginabili.

Inutile, poi, segnalare che la maggior parte degli organi abilitati, indicati all’art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003, non hanno neanche lontanamente le competenze per effettuare una verifica tecnica su documenti presentati e ciò senza neanche dimenticare che, ad oggi, non esiste uno standard unico che indichi quali debbano essere i documenti tecnici da presentare con la richiesta di certificazione.

In conclusione, si reputa che le norme di legge oggi vigenti, se correttamente e compiutamente applicate, sono ampiamente in grado di rendere superflua la certificazione dei contratti d’appalto, fermo restando, visto quanto oggi previsto dal D.P.R. n° 177/2011, l’obbligo di certificazione del contratto di lavoro se diverso da quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infine, non sarebbe una cattiva idea creare un apposito Albo delle imprese che operano negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, alla stregua di quanto fatto per l’amianto e la bonifica da ordigni bellici e “normare” seriamente questa tipologia di lavori modificando il D. Lgs. n° 81/2008 con l’introduzione di uno specifico Titolo.

Le risposte di Carmelo G. Catanoso alle domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto? Perché?

Carmelo G. Catanoso: Il D.P.R. n° 177/2011 richiede la certificazione solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia stato costituito con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; in questo caso, il regolamento prevede che i relativi contratti di lavoro siano certificati ai sensi del D. Lgs. n° 276/2003. L’oggetto della certificazione è il rapporto di lavoro mentre è solo al comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n° 177/2011, che viene ribadito il divieto, per le attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, del ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del D. Lgs. n° 276/2003. Su questo argomento è chiara anche la Nota del MLPS n. 37/0011649 del 27/06/2013.

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati? Perché?

Carmelo G. Catanoso: La certificazione, richiesta dal D.P.R. n° 177/2011, riguarda solo i contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato e non altro (ad eccezione dei subappalti). L’obiettivo è chiaro ed è quello di evitare di avere personale “reclutato all’occasione” per operare all’interno di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, non in possesso di adeguate competenze (conoscenze e capacità documentate) e requisiti psicofisici adeguati. Analoga logica c’è dietro la previsione della certificazione del subappalto; si vuole evitare che un’impresa appaltatrice dopo aver acquisito i lavori da svolgersi in ambienti confinati o sospetti d’inquinamento, subappalti gli stessi ad un’altra impresa senza che questa sia in possesso dei requisiti minimi indicati dal D.P.R. n° 177/2011 nonché mezzi, organizzazione, personale per operare in questi particolari e pericolosi ambienti. Ricordo, infine, che per quanto riguarda la verifica dell’idoneità tecnico professionale, esiste una norma di rango superiore (art. 26 comma 1, lett. a) del D. Lgs. n° 81/2008) che già individua precisi obblighi a carico del datore di lavoro committente che appalta lavori all’interno della propria azienda o unità produttiva. Stesso discorso se i lavori in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati sono eseguiti all’interno di un cantiere edile o d’ingegneria civile (Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) non solo da un committente che è anche datore di lavoro ma anche da un committente che datore di lavoro non è (art. 90 comma 9 del D. Lgs. n° 81/2008). Infine, vale la pena di ricordare che in questo caso, l’allegato XVII renderebbe superflua anche la certificazione del subappalto, visto che al p. 3 viene chiesto al datore di lavoro dell’impresa affidataria di verificare l’idoneità tecnico professionale del subappaltatore con gli stessi criteri che sono stati utilizzati dal committente nei suoi confronti (p. 1 dell’allegato XVII). In conclusione, le norme esistono già e basterebbe applicarle concretamente e seriamente senza bisogno di aggiungerne altre che, sovrapponendosi alle esistenti creano confusione e forniscono, a chi non ha mai voluto far nulla, un ennesimo alibi per continuare a non fare nulla.

La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011?

Carmelo G. Catanoso: In questo caso non c’è differenza di opinione o d’interpretazione, perché oggi ciò che è soggetto a certificazione è il rapporto di lavoro e l’eventuale subappalto. Niente altro. Altrimenti, il rischio che si corre è quello di far passare per obbligo di legge ciò che obbligo di legge non è.

In merito all’applicabilità ed alle interpretazioni delle leggi in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in Italia, in generale, va detto che il nostro sistema prevenzionale è un sistema da “manutenzione a guasto”: dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.

Sia il D. Lgs. n° 81/2008 (pubblicato dopo i tragici fatti di Torino nel dicembre 2007)  che lo stesso D.P.R. n°177/2011 (pubblicato dopo i tragici fatti di Molfetta, Cagliari, Mineo, Capua, ecc.), sono la prova che in Italia si legifera solo sotto spinte emozionali ed emergenziali (molo probabilmente, il prossimo intervento riguarderà, dopo i 10 morti di Modugno (BA), le fabbriche di fuochi artificiali).

Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il “prodotto” non è mai granché per almeno un paio di motivi:

– si lavora di fretta, dopo fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;

– non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole “normare” e che, quindi, hanno conoscenza approfondita “dal di dentro” delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.

E quando parlo di “attori” che operano sul campo, non mi riferisco ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc.. Parlo di soggetti “indipendenti” in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.

Comunque, vista l’attuale situazione, quel che ne viene fuori, con questi presupposti, sono “regole” frutto di visioni che risentono sia del poco tempo disponibile che, soprattutto, delle conoscenze esperienziali dei soggetti coinvolti nella redazione ma che, pur indubbiamente pregevoli, essendo maturate in campi particolari (in genere in attività ispettive), non possono che risentirne nella percezione e visione delle dimensioni e complessità effettive del problema.

Pertanto, ciò che ne scaturisce, è quasi sempre un prodotto frutto di una visione particolare che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise con gli attori che saranno chiamate ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.

Esempio emblematico è proprio quello degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati dove il “mandato” per il legislatore era relativo alla definizione di un Regolamento per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ma che invece si è esteso, con l’art. 3 (procedure di sicurezza), in un ambito che evidentemente non padroneggiava a sufficienza, visto, ad esempio, quanto scritto a proposito delle attività informative di cui al comma 1. Eppure sarebbe bastato dare un’occhiata alla tanta letteratura tecnica ed alla tanta esperienza operativa soprattutto in chi, il problema Spazi Confinati, lo vive “dal di dentro”.

 

La risposta di Flavia Pasquini(Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

  1. Secondo la vostra Commissione e in relazione alla normativa vigente è corretto ritenere obbligatoria, ai sensi del DPR n. 177/2011, la certificazione dei contratti di appalto e subappalto? Ci sono casi in cui, a vostro parere, non è mai da ritenere obbligatoria? E in questi casi è comunque opportuna?

