Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. La futura norma UNI e gli ambienti assimilabili agli spazi confinati. Intervista a Paolo De Santis della Contarp Inail.
Sono ancora troppi gli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati. A titolo esemplificativo tra il 2002 e il 2014 si registrano in Italia circa 69 incidenti che hanno comportato 90 morti. E sono comunque molti gli infortuni mortali plurimi dal 2014 ad oggi, ad esempio con riferimento all’incidente plurimo (quattro morti) avvenuto in provincia di Pavia nel 2019.
Proprio partendo da questi dati e dalla necessità di migliorare la prevenzione a partire dalla conoscenza e dallo studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludo il viaggio attraverso i rischi negli spazi confinati con un post, il quarto, che raccoglie un’intervista da me realizzata durante la manifestazione “Ambiente Lavoro” del 2019 e pubblicata sul giornale online PuntoSicuro (Spazi confinati: gli infortuni, le criticità e la futura norma UNI).
L’intervista è a Paolo De Santis (Inail – Contarp Lazio), relatore al workshop Inail “Ambienti Confinati e infortuni mortali: analisi delle criticità e proposte di soluzioni”, che si è soffermato proprio sulle criticità rilevate negli infortuni in questi ambienti.
L’intervista, realizzata il 17 ottobre 2019 e di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, ci permette di avere anche informazioni su una futura norma UNI in materia di ambienti confinati.
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Entriamo nel dettaglio degli infortuni che avvengono ogni anno negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati, con particolare riferimento al plurimo infortunio mortale che è avvenuto in provincia di Pavia a metà settembre…
Paolo De Santis: In particolare quest’ultimo incidente ha la caratteristica di raccogliere un po’ tutte quelle criticità che possono essere elencate.
Intanto osserviamo che, a 11 anni dalla pubblicazione del decreto 81/2008, ancora si muore negli spazi confinati. Nel frattempo c’è stato il DPR 177/2011, ci sono state decine di buone prassi, linee guida, … Ma il problema che questo particolare incidente indica è che la normativa, le buone prassi, ecc. molto spesso non arrivano alla piccola e piccolissima azienda.
Cosa è successo?
Dalle ricostruzioni dei giornali si capisce che un lavoratore si è sentito male al bordo di una vasca di liquami. È caduto nella vasca, è annegato e gli altri tre, di cui due datori di lavoro, hanno cercato di estrarlo ma, ovviamente nelle stesse condizioni, sono morti anche loro annegati.
Io analizzando questo incidente sono rimasto abbastanza sconcertato dal fatto che questa particolare tipologia di ambiente, quella delle vasche dei liquami, è analizzata addirittura dal 1978. Molti esperti (…) sulla base proprio dell’indagine approfondita su decine e decine di incidenti, hanno pubblicato articoli, fatto incontri, convegni, dato anche proprio delle misure preventive, tecniche, molto pratiche… Sappiamo, per esempio, che un’adeguata correzione del pH può diminuire questo rischio. Il problema è come arrivare alla piccola e piccolissima azienda: ecco, credo, che questo sia il nostro obiettivo per il futuro.
Che altra tipologia di infortuni avvengono negli ambienti a cui fa riferimento il DPR 177? Ci sono altri incidenti che ci possono fornire insegnamenti e indicazioni per migliorare la prevenzione?
P.D.S.:Sì, e bisognerebbe anche fare una prima distinzione, quella distinzione che stiamo cercando di portare a livello di gruppo UNI tra ambienti che rientrano nella normativa – quindi ambienti confinati o sospetti di inquinamento, secondo le definizioni del decreto 81 e del decreto 177/2011 (…) – e i cosiddetti ambienti assimilabili.
Oggi nel workshop li abbiamo citati. Per esempio, le pale di un impianto eolico, oppure i pozzetti di piscina degli ambienti, che non sono normati, ma che ugualmente possono rappresentare, in determinate condizioni, un rischio mortale.