Flavia Pasquini: In mancanza, per quanto consta, di pronunce giurisdizionali e chiarimenti Ministeriali sul punto, ad avviso della Commissione una interpretazione sistematica del DPR n. 177/2011 dovrebbe condurre a ritenere obbligatoria la certificazione, oltre che di tutti i subappalti in luoghi confinati, anche degli appalti laddove siano possibili e/o rintracciabili interferenze (temporali o spaziali). In ogni caso, anche considerando possibili difformità di interpretazione da parte degli organi ispettivi e nell’ottica di un ulteriore controllo sulla qualificazione dell’impresa esecutrice, anche in mancanza di interferenze può comunque risultare cautelativo ed opportuno procedere alla certificazione del contratto di appalto. Inoltre, nel caso di appalto a un consorzio (è simile l’ipotesi della A.T.I. negli appalti pubblici), laddove l’appaltatore proceda ad affidare l’attività in luogo confinato ad una consorziata, sebbene quest’ultimo negozio di affidamento non sia tecnicamente un subappalto, ad avviso della Commissione è comunque opportuna la certificazione, in considerazione della sostanziale vicinanza tra il negozio di affidamento e il subappalto.

La risposta di Flavia Pasquini alla domanda di Massimo Peca:

  1. Qual è la ragione per cui la vostra Commissione, tra i vari documenti, chiede alle aziende che intendono ottenere la certificazione (sia del rapporto di lavoro che per gli appalti), quelli inerenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; come e da chi vengono valutati?

Flavia Pasquini: Benché non tenutavi ai sensi dell’interpretazione letterale del citato DPR n. 177/2011 e senza per ciò stesso potersi né volersi sostituire nei controlli e nelle responsabilità in carico alla committente principale per effetto dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, la Commissione ritiene che il proprio ruolo non possa esaurirsi nella sola verifica formale della correttezza del documento contrattuale. I documenti vengono valutati da parte dei membri della Commissione.

Le risposte di Flavia Pasquini alle domande di Carmelo G. Catanoso:

  1. Non ritiene che il legislatore sia andato oltre il proprio mandato quando, in aggiunta ai requisiti per la qualificazione delle imprese (viste le previsioni degli articoli 6, comma 8, lettera g), e 27 del D. Lgs. N. 81/2008), ha inserito l’art. 3 del DPR n° 177/2011 riguardante le procedure di sicurezza la cui vaghezza e imprecisione ha generato molta confusione e il proliferare di interpretazioni non certo univoche?

Flavia Pasquini: L’art. 3 in questione prevede la disciplina delle procedure di sicurezza in senso stretto all’interno del terzo comma. Tali procedure si riferiscono alle procedure di emergenza che, considerati la specificità dell’attività ed i rischi ad essa connessi, appaiono coerenti con la ratio della norma di realizzare un sistema di qualificazione delle imprese. Infatti, le procedure di emergenza costituiscono un elemento organizzativo fondamentale per potere operare nel settore.

  1. Cosa ne pensa dell’introduzione di un apposito “Albo” per le imprese e i lavoratori autonomi qualificati per operare negli ambienti confinati e negli ambienti sospetti d’inquinamento?

Flavia Pasquini: Potrebbe sicuramente trattarsi di un utile strumento, soprattutto in un’ottica di semplificazione degli oneri e degli adempimenti a carico delle imprese. In caso di affidamento di lavori, servizi e forniture, infatti, la normativa vigente (cfr. art. 26 d.lgs. 81/2008) pone in capo al datore di lavoro committente l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dei lavoratori autonomi e delle imprese appaltatrici. Posto che quest’obbligo riguarda anche l’affidamento di attività da eseguirsi all’interno di ambienti sospetti di inquinamento o confinati, l’istituzione di un apposito Albo presso il quale siano tenuti ad iscriversi i soggetti che intendano operare in quest’ultimo settore potrebbe incidere positivamente sull’efficienza del relativo mercato, riducendo gli oneri di verifica e di produzione documentale incombenti sulle imprese per ogni singolo appalto. Ciò, ovviamente, a condizione che l’iscrizione all’Albo sia subordinata alla verifica del possesso di tutti i requisiti prescritti dal D.P.R. n. 177/2011.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la prima parte dell’intervista…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la seconda parte dell’intervista…

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Problemi normativi 01: come verificare le interferenze negli spazi confinati?

 

Non c’è nulla da fare, malgrado abbiamo in Italia – a detta almeno dell’ex magistrato Raffaele Guariniello – ottime leggi,  in materia di salute e sicurezza, tuttavia non mancano le criticità, le oscurità, le difficoltà interpretative. Non mancano i dubbi negli operatori, non mancano le scappatoie per chi ha una visione solo formale della normativa, non sfuggono le differenze interpretative tra gli stessi ispettori e controllori, regionali o statali, del Testo Unico e dei testi correlati.

Probabilmente abbiamo effettivamente una buona legislazione, ma è doveroso non solo riconoscerne la complessità (aumentata dalle migliaia di proroghe e rimandi che rendono incomprensibile e inapplicate le norme), ma anche rilevare la tendenza italiana a normare con la pressione delle emergenze, degli equilibri di potere e delle convenienze. E in questo modo non sempre le norme arrivano da riflessioni motivate, verificate e comprovate da dati reali.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Miriadi di errori nelle normative. Ruscelli impetuosi di dubbi arginati a malapena dagli interpelli. Ritardi continui nei decreti attuativi che spesso ci costano messe in mora dall’Unione Europea e che comunque rendono la normativa incompleta e inefficace. Con Testi Unici che non riescono ad unificare e obiettivi che non vengono raggiunti, come nel caso dell’infinita proroga degli adempimenti antincendio per scuole e alberghi.

 

Un esempio delle cattive conseguenze di questo modo di legiferare mi è parso emblematico e mi ha spinto qualche settimana fa a realizzare e pubblicare su PuntoSicuro, attraverso un originale format comunicativo, una sorta di intervista interattiva a tre persone, rappresentanti di un modo diverso, per idee, competenze e mission, di interpretare e utilizzare la normativa in materia di sicurezza e salute.

Stiamo parlando dell’interpretazione del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Un DPR scandito dalle emergenze di una serie di infortuni mortali avvenuti in spazi confinati e inizialmente depositato, nella fretta, con un errore nel titolo: “confinanti” al posto di “confinati”.

 

Riguardo a questo DPR un articolo di PuntoSicuro ha presentato il 7 novembre 2016 un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”). L’intervento ricordava quanto richiesto dal DPR e si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”.

 

L’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Un’indicazione correlata alla ratio e agli obiettivi della normativa con riferimento specifico anche a quanto contenuto nella nota 11649 del 27 giugno 2013 del MLPS.

Tuttavia in risposta alle sue parole, su PuntoSicuro alcuni commenti  hanno successivamente ribadito che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista interpretativi e per cercare eventuali punti di contatto ho realizzato un’intervista a più voci: un’intervista in cui le domande non sono elaborate solo dal giornale, ma anche da ciascun interlocutore che ha avuto la possibilità di proporre a sua volta una o due domande per gli altri intervistati.

 

Continuiamo riprendendo le parole dell’articolo di PuntoSicuro e della prima parte dell’intervista. Nei prossimi giorni pubblicherò sul blog anche la seconda parte…


A questa inusuale forma di intervista hanno gentilmente partecipato:

Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza) che, come abbiamo mostrato, ha presentato l’intervento al convegno sugli spazi confinati;

Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza) che ha commentato criticamente l’intervento;

Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) che su queste tematiche relative alla certificazione ex 171/2011 si è confrontata in passato all’interno della propria Commissione di Certificazione.

 

Per chiarezza riportiamo anche un breve estratto della parte dell’articolo 2 del DPR 177/2011, il punto c) del comma 1, che fa riferimento alla certificazione dei contratti:

Art. 2 Qualificazione nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati

1. Qualsiasi attivita’ lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati puo’ essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti:

a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze;

b) integrale e vincolante applicazione anche del comma 2 dell’articolo 21 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nel caso di imprese familiari e lavoratori autonomi;

c) presenza di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione, in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale esperienza deve essere necessariamente in possesso dei lavoratori che svolgono le funzioni di preposto;

(…)

(…)

Partiamo oggi dalle risposte di Massimo Peca alle domande di Flavia Pasquini, Carmelo G. Catanoso e PuntoSicuro.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto?

Massimo Peca: Di entrambi.

Perchè?

Massimo Peca: Il termine “appalto” è riportato nell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011 ed è condizionato dalla frase “…in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati…”.

Chiaramente, l’impiego di lavoratori “appaltati” si riferisce a quelli aventi un rapporto di lavoro (di qualsiasi tipo) con le imprese a cui si appalta il lavoro da svolgere e la stessa definizione di “lavoratore” credo che vada intesa nel senso più ampio, quindi comprendendo quelli autonomi. Questa, in buona parte, è la stessa filosofia dell’articolo 2, comma 1, lettera a) del DLGS 81/2008 ed è una delle notevoli differenze tra la legislazione giuslavoristica (prevalentemente amministrativa) e quella che garantisce la salute e la sicurezza del lavoro (prevalentemente penale). Basti pensare, ad esempio, anche alla definizione di “datore di lavoro” contenuta nell’articolo 299 del medesimo decreto legislativo.

 

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati?

Massimo Peca: Sì.

Perchè?

Massimo Peca: Lo deduco dall’ampio contenuto della frase: “…ovvero con altre tipologie contrattuali…” dell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011. D’altra parte, se non fosse così, ci sarebbe una inspiegabile discriminazione tra lavoratori, con la conseguente diminuzione delle tutele imposte dal DPR, non certo da tutte le altre norme.

L’unica ed espressa esenzione di alcuni obblighi, sono quelli per il datore di lavoro che impiega direttamente i suoi lavoratori per svolgere attività negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui ha la “disponibilità giuridica”. 

Le tutele/obblighi del DPR 177/2011 sono estesi perfino ai lavoratori autonomi e, in parte, alle imprese familiari. Difformemente dal DLGS 81/2008. Penso che anche questo decreto legislativo non dovrebbe fare nessuna differenza tra lavoratori, se non altro perché i costi sociali della mancata prevenzione sono a carico di tutta la collettività nazionale. Quindi, mi sembra chiara la portata generale del DPR relativamente alle attività preventive che devono essere garantite, sebbene, tale regolamento, non innova quasi per nulla quanto già previsto dal DLGS 81/2008. Anzi. Lo stesso concetto di “qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi” non serve ad altro se non a stabilire una qualità del lavoro che deve servire a tutelare chi lo svolge. Chiunque sia. Questo lo condivido, ma, come ho detto: “… è un problema generale per tutti gli ambienti di lavoro…”. 

—–

 

Domande di Carmelo Catanoso:

Dal suo intervento presentato su PuntoSicuro, lascia intendere che una eventuale certificazione anche dei contratti d’appalto, sia auspicabile in quanto in grado di apportare dei benefici nella gestione delle attività negli “spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento”. Può spiegare quali siano i benefici concreti che tale adempimento può produrre nella gestione operativa della sicurezza?

Massimo Peca: Come ho già avuto modo di dire, l’obbligo di certificazione dei contratti di appalto mi sembra chiaro.

Un beneficio concreto è quello relativo alla verifica dell’organizzazione della sicurezza, sia della sua progettazione che della gestione del lavoro da svolgere, che si può attuare attraverso l’iter della certificazione da parte di un organismo esterno, presumibilmente esperto nella materia, altrimenti assente, senza considerare le figure preposte a tali funzioni dal DLGS 81/2008.

La prova di quanto affermo sono le incredibili e numerose tipologie di criticità rilevate durante la mia esperienza (anche di chi le dovrebbe controllare), risolte proprio con questa analisi dei requisiti necessari. Tutti previsti dall’articolo 2, comma 1 del DPR 177/2011.

Questa “analisi critica”, trasparente e prestabilita anche nei contenuti, l’ho sempre adottata come fase pre-istruttoria alla presentazione formale della domanda di certificazione ed ha risolto moltissimi problemi, elevando il grado di sicurezza delle ditte affidatarie o subappaltatrici, nonché creando una maggior consapevolezza e conoscenza dei problemi da parte dei committenti. Con questo sistema, la certificazione si ottiene in pochi giorni, mentre la durata del lavoro preparatorio e inversamente proporzionale alla quantità degli inadempimenti riscontrati e corretti “in corso d’opera”.

Questa attività di consulenza, assistenza, promozione e prevenzione è quella prevista e mutuata dall’articolo 4 del DM 21 luglio 2004, dall’articolo 81 del DLGS 276/2003 e dal DLGS 124/2004. Quindi, nulla di improvvisato o innovativo, ma cogente.

Nei casi di lavori urgenti, indifferibili a mio avviso e tramite una modifica legislativa, si dovrebbe utilizzare la procedura già prevista per le rimozioni urgenti dell’amianto (articolo 256, comma 5). In tal caso, la certificazione avverrebbe in un secondo tempo e le contravvenzioni riscontrate dovrebbero impedire a chi ha effettuato i lavori di poterne fare degli altri, oltre che essere contestate dall’organo di vigilanza. In poche parole: libertà e responsabilità.

Forse è questo il metodo apprezzato da molti ed è stata la ragione della partecipazione al V convegno nazionale sugli ambienti confinati.

Se questi non sono “benefici concreti” per la tutela dei lavoratori, non so quali possano essere: conciliare le esigenze normative con le necessità delle aziende.

Nella relazione che ho presentato al convegno, sintetizzata dalla redazione di Puntosicuro nell’articolo citato, ho elencato le maggiori criticità rilevate. Mi pare che parlino da sole. Certo, sono solo il frutto della mia esperienza locale, quindi non generalizzabili. Ma non credo siano rare.