A livello del gruppo UNI, in cui si spera vedrà la luce la formulazione di una nuova norma specifica sull’argomento, stiamo dando dei criteri di identificazione, comunque di categorie di spazi in cui ci possono essere problemi mortali. Questi spazi si divideranno in due grosse categorie, cioè quelli che finiscono sotto l’attuale vigenza normativa e quelli che, comunque, hanno le medesime caratteristiche di pericolosità e per i quali il datore di lavoro deve, con la propria valutazione del rischio, individuare le misure preventive migliori.
Quali sono i tempi per arrivare alla nuova norma UNI?
P.D.S.:I tempi saranno ancora lunghi, perché è partito da poco il progetto di norma. Ancora non sappiamo se sarà una norma o un Technical report; probabilmente il gruppo è indirizzato più verso la norma.
C’è stata un’ampia discussione proprio per venire a definire le due definizioni di spazio confinato o sospetto di inquinamento e di spazio assimilabile.
Oggi c’è un accordo, che sarà sottoposto ovviamente all’analisi pubblica.
È un primo passo avanti. Spero che, dopo questo primo grosso scoglio, i lavori andranno molto più velocemente. Speriamo che nel corso del prossimo anno vedrà la luce.
Forniamo qualche dato quantitativo relativo agli infortuni e alle tipologie di infortuni…
P.D.S.:Dati di infortuni consolidati possono essere estratti dalla nostra Banca Dati Infor.mo. Quelli consolidati sono riferibili all’intervallo di tempo che va dal 2002 al 2014. In quel periodo abbiamo registrato circa 69 incidenti che hanno comportato 90 morti.
E quindi già si vede, da questo dato, che effettivamente i decessi sono plurimi rispetto agli eventi. Probabilmente è un dato sottostimato perché nell’analisi non sono state compresi gli scavi, che invece, in determinate condizioni, possono essere intesi come ambienti confinati o sospetti di inquinamento.
Veniamo alle principali criticità che avete rilevato…
P.D.S.:La criticità principale, a nostro avviso, è riferibile al fattore umano.
Intanto si osserva che circa il 73% degli infortunati che sono deceduti aveva una grande esperienza di lavoro ben oltre i 3 anni e che la maggior parte – anche qui intorno al 70% – era personale dipendente a tempo indeterminato.
Quindi mai o quasi mai si è trattato di inesperienza. In alcuni casi ci sono state delle persone non assunte, in nero, ma la stragrande maggioranza degli infortuni ha riguardato gente con esperienza. Quindi molto spesso, quando si parla di esperienza, è “dir tutto e dir poco”. A volte l’esperienza, invece, è foriera di cattive abitudini che, purtroppo, si ripetono nel tempo.
E molto spesso, un’altra criticità che abbiamo riscontrato, è che le stesse persone avevano compiuto le stesse operazioni in maniera similare nel tempo, ma, purtroppo, sono cambiati piccoli parametri del processo che non sono stati rilevati, proprio per una carenza di conoscenza e anche di capacità di analisi dei processi stessi. E queste piccole variazioni hanno comportato invece l’instaurarsi di condizioni mortali.
(…)
Secondo lei cosa si può fare per migliorare la prevenzione? Come agire sul fattore umano?
P.D.S.:Bisogna aumentare la percezione del rischio delle persone.
Cosa significa? Intanto il fattore umano non dobbiamo intenderlo come errore della singola persona, ma come eventuale carenza nell’ambito delle organizzazioni che, a volte, sono piccolissime organizzazioni. Infatti molti incidenti hanno coinvolto gli stessi datori di lavoro, che non hanno avuto le capacità di analisi e di valutazione del rischio.
Ecco noi dovremmo cercare di far arrivare, di diffondere questa capacità di analisi del rischio.
Una raccolta di materiali,
interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli
ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una intervista, realizzata nel
2019, presenta le linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri.
Come ricordato nel “Manuale
illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ai sensi
dell’art. 3 comma 3 del d.p.r. 177/2011” e nelle schede informative pubblicate
dal sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi INFOR.MO., gli
ambienti confinati possono presentare diversi rischi per la salute e la
sicurezza.