Inoltre, nella relazione ho affermato chiaramente di sapere che il DPR 177/2011 non prevede espressamente la valutazione delle condizioni in cui sono chiamati ad operare i lavoratori, ma si giunge a questa salutare “ingerenza” sia perché il comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 prevede la necessità di allegare il DURC al contratto di appalto, e questo documento costituisce già una prima fonte di verifica da parte del certificatore, ma anche perché è necessario valutare in concreto la qualificazione delle imprese che operano in tali ambienti mediante, almeno, l’analisi degli aspetti principali previsti dal già citato articolo 2, comma 1: in sostanza tutto il DLGS 81/2008.   

Su questo punto, concorda perfino un esperto e critico della materia come Adriano Paolo Bacchetta. A tale proposito si veda quanto riportato nel suo articolo su PuntoSicuro: “…è necessario andare oltre a quanto strettamente previsto dal D.Lgs. 276/2003; ovvero ogni Commissione di certificazione, a prescindere dal soggetto giuridico che ne ha disposto la costituzione, deve quindi avere adeguate competenze per verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti di natura strettamente giuslavoristica sopraelencati, anche altri aspetti peculiari richiesti dal D.P.R. 177/2011 per la qualificazione delle imprese, quali l’effettiva presenza dei requisiti previsti dall’art. 2 c1..”.

Quindi, presumendo la presenza di un componente qualificato nella commissione di certificazione (non previsto), se vogliamo concretamente fare prevenzione questa è una strada offerta da questo DPR.

Se, invece, si vuole disquisire fra teorici del diritto (ed io non lo sono) possiamo appellarci alle definizioni del codice civile e di tutte le altre leggi che regolano i rapporti economici del lavoro. Nella mia relazione ho espresso inequivocabilmente la mia contrarietà a questo DPR ed ho evidenziato i difetti che contiene, proponendo un’alternativa. Ho in mente altre modifiche che potrei evidenziare, se ne avrò l’opportunità.

Ma, attualmente, questa è la legge. Cerco di usarla nel miglior modo possibile per il fine che essa si pone: la tutela della vita dei lavoratori. 

 

Cosa ne pensa della decisione del legislatore di limitare ai soli committenti che sono anche datori di lavoro, gli obblighi previsti dal DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Mi pare di capire che intende riferirsi, in sostanza, all’esclusione dell’obbligo di certificazione e della nomina di un incaricato per la supervisione dei lavori svolti presso aziende in cui il datore di lavoro impiega i propri lavoratori per effettuare attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui abbia la disponibilità giuridica. 

Se è così, e seguendo la logica del DPR, penso che sia un errore, dovuto all’equivalenza che si fa in questo DPR tra certificazione del contratto di lavoro e garanzia, che questa offre, della presenza di condizioni ottimali inerenti la sicurezza/salute.

Nel caso delle prerogative concesse a questi datori di lavoro, presumere che sia superfluo certificare un contratto di lavoro, solo perché è già instaurato stabilmente e questa “stabilità” garantisca un lavoro svolto in sicurezza, ed inoltre, il datore di lavoro abbia tutte le necessarie conoscenze per controllare l’esecuzione delle attività da svolgere, è quantomeno poco reale in moltissimi casi. In altri è plausibile. Ad esempio, penso al settore chimico e dei servizi pubblici di fornitura di acqua, metano o telefonia.

In generale, mi sembra una pericolosa presunzione dell’effettiva presenza della prevenzione legata solo all’astratto obbligo del rispetto della legge. Secondo me, la regolarità del rapporto di lavoro non garantisce affatto che questo si svolga in modo sicuro e salutare, tutt’al più può rappresentare un indizio positivo.

Basti pensare che perfino nelle aziende con certificazioni OHSAS 18001 (e simili) o in quelle a rischio di incidenti rilevati (DLGS 105/2015) si verificano infortuni e malattie professionali, gravi e gravissimi.

Con questo non voglio dire che bisogna certificare tutto e sempre, come sarebbe logico aspettarsi da questo DPR, che segue la logica nostrana di prevedere inizialmente obblighi generali e poi introdurre distinzioni e deroghe.

Al contrario, come ho già detto nella mia presentazione al Convegno, bisognerebbe usare in sua vece la qualità della vigilanza e non la quantità, molto più efficace. Anche perché, durante lo svolgimento di questa funzione, si hanno tutti i poteri di polizia giudiziaria che, invece, mancano nell’iter della certificazione: una miscela mal riuscita di tutele giuslavoristiche e della salute/sicurezza dei lavoratori. 

—–

Domanda di Tiziano Menduto (PuntoSicuro): 

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Sicuramente dall’ambiguità del DPR, dalla sua incompletezza a cui si devono aggiungere le naturali predisposizioni dovute alle diverse attività professionali svolte.

Auspico delle modifiche sostanziali che rendano efficace un provvedimento normativo scritto con una fretta relativa, sebbene condivisibile nello scopo, ma molto discutibile nella sua applicazione quotidiana, di cui la certificazione è senz’altro il tratto caratteristico e sicuramente quello più inapplicato perché eluso, che ripropone un vecchio schema burocratico, pressoché medioevale: un atto di garanzia concesso da terzi, senza il quale si è interdetti ad operare.   

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

 

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Lo stress dimenticato 2: il malessere lavorativo nelle aziende italiane

Nelle scorse settimane ho parlato dello stress, dello stress dimenticato, nascosto nelle aziende. Di quello stress solo blandito da valutazioni e misure di prevenzione non sempre in grado di modificare i problemi organizzativi che, in molti casi, sono alla radice dello stress lavoro correlato.

Oggi non mi soffermo, come nel precedente post, su indagini e su dati, ma provo a monitorare il malessere nelle aziende attraverso un’intervista a Rosanna Gallo, psicologa del lavoro, specializzata in benessere organizzativo, già docente di “Promozione del benessere organizzativo” all’Università di Parma e componente del Comitato Scientifico Asicus.

Non è un intervista recente, è stata pubblicata su PuntoSicuro il 16 aprile 2013. Ma permette di rilevare ancora oggi una situazione di malessere che, specialmente a causa della crisi persistente delle aziende, continua ad essere elevata.

I lavoratori “si ammalano” e le malattie psicosomatiche sono in aumento; “lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni” e si ricorre ad “abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione”…

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

Tiziano Menduto

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

 


Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

Un’intervista di PuntoSicuro alla psicologa del lavoro Rosanna Gallo, specializzata in benessere organizzativo. Come affrontare l’aumento dello stress, della depressione, delle malattie psicosomatiche, degli errori umani nei luoghi di lavoro.

Oggi si sta male nei luoghi di lavoro”, i lavoratori “si ammalano e le malattie psicosomatiche sono in aumento; lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni” e si ricorre ad “abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione”.

Queste alcune frasi tratte da una intervista di PuntoSicuro a Rosanna Gallo, psicologa del lavoro, specializzata in benessere organizzativo, già docente di “Promozione del benessere organizzativo” all’Università di Parma e componente del Comitato Scientifico Asicus.

L’abbiamo intervistata in relazione al convegno “Benessere Organizzativo & Produttività Aziendale” che si è tenuto a Milano l’11 marzo 2013 – organizzato da TEC, la scuola di formazione del Gruppo Bosch in Italia, in collaborazione con Ranstad, Technogym e Virgin – di cui Rosanna Gallo era moderatrice.

Convinti che la prevenzione dei rischi psicosociali, anche in conseguenza delle ripercussioni sul mondo del lavoro della crisi economica, sia sempre più la “nuova frontiera” della tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, le abbiamo dunque posto alcune domande sul tema del benessere e malessere nei luoghi di lavoro.

Partiamo da alcuni dati: nell’Unione Europea la condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori, mentre in Italia siamo al 27% con un evidente criticità rispetto agli altri paesi europei. E la depressione, secondo l’Agenzia Europea per la sicurezza e salute sul lavoro, diverrà ben presto la principale causa di congedo per malattia in Europa. Cosa sta succedendo nei luoghi di lavoro? E ha senso parlare di benessere in questo periodo di crisi occupazionale?

Rosanna Gallo: Oggi si sta male nei luoghi di lavoro. L’incertezza e la paura di perdere il lavoro portano a comportamenti difensivi, per cui le persone non si espongono, non decidono e si rendono invisibili; purtroppo si ammalano e le malattie psicosomatiche sono in aumento; lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni, riduce la memoria e la flessibilità. Le persone e ricorrono ad abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione. Nel 2000 scrissi un articolo proprio sulla depressione organizzativa, non da attribuire alle singole persone, ma al clima organizzativo.

Ecco, oggi la situazione si è estremizzata e amplificata: oggi ci sono i suicidi veri o tentati, anche inconsapevolmente, che mettono a rischi persone e organizzazione. Avrei preferito fare prevenzione dei rischi psicosociali nei luoghi di lavoro, ma oggi è diventato indispensabile agire con interventi per la promozione del benessere organizzativo. Oggi è diventata un’emergenza, perché dopo la depressione sta emergendo la rabbia che può essere molto distruttiva.

Definiamo il benessere organizzativo. Quali sono i vantaggi pratici per i lavoratori e per i datori di lavoro? E quale è il rapporto tra benessere organizzativo e produttività aziendale?

RG: Il benessere organizzativo (b.o.) si riferisce alle politiche di prevenzione e promozione della salute e sicurezza intese in senso ampio. Ad esempio parliamo di sicurezza fisica (prevenzione infortuni) e sicurezza psicologica (prevenzione stress), ma anche di processi e comportamenti che promuovono il benessere organizzativo: la formazione, la meritocrazia, politiche di equità e di pari opportunità, la valorizzazione delle diversità (di età, di genere e culturali) e soprattutto il lavoro in team; infatti il gruppo di lavoro è un forte ancoraggio per le politiche di sicurezza, perché protegge e sviluppa le persone e l’organizzazione allo stesso tempo.

I vantaggi del benessere organizzativo sono numerosi: le persone, se non devono dedicare energie nel nascondere il proprio stress/malessere, ne hanno da investire per innovare e produrre con maggiore qualità. Le persone che si sentono riconosciute nel contribuire allo sviluppo dell’organizzazione sono più coinvolte e appartenenti e più soddisfatte e solidali; dimostrano una maggior resilienza allo stress e minori possibilità di malattia e assenteismo. Il datore di lavoro trae il vantaggio del minor assenteismo e maggior produttività.

Le ricerche più recenti evidenziano che il denaro investito per il b.o. ha un ritorno medio di 4 volte tanto.

Se, come indicato da alcune ricerche del 2012, il lavoratore felice ha performance più elevate, ha un tasso di logoramento inferiore, ha minore assenteismo e minore necessità di assistenza sanitaria, come è possibile che solo oggi si pensi benessere organizzativo? Cosa impedisce che questa diventi una strategia condivisa dalle aziende?

RG: Se ne parla da anni, ma è sempre stato vissuto come un argomento “snob”, per poche aziende che avevano già fatto tutto. E non avevamo tutte le ricerche, di cui disponiamo oggi, a supporto. In questi giorni, alcune aziende milanesi più illuminate si stanno organizzando per condividere una strategia comune, ma altre continuano a mantenere un clima ricattatorio per cui quando un lavoratore non è più al massimo della propria efficienza viene …sostituito da un altro…

Abbiamo a suo parere in Italia un management, dei datori di lavoro, delle società all’altezza di questi difficili compiti? C’è più attenzione al benessere organizzativo in altri paesi?

RG: Purtroppo in questi ultimi anni la crisi ha “paralizzato” molte aziende che, nel dubbio, non hanno fatto nulla ed hanno perso anni. Il management italiano non ha goduto di formazione e sviluppo necessari ad affrontare le sfide con maggior coraggio, indipendenza e spirito critico e si adegua alle richieste dell’imprenditore con uno spirito poco orientato a promuovere cambiamento.

Affrontare la crisi aumentando le ore di presenza in ufficio non migliora la situazione, mentre i colleghi stranieri traggono vantaggio dall’uscire dal lavoro in tempo per fare sport, bere qualcosa con gli amici e occuparsi dei familiari prima di essere troppo stanchi.

Spesso quando si parla sia di malessere che di benessere nel mondo del lavoro si fa riferimento alla flessibilità lavorativa. Secondo lei la flessibilità è da intendere come un fattore positivo o negativo per il benessere del lavoratore?

RG: La flessibilità dovrebbe essere positiva per tutti, perché dovrebbe incontrare le esigenze della persona e dell’organizzazione; in realtà assistiamo spesso a flessibilità a senso unico e spesso solo in funzione delle esigenze organizzative.

Quali sono i principali indicatori di malessere nelle organizzazioni? E come questo malessere si trasforma in depressione, in rassegnazione, in rabbia? Mi pare che lei si sia occupata in passato anche di alcuni casi di suicidio…

RG: Quando si entra nelle organizzazioni si comprende subito il clima, se c’è fiducia e rispetto, se il merito è riconosciuto, se le persone sentono di poter crescere e contribuire, se si può imparare da un errore, chiedere aiuto o se non si è capaci di affrontare diversità e gestire i conflitti. Lo stile di leadership definisce molto le relazioni di collaborazione o competizione interna.

Il suicidio è un caso estremo di malessere in cui si è persa la speranza e ci segnala il senso di grande solitudine del lavoratore: l’impossibilità di potersi esprimere con gli altri di poter chiedere aiuto, di condividere un sentimento di depressione.

Mi pare che in alcune proposte di intervento per migliorare il benessere organizzativo ci sia la proposta di portare a galla il dolore affettivo – ad es. legato ai demansionamenti – in azienda. Quale è il ruolo dell’emozione nei luoghi di lavoro? E cos’è l’intelligenza emozionale?