Ad esempio:
asfissia
per carenza di ossigeno;
intossicazione
per esposizione ad agenti chimici pericolosi;
esposizione
ad agenti biologici;
caduta
dall’alto dell’infortunato;
contatto
con organi lavoratori in movimento;
scivolamento
dovuti alla difficoltà di accesso/uscita, alla carenza/assenza di illuminazione
naturale, alla presenza di tubazioni/cavi/materiali o di fondo vischioso/scivoloso;
seppellimento
per caduta di polverulenti dall’alto;
ustione/congelamento
per esposizione a sostanze corrosive, a temperature elevate o molto basse;
annegamento
in presenza di melma/fanghi o variazioni improvvise di livello di altri fluidi;
folgorazione
per presenza di connessioni elettriche.
E analizzando gli infortuni
mortali in ambienti confinati si rileva che i fattori di rischio più frequenti
sono gli errori nelle modalità operative, la mancata fornitura o il non utilizzo
dei DPI necessari e le carenze strutturali e organizzative degli ambienti
lavorativi.
Proprio a partire dagli elevati
rischi per i lavoratori di questi ambienti ho pensato di dedicare il terzo post
sugli spazi confinati ad alcuni interessanti strumenti che possono favorire la
prevenzione.
Sto parlando delle linee di
indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri (CNI) dal titolo “Linee di
indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati
o a rischio di inquinamento”, di cui presento una breve intervista sulla prima
versione ufficiale (sono già stati pubblicati alcuni aggiornamenti). Intervista
all’Ing. Stefano Bergagnin (Ordine Ingegneri di Ferrara – componente del
gruppo di lavoro Sicurezza del CNI e coordinatore del gruppo tematico
temporaneo sui lavori in ambienti confinati) e all’Ing. Adriano Paolo
Bacchetta (esperto in materia di spazi confinati e fondatore e coordinatore
del sito www.spazioconfinato.it).
L’intervista è stata realizzata,
per il giornale online PuntoSicuro, durante la manifestazione “Ambiente
Lavoro” che si è tenuta a Bolognadal 15 al 17 ottobre 2019 dove i due ingegneri erano relatori al convegno
“Ambienti confinati: stato dell’arte e proposte del CNI per la gestione del
rischio specifico”, organizzato dall’Ordine Ingegneri di Bologna con il
patrocinio del CNI.
Nelle prossime settimane continuerà
la pubblicazione di altri post e contributi sul tema.
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Gli spazi confinati e le carenze
normative
Nella presentazione del documento si sottolinea che in materia di
ambienti confinati e a rischio di inquinamento a tutt’oggi gli strumenti di
gestione ancora non sono sufficienti, immagino che queste linee di indirizzo
vogliano affrontare questa carenza…
Stefano Bergagnin: Si, questo è proprio
L’obiettivo della pubblicazione e il titolo “linee di indirizzo” è
finalizzato a questo scopo, cioè vuole fornire a tutti i tecnici – ma non solo
tecnici, ovviamente anche ai datori di lavoro, ai committenti, ai coordinatori
per la sicurezza e anche alle imprese, le imprese che svolgono questo tipo di
interventi – degli strumenti per gestire, auspichiamo correttamente, quello che
è un rischio che purtroppo rimane ancora molto di attualità perché gli
infortuni non calano e questo è forse dovuto anche (…) a una carenza
normativa. Perché effettivamente tutti gli aspetti tecnici che sono
assolutamente necessari per un rischio di una gravità così importante
dovrebbero essere disponibili.
Noi abbiamo cercato di fornire più
strumenti possibili e tra l’altro questa è anche una linea di indirizzo molto
corposa, il contributo dei tecnici del gruppo di lavoro è stato veramente molto
interessante, a cominciare proprio da quello di Adriano che è uno dei maggiori
esperti e ha fornito sicuramente strumenti utili.
Noi ci siamo spinti con il documento
soprattutto su alcuni aspetti che, a nostro avviso, erano carenti, perché
poco approfonditi nella normativa.
Addirittura, se parliamo della formazione,
era previsto un accordo Stato-Regioni che non è mai uscito. Quindi abbiamo
cercato di fornire strumenti anche in questo senso.
Tra le altre cose (…) c’è anche una
app importante che abbiamo messo in allegato e che è la prima app – ne usciranno
probabilmente anche delle altre – ed è interessante soprattutto per
l’identificazione degli spazi confinati ed è stata presentata a cura di Alma
Mater Studiorum – Università di Bologna, con tanti altri contributi. (…)
So che l’ing. Bacchetta si è occupato
spesso della normativa in materia di ambienti confinati e/o sospetti
d’inquinamento. Cosa possiamo dire della normativa che c’è e di quella che
ancora manca? Quali sono le criticità?
Adriano Paolo Bacchetta: “Diciamo che la
normativa che c’è è come se non ci fosse – io lo dico dal 2011 –
fondamentalmente quello che abbiamo è frutto di una necessità immediata per
dare risposta agli incidenti a cavallo del 2009-2010 (depuratore di Mineo, Truck Center e altri)
che però non ha risposto alle esigenze. Anzi ha creato una serie di
complicazioni e una serie di adempimenti meramente burocratici che,
personalmente, io valuto poco idonei ad una risposta funzionale.
Questo capita quando si lasciano campi
assolutamente non definiti, interpretativi.
Basti pensare (…) a quelli che prima
erano degli ambienti che dovevano essere controllati per rischio di
inquinamento e sono diventati a sospetto di inquinamento DPR 177/2011, ad
esempio le gallerie. Ma ci immaginiamo una galleria, il traforo o la variante
di valico? Come lo classifichiamo? Teoricamente andrebbe messo lì, ma è
sbagliato. Poi ci sono gli ambienti dove può esserci il rischio di gas
deleteri: qualsiasi stabilimento industriale dove fisicamente c’è una fumana
che esce da una macchina potrebbe a ragione essere valutato come un ambiente
dove può essere applicato il decreto
177/2011. Una follia.
E questo oltre agli errori nei
riferimenti (…), basti pensare che il titolo stesso del decreto è “ambienti
confinanti”. Quindi in realtà, almeno gli errori formali potevano metterli a
posto.
E poi c’è quella veramente vergognosa mancanza
della definizione dei requisiti degli aspetti formativi (…). Ad oggi c’è in
giro di tutto, tutti fanno tutto, (…) e dopodiché anche il Ministro l’altro
giorno ha detto che è “importante la formazione”. Siamo d’accordo ma ad oggi
non esiste una specifica di chi può farla, quanto deve durare, quali sono gli
argomenti.
Quindi inutile parlare di formazione
quando nel caso specifico degli ambienti confinati non c’è neanche la
definizione. (…)
Stefano Bergagnin: Mi ha interessato
moltissimo quanto ha detto Adriano, proprio nell’ultima parte del suo
intervento.
L’aspetto formazione noi lo
abbiamo approfondito, proprio anche nelle linee di indirizzo, indicando con la
maggior precisione possibile anche i contenuti.
Ovviamente non potevamo sbilanciarsi
sulle ore necessarie, … Però almeno abbiamo dato una definizione molto precisa
dei contenuti minimi che devono essere affrontati proprio in questo
ambito.
Il riconoscimento
degli ambienti confinati e il ruolo degli operatori
Come avete affrontato il tema del riconoscimento degli spazi confinati
nei luoghi di lavoro…
Stefano Bergagnin: Forse uno dei
paragrafi più importanti è proprio quello sulla definizione. È un
paragrafo corposo perché dare una definizione di spazio confinato non è
semplice. Non è semplice perché anche le norme internazionali danno definizioni
che sono un po’ diverse. C’è sì una certa omogeneità che abbiamo cercato di
individuare, ma non è assolutamente semplice.
Noi più che altro abbiamo voluto
allargare quello che è lo spazio di indirizzo, cioè capire quali potrebbero
essere gli ambiti che senza dubbio potrebbero diventare o sono uno spazio
confinato o a rischio d’inquinamento.
C’è anche un elenco, dentro le
linee di indirizzo, di esempi di situazioni che potrebbero essere
sicuramente definibili come spazi confinati. Abbiamo anche chiarito alcuni
aspetti, tra questi anche il discorso “gallerie” che ha una sua
normativa e che non riteniamo debba entrare in quest’ambito. O il discorso
delle stive, le stive nei porti, … Anche lì c’è una normativa particolare.