RG: Il ruolo delle emozioni è fortemente comunicativo e produttore o sabotatore di energia per le persone e per i team. Le emozioni positive costituiscono la base di quella fiducia necessaria alla collaborazione e alla creatività che promuove innovazione. Il senso di perdita che le persone provano, ad es. durante riorganizzazioni, è dato dalla perdita del ruolo e del team di appartenenza. Anche se si mantiene il posto di lavoro si vive la perdita dell’identità lavorativa (quasi totalizzante per gli uomini) e si sperimenta la sindrome dei sopravvissuti (alla prima ondata di uscite di personale) col pensiero che la volta successiva non si avrà la stessa fortuna.

L’intelligenza emozionale è l’emozione compresa mentre la si prova. Ad es. se l’emozione della paura (di perdere il lavoro) fosse espressa da qualcuno del gruppo di lavoro tutti i suoi membri se ne avvantaggerebbero nel sentirsi meno soli. Inoltre, la condivisione della paura ne abbasserebbe l’ intensità per tutti, mettendo a disposizione maggior energia da destinare alla costruttività, anzichè alla difesa.

In conclusione per spingere le aziende a considerare e a attuare strategie che portino al benessere organizzativo, cosa è necessario che accada? Bisogna sensibilizzare i lavoratori? O i datori di lavoro? O addirittura si deve arrivare a qualche nuova legge?

RG: Abbiamo abbastanza leggi, ma poca informazione sui vantaggi sociali ed economici del benessere organizzativo. Ogni anno ci sono premi per le aziende che promuovono benessere, ma per alcuni è ancora un argomento frivolo. Oggi abbiamo molti dati e best practice a supporto e dobbiamo solo aumentarne la diffusione sia per i datori di lavori che per le organizzazioni sindacali, perché la sostenibilità del lavoro andrà in questa direzione.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

Lo stress dimenticato: breve inchiesta attraverso le carenze della valutazione del rischio stress lavoro correlato

Parlare del rischio stress è come parlare di un illustre sconosciuto. Tutti lo conoscono, ne discutono, tutti concordano sulla sua onnipresenza nel mondo del lavoro. Ma poi molte aziende evitano la valutazione o ne sfiorano soltanto i rischi con contromisure all’acqua di rose, convinti che in realtà lo stress sia qualcosa di altri, sia un “clima aziendale” da cambiare solo con una finestra aperta.

Il problema è che lo stress correlato all’attività lavorativo è un reale pericolo per i lavoratori e per l’azienda.

Per l’azienda è come un tarlo che rode da dentro. Non è solo la causa di assenteismo/malattia, è anche un forte freno alla produttività, specialmente se gonfiata da una faticosa rincorsa alla produttività dei competitors. Un freno che, senza prevenzione, prima o poi si farà sentire e non sarà più disinseribile senza grandi e dolorosi cambiamenti.

E per il lavoratore il rischio stress è un cattivo compagno che – in condizioni snervanti dal punto di vista organizzativo e/o relazionale – danneggia il fisico e la psiche. A volte lo stress si insinua nel lavoratore come una sconfitta da nascondere, una battaglia persa.

In un’azienda in cui la valutazione non c’è o le misure di prevenzione sono solo apparenti, questo tarlo si rinforza diffondendosi sempre più. Diventa sempre più un modus vivendi. E quando una malattia non può più essere riconosciuta perché vissuta come normalità, non c’è più niente da fare.

Proprio per alzare l’attenzione sulla falsa prevenzione dello stress nel mondo del lavoro, ho deciso di dedicare un po’ di spazio di questo blog a questo tema. Magari parlando di valutazioni da fare o fatte male, di indagini della magistratura, delle conseguenze reali su lavoratori e aziende e delle ricerche che hanno messo in questi anni, dopo che il D.Lgs. 81/2008 ha aumentato l’attenzione sui rischi psicosociali nel mondo del lavoro, il “dito nella piaga”.

La prima ricerca di cui vorrei parlare è un’indagine condotta dall’Associazione Bruno Trentin in stretta collaborazione con le organizzazioni sindacali e promossa dalla CGIL Nazionale e dalla FIOM CGIL – con il finanziamento del FAPI (Fondo Formazione Piccole e Medie Imprese) – per comprendere come è affrontato il rischio stress lavoro correlato nelle aziende metalmeccaniche. I risultati dell’indagine, raccolti nel volume “Il rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico” sono stati presentati il 31 marzo 2015 a Roma durante la giornata di studio e confronto dal titolo “ Rischi psicosociali in Italia ed in Europa: quali percorsi per la tutela dei lavoratori?”.

Per comprendere i risultati di questa interessante ricerca e avere un quadro realistico di come si affronta lo stress lavorativo nelle aziende del comparto metalmeccanico, ho realizzato un intervista – pubblicata sul quotidiano online PuntoSicuro del 9 giugno 2015 – al ricercatore Daniele Di Nunzio (Associazione Bruno Trentin – IRES – Istituto di Ricerche Economiche e Sociali– Osservatorio Salute e Sicurezza).

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto

 

 


 

 

(…)

 

Partiamo dalla storia di questa ricerca sul rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico. Da quali esigenze e problematiche è nata? Chi ha coinvolto?

Daniele Di Nunzio: Negli ultimi dieci anni le leggi e gli accordi tra le parti sociali hanno rafforzato gli obblighi per la tutela della salute dei lavoratori dando sempre maggiore importanza all’integrità della salute psico-fisica e, di conseguenza, alla prevenzione dei rischi psicosociali. In particolare, il decreto legislativo 81/2008 impone a tutte le imprese l’obbligo di effettuare la valutazione del rischio stress correlato al lavoro, secondo quanto previsto dalle indicazioni della Commissione consultiva permanente emanate alla fine del 2010.

L’Associazione Bruno Trentin, in collaborazione con la CGIL nazionale e la FIOM CGIL, con un finanziamento del Fapi, ha condotto una ricerca per capire lo stato della valutazione del rischio stress: se è effettuata, come è effettuata, quali sono i risultati.

La ricerca è stata condotta nelle aziende metalmeccaniche, ascoltando il parere dei Rappresentanti dei Lavoratori per Sicurezza, attraverso un questionario.

Perché ha riguardato in particolare il settore metalmeccanico? Quanto è presente in questo settore il rischio stress lavoro correlato?

DDN: Nel settore industriale i rischi per la salute dei lavoratori sono molti. I  rischi più noti sono quelli di tipo fisico, come i danni muscolo-scheletrici, o di tipo chimico, così come il rischio di subire un incidente.  Però esistono anche dei rischi che sono propri dell’organizzazione del lavoro, molto diffusi, meno visibili, rispetto ai quali l’attenzione è minore. I fattori che mettono una forte pressione sul lavoratore sono tanti, come i ritmi serrati, la catena di montaggio, il lavoro ripetitivo, i turni e la tendenza alla produzione continua. Questi fattori possono comportare dei danni alla salute psicologica e anche un maggiore rischio di incidenti, quindi mettono in pericolo la salute del singolo ma anche quella di una comunità di lavoratori e lavoratrici.