Abbiamo comunque dato indicazione che a volte quella che è la valutazione del
rischio potrebbe trarre strumenti utili da una linea di indirizzo come la
nostra, ma siamo in un ambito diverso e questo l’abbiamo specificato.
Poi ci sono strumenti che potrebbero
servire, come l’app che citavo prima, anche soltanto per capire se
l’intervento che viene organizzato con un’impresa appaltatrice, in una sede
aziendale o anche in un cantiere, sia classificabile o meno.
L’app è utilissima ma visto che le app
comunque compariranno sul mercato anche nel settore della sicurezza e della
salute, bisogna fare molta attenzione. Perché questa è una app (…) che è stata
fatta appunto da Alma Mater con il contributo, tra l’altro, dell’INAIL
regionale, con il consenso dell’ASL della nostra regione. E questo è importante
perché offre la garanzia che queste siano delle app con un livello di qualità
elevato. (…)
Mi pare che nelle linee di indirizzo
abbiate anche parlato del datore di lavoro committente e del rappresentante del
datore di lavoro committente… Cosa si è detto nel vostro documento riguardo ai
ruoli dei vari attori della sicurezza?
Stefano Bergagnin: Noi innanzitutto
abbiamo evidenziato (…) che tra i soggetti destinatari delle linee di indirizzo
ci sono gli RSPP/ASPP, ci sono i datori di lavoro committenti, ci sono i datori
di lavoro delle imprese appaltatrici, delle imprese esecutrici di certi lavori.
E abbiamo anche chiarito un dubbio che (…) era quello relativo appunto all’applicabilità
della norma anche quando non c’è un contratto d’appalto; cioè quando i
lavori in spazi confinati li fanno direttamente i dipendenti. La norma è
applicabile anche lì. Ci sono anche dei passaggi – mi pare che fosse una
circolare importante che abbiamo citato anche nel testo – in cui è stato
chiarito che anche all’interno di un’azienda, se c’è questa tipologia di
lavori, bisogna garantire le stesse misure di sicurezza che vengono previste
negli altri casi (…). È quindi fondamentale che anche questo chiarimento ci sia
e lo abbiamo inserito nelle linee di indirizzo.
Il ruolo del medico competente e il
DPR 177/2011
Veniamo a soffermarci su un tema che affronterà nel convegno Adriano
Paolo Bacchetta, quello dei medici competenti. Quale ritiene sia il ruolo del
Medico Competente nell’applicazione del DPR 177/2011?
Adriano Paolo Bacchetta: Partiamo dal
presupposto che non siamo certamente noi (…) a dettare il passo ad un’altra
categoria professionale importante come i medici. Quindi non siamo noi a dire
cosa devono fare, però noi possiamo dire cosa auspichiamo di avere come supporto.
E certamente quello del medico competente, nel caso
specifico delle attività in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, è un
ruolo importante. (…)
Ad esempio c’è il problema della definizione di quali sono le
attività del FOP, del First on Place ovvero sia del primo soccorritore,
che deve intervenire su un soggetto che ha avuto un malore, un infortunio,
qualcosa all’interno dell’ambiente confinato. Si parla di un operatore laico,
quindi sostanzialmente né un sanitario, né un parasanitario; fondamentalmente
un soggetto che ha una formazione che non va oltre, al momento, a quella
prevista dal decreto 388 …
(…). In realtà, a oggi, il medico competente o il laureato in medicina che
viene contattato per fare il corso ai lavoratori fa il corso e poi queste
persone devono intervenire su un collega, piuttosto che un dipendente
dell’impresa appaltatrice nell’ambiente confinato. Però lì, obiettivamente, se
non c’è il medico che dà delle indicazioni puntuali non può essere certamente
il tecnico a definire la modalità operativa, i sistemi di immobilizzazione o
quant’altro necessario. (…)
No, l’intervento di soccorso va studiato e chiaramente. C’è
il tecnico che si occuperà delle progressioni su fune, di
definire le strutture, gli apprestamenti, tutto quello che è necessario; ma poi
serve comunque la controparte medica che dica “quando sei lì ti devi comportare
in un certo modo”. È questo è il primo problema. Poi ce ne sono altri…
Nel documento sono proposti anche
degli strumenti per i medici competenti?