Veniamo ai risultati partendo innanzitutto dai ritardi delle aziende nel valutare i rischi stress lavoro correlati. Qual è la situazione nel comparto metalmeccanico? In quante aziende la valutazione è stata effettivamente fatta?

DDN: La ricerca mostra l’esistenza di numerose difficoltà per la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Le criticità maggiori e più diffuse sono: il fatto che la valutazione non viene effettuata, le mancanze nell’applicazione delle norme, lo scarso coinvolgimento degli Rls, la scarsa efficacia nell’individuazione dei rischi, la scarsa capacità di programmare delle adeguate misure di intervento per migliorare le condizioni di lavoro.

Dei 185 casi analizzati, solo in 59 la valutazione è stata conclusa al momento della rilevazione. Dall’analisi di questi 59 casi sappiamo che solo in 8 aziende sono stati evidenziati dei rischi “medi” o “alti” dall’analisi degli eventi sentinella (ossia fattori quali l’indice infortunistico o l’assenza per malattia). In 22 casi i fattori di contesto o contenuto (come l’ambiente di lavoro, l’orario e i turni) hanno indicato un rischio “medio” o “alto”. Solo in 14 casi è stata indicata la necessità di misure di intervento per contrastare il rischio stress lavoro-correlato e migliorare le condizioni di lavoro.

Dunque, in un contesto con così tanti pericoli, come quello metalmeccanico, nella maggioranza dei casi la valutazione dei rischi non è riuscita a fare emergere i problemi reali per la salute psicologica dei lavoratori. E’ dunque utile fermarsi a riflettere su qual è il funzionamento del sistema di gestione dei rischi e della valutazione dei rischi, per comprenderne le criticità e migliorarne l’efficacia.

Se vogliamo approfondire l’analisi, i dati della ricerca ci mostrano che a tre anni dall’emanazione delle indicazioni della Commissione Consultiva ancora un’azienda su tre non ha iniziato a valutare il rischio stress lavoro-correlato secondo quanto previsto dalla nuova regolamentazione. Se consideriamo un periodo di tempo più lungo, un’azienda su cinque non ha mai svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato a partire almeno dal 2008, per cui numerosi lavoratori sono stati esclusi dalla prevenzione obbligatoria su questo rischio.

Che differenza c’è nei dati in relazione alla grandezza delle aziende?

DDN: Nelle piccole aziende sono molte le difficoltà per la tutela della salute dei lavoratori, tra cui: le difficoltà economiche che ostacolano la messa in atto di interventi preventivi e migliorativi delle condizioni di lavoro, la minore presenza di figure specializzate sui temi della salute e sicurezza, il fatto che le aziende più piccole lavorano più spesso in appalto o comunque sono più facilmente in balia del mercato e delle commesse esterne, una minore opportunità di  programmazione a lungo termine del lavoro.

Però dalla ricerca emerge un dato interessante: per quanto riguarda la valutazione specifica del rischio stress lavoro-correlato, il coinvolgimento degli Rls è avvenuto in misura maggiore nelle aziende più piccole (con meno di 50 addetti). In ipotesi, nei contesti più piccoli gli Rls hanno un rapporto più diretto con la dirigenza e possono assumere un ruolo più operativo mentre nei contesti più grandi si impone uno stile più tecnocratico e formale che ostacola la partecipazione.

La ricerca ha coinvolto in particolare i Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza delle varie aziende… Qual è il livello di coinvolgimento riscontrato, laddove la valutazione del rischio è stata fatta? In che percentuale sono stati formati sul rischio stress?

DDN: Il sindacato ha un ruolo fondamentale nel sistema di gestione dei rischi. La ricerca mostra che quando gli Rls sono coinvolti nella gestione del rischio stress emergono meglio i problemi e le soluzioni. È scarsa anche l’attenzione verso la percezione “soggettiva” dei lavoratori e questo dimostra come ci sia ancora troppa confusione rispetto ai temi della salute psicologica. I lavoratori dovrebbero essere i primi a essere coinvolti nei percorsi di tutela delle loro condizioni di salute, visto che l’analisi dei rischi legati allo stress non può certo prescindere dall’ascolto del loro punto di vista. Certamente i fattori oggettivi sono importanti ma non possono riuscire a individuare tutti i problemi presenti per la salute psicologica, perché questa non può essere ridotta a un calcolo matematico, perché l’articolazione dei fattori di rischio è complessa e perché, di certo, il primo fattore di benessere è quello di sentirsi partecipi della vita aziendale.

Riguardo al ruolo degli Rls, la ricerca mostra che il rispetto formale della normativa ha portato le aziende a osservare alcuni obblighi minimi, come la visione del Dvr per gli Rls e la loro formazione, ma nella sostanza non ha favorito un ruolo attivo e partecipativo degli Rls.

L’analisi evidenzia alcuni problemi: un Rls su quattro non è stato consultato su come impostare la valutazione preliminare; nella metà dei casi gli Rls non sono stati coinvolti o lo sono stati in maniera marginale; si afferma il ricorso a consulenze esterne private, mentre il coinvolgimento di  esperti delle istituzioni pubbliche e di quelli delle organizzazioni sindacali e datoriali è scarsissimo se non nullo.

Da cosa nasce la carenza di coinvolgimento degli RLS nelle valutazioni dei rischi? Perché in Italia è ancora carente l’idea che la partecipazione di tutti alla cultura della sicurezza possa essere un elemento vincente  per l’efficacia delle attività di prevenzione?

DDN: Negli ultimi anni in Italia, non solo nel settore metalmeccanico, la competizione delle aziende è stata fondata soprattutto sull’abbassamento del costo del lavoro, con una scarsa attenzione ai fattori propri dell’innovazione e della valorizzazione del personale. Così, si è affermata una spirale di dequalificazione dei processi produttivi che si traduce in una minore competitività sui mercati globali e, anche, in peggiori condizioni per i lavoratori. In molte imprese italiane manca la capacità di puntare davvero sulla qualità della produzione, di valorizzare ogni singolo aspetto del ciclo produttivo, a partire dall’innovazione dei processi, dal lavoro quotidiano delle persone, dalla facoltà di creare un clima cooperativo. Ad esempio, la ricerca mostra che Il coinvolgimento degli Rls è avvenuto nella maggior parte dei casi nei contesti aziendali con uno stile di gestione del rischio più collaborativo, mentre laddove lo stile è più conflittuale ci sono degli ostacoli al coinvolgimento degli Rls. La cultura della sicurezza è indissolubilmente legata al valore che si da alle persone e al loro lavoro, così come è in stretto rapporto alla democrazia interna di un contesto aziendale.

Qual è il giudizio generale che è stato riscontrato sulla presenza e sulla gestione del rischio stress nelle aziende metalmeccaniche?

DDN: Solo il 30,8% degli Rls ritiene che la valutazione abbia fatto emergere i problemi principali legati al rischio stress in azienda e addirittura solo il 9% di loro ritiene che siano state affrontate delle problematiche ritenute importanti per la valutazione dello stress.

Non stupisce dunque che la maggioranza degli Rls (il 61,2%) non sia soddisfatta di come è stata condotta la valutazione nelle aziende e la valutazione del rischio sarebbe stata più efficace nell’individuare le problematiche realmente presenti nei luoghi di lavoro se il coinvolgimento degli Rls e dei lavoratori fosse stato maggiore, al contrario di quanto è accaduto.

Quali sono le possibili soluzioni per arrivare ad un’adeguata valutazione e gestione del rischio?

DDN: La soluzione migliore è certamente quella di rispettare le leggi e, anche, lo spirito che è alla base delle normative, partendo da quanto previsto dagli orientamenti europei in materia che prevedono la creazioni di sistemi di gestione del rischio fondati sulla cooperazione tra tutti gli attori. Per questo, è molto utile la creazioni di gruppi specifici di lavoro su questi temi a livello aziendale, capaci di favorire il coinvolgimento e la partecipazione degli Rls, dei lavoratori e anche dei medici, delle Asl, di esperti. In particolare, dalla ricerca emerge che le aziende in cui i fattori di contenuto e di contesto hanno portato all’individuazione di un rischio «medio» o «alto» sono quelle in cui c’è stato il coinvolgimento maggiore dell’RLS. Allo stesso modo la necessità del ricorso a misure correttive o interventi migliorativi emerge con maggiore frequenza nelle in cui è stata indagata la percezione dei lavoratori e l’RLS è stato coinvolto nel processo di valutazione.

Al di là delle scelte aziendali, tra gli RLS c’è sufficiente attenzione al tema dello stress e dei rischio psicosociali?

DDN: Negli ultimi anni l’attenzione a questi temi è andata crescendo. Lo stress correlato al lavoro è un problema che permea ogni aspetto della vita aziendale, di conseguenza per gli Rls occuparsi di questi temi significa occuparsi dell’organizzazione complessiva e delle condizioni generali del lavoro. Sicuramente i problemi per la salute psicologica nelle aziende sono meno considerati rispetto ad altri, però questo non significa che non siano importanti per i lavoratori che, ogni giorno, si confrontano con i problemi dovuti ai ritmi, agli orari, al carico di lavoro e di responsabilità che possono avere. E gli Rls dunque si confrontano necessariamente con questi problemi che riguardano la vita quotidiana dei lavoratori e lo fanno con una consapevolezza sempre crescente che deve essere alimentata con una formazione continua. Certamente sono problemi complessi e per questo gli Rls necessitano di avere degli strumenti adeguati, in termini di formazione ma anche di supporto da parte dell’azienda e, anche, delle organizzazioni sindacali, che devono riuscire a valorizzare il loro ruolo e a coordinare il loro lavoro in maniera sempre più efficace.

Quali sono in definitiva le principali conclusioni a cui arriva la ricerca?

DDN: Secondo i risultati della nostra ricerca, successivamente all’entrata in vigore delle indicazioni della Commissione Consultiva permanente è aumentato il numero di aziende che hanno svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato, per cui le indicazioni potrebbero avere contribuito ad aumentare l’attenzione a questi rischi. Quindi qualche passo in avanti è stato fatto ma la strada è ancora lunga. È necessario migliorare dal punto di vista normativo gli obblighi per la valutazione del rischio ma, soprattutto, bisogna superare qualsiasi approccio formale e non sostanziale a questi problemi, evitando anche il rischio di una burocratizzazione della valutazione che si ferma alla sola misurazione del dato oggettivo. In generale, è necessario favorire l’affermazione di una cultura della sicurezza fondata sulla cooperazione, sul dialogo, sulla democrazia aziendale, valorizzando il ruolo degli Rls e la partecipazione dei lavoratori, che sono i veri protagonisti di questi processi e devono avere un ruolo attivo e propositivo.

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Rischio stress: i ritardi e le carenze delle valutazioni dei rischi”

Sicurezza, lavoro nero e infortuni

Una delle prime interviste che ripubblico volentieri su questo blog è un’intervista a Paolo Berizzi, giornalista che ha avuto il coraggio di entrare, per raccontarlo, nel mondo del lavoro nero controllato da caporalato e malavita. Un mondo che è sotto casa nostra, che potremmo vedere dalle nostre finestre, che non è nascosto in qualche zona arretrata del nostro paese. Un mondo che occupa piazze e vie di molte città e che non risponde a leggi o direttive.

Un mondo che ha raccontato nel libro “Morte a 3 euro: nuovi schiavi nell’Italia del lavoro” all’indomani del Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 (Testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro) entrato in vigore il 15 maggio 2008. Ma che poteva essere raccontato molto prima e che potrebbe essere raccontato anche oggi con le stesse parole.

C’è infatti, fuori dalla finestra, una realtà impermeabile alle leggi e, troppo spesso, invisibile ai controlli. Un mondo dove l’angoscia dell’infortunio è continua, dove la prevenzione non arriva, dove non c’è organizzazione, contrattualità, formazione. Dove si può morire per tre euro all’ora senza ricadere, neanche come numero, in nessuna statistica, in nessun dato ufficiale degli infortuni mortali in Italia.

Una realtà che dovremmo ricordare più spesso.

Qualunque “cultura della sicurezza” dovrebbe infatti partire proprio dalle realtà più difficili, più povere, più a rischio, più ricattabili,… Partendo dai lavoratori in nero, per arrivare a migranti, disabili, lavoratori giovani e anziani, donne e lavoratori con contratti di lavoro atipici.

Rimandando alla lettura integrale della recensione e dell’intervista realizzata nel 2008 – di cui riporto i link – ricordo quanto raccontato da Paolo Berizzi sull’angoscia degli infortuni durante una sua giornata in cantieri edili privi di prevenzione: “a un certo punto mi assale l’angoscia dell’infortunio: non mi mollerà più. La paura di finire schiacciato sotto un blocco di tavole di ferro, quelle imbracate da una corda consunta che dal cortile vedo piombare giù dal sesto piano del ponteggio, e se perdi l’attimo, o ti distrai, o se una di quelle lastre si ribella alla morsa del moschettone, rimani sotto. Il terrore di venire travolto da una betoniera. Stritolato da un cavo d’acciaio. Che le braccia cedano, o semplicemente di scivolare dall’impalcatura dove mi fanno arrampicare anche se sono nuovo del mestiere”.

 

La recensione del libro – articolo “L’Italia del lavoro nero e dei caporali: morire per tre euro”, a cura di Tiziano Menduto – pubblicato sul quotidiano online PuntoSicuro il 27 giugno 2008.

Intervista a Paolo Berizzi – articolo “Il lavoro nero in ‘Morte a 3 euro’: intervista all’autore”, a cura di Tiziano Menduto – pubblicato sul quotidiano online PuntoSicuro il 30 giugno 2008.