Adriano Paolo Bacchetta: Qua la cosa si fa un
pelo più complessa, perché in realtà io sono stato autore, Insieme ad altri
esperti, tra l’altro della Fondazione Maugeri di Pavia, (…) di un articolo dove
abbiamo proposto un profilo sanitario per gli addetti negli spazi confinati.
Al momento stiamo cercando di trovare
ancora l’applicazione e non mi risulta che esista un profilo, ad esempio, per
la definizione dell’idoneità sanitaria. Quando l’articolo 66 del decreto 81/2008 in
fondo mi dice che lo spazio deve avere un’apertura sufficientemente larga da
poter estrarre un lavoratore privo di sensi – quindi sostituendo la originale
indicazione del DPR 547 che dava il 30 x 40 ellittico o il diametro 40 come
dimensione – di fatto mi dice tutto e non mi dice niente. L’unica cosa certa è
che un soggetto di 140 kg, che ha una circonferenza di 1,60 metri, non può
essere idoneo a lavorare in ambiente confinato se il punto d’accesso è un punto
30 x 40.
Quindi quando il medico dice che
l’addetto è idoneo a lavorare in ambienti confinati, lui deve sapere
esattamente quali sono questi ambienti e qual è la modalità d’accesso e uscita.
Perché se a lui non viene detto che, ad esempio, gli addetti devono entrare
nelle attrezzature a pressione attraverso un passaggio ellittico da 30 x 40,
magari si vede davanti un tipo Schwarzenegger e obiettivamente dice che è
idoneo agli spazi confinati. Ma da un punto di vista antropometrico, no, perché
non ci può entrare e se poi devo tirarlo fuori senza problemi… Poi sarà compito
del datore di lavoro andare a spiegare all’organo di vigilanza come ha fatto a
rendere idoneo un addetto e dichiarare implicitamente, nel momento in cui
accetta che lui entri, che lo poteva tirare fuori quando era inerme.
La situazione è molto complessa e
quindi il medico, da quel punto di vista, deve adottare un protocollo che al
momento non c’è. L’unica
pubblicazione che c’è è quella che abbiamo fatto noi nel 2015. Ora aspettiamo…
La gestione delle
emergenze negli spazi confinati
A proposito di emergenze mi pare che
quest’anno si sia parlato di soccorso ad Ambiente Lavoro anche in un convegno
nazionale sul soccorso industriale…
Adriano Paolo Bacchetta: Questa del convegno
è una logica evoluzione – sia di spazioconfinato.it sia di tutto quello che è
stato fatto negli anni – che di fatto tiene conto di una necessità. A oggi per
alcuni interventi (…) le aziende che non ritengono di avere del personale
adeguatamente preparato formato o equipaggiato per poter fare interventi di
soccorso utilizzano tipicamente dei professionisti, a tutti gli effetti, che
svolgono il ruolo di soccorritori industriali. (…) Il problema è che, anche in
questo caso, manca una specifica regolamentazione dei requisiti e
qualificazioni (…) e noi gettiamo le basi ufficialmente (…) per cominciare a
definire anche in Italia quella che può essere una ipotesi di profilo
professionale del soccorritore industriale. Ma questo non basta, (…)
l’associazione si sta muovendo per definire dei protocolli di formazione
aggiuntiva a quella obbligatoria di legge per queste persone che normalmente
fanno gli addetti di linea e quando suona la sirena automaticamente scattano e
diventano vigili del fuoco e soccorritori sanitari.(…)
Cosa si dice nel documento del CNI
riguardo alla gestione delle emergenze?
Stefano Bergagnin: Ci tenevo a rendere
evidente che anche nel documento forse il paragrafo “Gestione delle
emergenze” è quello più fitto, perché secondo noi è importantissimo.
Soprattutto su questo tema la normativa è veramente carente perché non
specifica addirittura le diverse tipologie di emergenza che, invece, sono note
da decenni anche dalle norme internazionali. Noi le abbiamo riprese, (…) noi le
abbiamo confermate, le abbiamo specificate meglio e a mio avviso, questo è un
parere personale, questo è uno dei paragrafi che sarà più utile proprio come
linea di indirizzo.
Adriano Paolo Bacchetta: Rispetto a tutto
quello che abbiamo detto, c’è una cosa importante che dico a tutti. Chiunque si
approccia a questo tema deve dimenticarsi di pensare di avere il software, l’app o
cose del genere per cui uno che non ne sa niente, che non è cultore della
materia, non ha esperienza della materia, comprando il software risolve i
problemi. (…)
Gli ambienti confinati sono ambienti
dove la professionalizzazione delle persone che progettano gli interventi e in
particolar modo gli interventi di soccorso deve essere adeguata. Quindi da un
punto di vista pratico invito ad acculturarsi, a leggere, studiare, venire ai
convegni, fare comunque tutto quello che è necessario per evitare di fare
documenti replica. E io ne vedo un quintale di roba fotocopiata, tagliuzzata,
presa da internet
e cose del genere. Quindi con sostanziale evidenza della mancanza totale di
cultura e di conoscenza. (…)
Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una intervista, realizzata nel 2014, al geometra Paolo Secchi.
Come abbiamo ricordato nel
precedente post, che riportava un’intervista all’ingegnere Adriano Paolo
Bacchetta, ai margini del 3° Convegno Nazionale sulle attività negli Spazi
Confinati, gli ambienti confinati e/o gli ambienti sospetti
d’inquinamento sono tra gli ambienti a maggior rischio di infortuni gravi e
mortali.
E l’edilizia è sicuramente
uno dei settori lavorativi in cui sono ancora molte le difficoltà nel riconoscere
la presenza di eventuali spazi confinati e nell’attuare tutte le misure richieste
dal Decreto legislativo 81/2008 e dal Decreto del Presidente della
Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 “Regolamento
recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi
operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, a norma
dell’articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.
81”.
Per questo motivo nell’ottobre
del 2014 ho realizzato, per il giornale online PuntoSicuro, un’intervista
al Geom. Paolo Secchi, relatore al
convegno del 22 ottobre 2014 “Applicazione
del D.P.R. 177/2011 a tre anni dalla sua entrata in vigore”, organizzato da
www.spazioconfinato.it,
in collaborazione con il Centro di Ricerca Interdipartimentale sulla Sicurezza
e Prevenzione dei Rischi di Modena (C.R.I.S.).
Il geometra, che si è occupato
lungamente di sicurezza come coordinatore in fase di progetto e in fase di
esecuzione, interveniva al convegno con una relazione proprio sull’applicazione del DPR 177 al settore delle
costruzioni.
Nelle prossime settimane continuerà
la pubblicazione di articoli e contributi sul tema.
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(…)
Quando si parla di spazi confinati raramente si fa riferimento al
comparto edile. Ci sono spazi confinati? Quali sono le principali
problematiche?
Paolo Secchi: Colgo l’occasione per essere in accordo sul fatto che
la percezione degli spazi confinati in
edilizia attualmente non c’è molto.
Probabilmente questa carenza è generata da un equivoco. Il DPR 177 richiama l’articolo 121 che riguarda la presenza di gas negli scavi. Quindi molto spesso in edilizia molte persone considerano che l’unico spazio confinato possa essere quello.
In realtà di spazi confinati,
soprattutto nel campo industriale, ne troviamo un numero sempre crescente. Se pensiamo a tutti i vani tecnici, dove vengono collocati gli impianti – ad esempio gli
impianti per trattamento aria, di refrigerazione, che possono funzionare a
glicole o ammoniaca – abbiamo a che fare con spazi che possono diventare
estremamente pericolosi. Quindi in edilizia abbiamo sicuramente una casistica
che dovremo tenere in considerazione per fare delle valutazioni, nel campo
della sicurezza, adeguate.
(…)
Nel suo intervento ha mostrato alcune slide relative a ponteggi. Un
ponteggio può diventare uno spazio confinato? E con quali condizioni?
P.S.: (…) Se ad un ponteggio applichiamo dei teli di protezione e
all’interno di questo ponteggio effettuiamo delle lavorazioni – di restauro, di
ripristino, … – utilizzando solventi ed eventualmente fiamme libere si
possono generare anche situazioni di pericolo.
La mia era una provocazione per
cercare di far intuire alle persone che seguivano il convegno che occorre una
maggiore sensibilità, ma occorre anche un metodo
diverso per identificare questi spazi.
Anche se il DPR 177 avesse fornito un elenco il più possibile esaustivo sicuramente il caso che ci si pone in avanti non sarebbe compreso nell’elenco, ci troveremmo di fronte a delle difficoltà interpretative. Quindi la mia provocazione è quella di voler richiamare l’attenzione su questi aspetti.
Lo stesso discorso vale per le coperture. Molto spesso si pensa a
spazi confinati come spazi piccoli, angusti. Ma non è assolutamente vero. Basti
immaginare i piani di copertura dove abbiamo impianti di raffreddamento, di
trattamento aria, che possono funzionare ad ammoniaca o avere dei gas abbastanza
invasivi e importanti dal punto di vista della sicurezza. Oppure possiamo avere
vasche di laminazione dove la
presenza degli inquinanti è abbastanza elevata.
Dobbiamo cercare di diffondere
questa nuova abitudine a valutare gli spazi confinati ai tecnici e ai datori di
lavoro che molto spesso ritengono di non essere coinvolti in questo tipo di
argomenti.
Presentiamo un caso operativo. Un coordinatore per la sicurezza in fase
di esecuzione scopre che i lavoratori stanno lavorando in uno spazio confinato
con rischi non valutati in relazione alla specificità dell’ambiente. Cosa deve
fare?
P.S.: Secondo me il coordinatore in fase di esecuzione ha due
possibilità.
O coinvolgere il coordinatore per
la sicurezza in fase di progetto e rielaborare una procedura per gestire questa
situazione.
O direttamente può andare –
questo glielo consente la normativa – ad integrare quello che è il Piano di
Sicurezza e Coordinamento con proprie disposizioni. In questo modo andrà ad
integrare e colmare una lacuna che non era stata considerata precedentemente.
Ci avviciniamo lentamente al referendum che dovrà decidere la sorte, abbastanza incerta, della riforma costituzionale.
Ricordo che nella riforma è prevista la modifica al Titolo V della seconda parte della Costituzione, all’interno di un disegno di legge costituzionale più complessivo finalizzato al superamento del bicameralismo perfetto. E tra le materie che potrebbero tornare allo Stato, come competenza normativa esclusiva, ci sono anche le competenze relative alla “tutela e sicurezza del lavoro”.
Con questo blog, in questi anni, non ho svolto una vera e propria inchiesta sul tema della riforma costituzionale, ma ho proposto vari approfondimenti per raccontare le opinioni, l’iter, i tempi, gli obiettivi. Ho cercato di migliorare l’informazione, specialmente, ma non solamente, con riferimento a quanto da me pubblicato sul quotidiano online PuntoSicuro.
E su PuntoSicuro è “andata in scena” nei giorni scorsi una mia intervista realizzata in ottobre ad Ambiente Lavoro a Bologna al dirigente della Regione Toscana Marco Masi.
Marco Masi, che partecipava come relatore all’incontro “Cambia la Costituzione: problemi e prospettive per la sicurezza sul lavoro”, ha una grande esperienza, dal punto di vista regionale, sui vantaggi e limiti del ruolo che le Regioni hanno avuto, anche in ambito normativo, in materia di sicurezza e salute.
Volevo conoscere – dopo le tante interviste fatte a rappresentanti del Ministero del Lavoro – non solo la sua opinione sull’eventuale ritorno alla competenza esclusiva dello Stato, ma anche – laddove l’esito del referendum fosse positivo – cosa cambierebbe in Italia nella tutela di lavoratori e lavoratrici.
E la sua risposta, malgrado alcune domande “provocatorie”, è chiara: a breve non cambierà molto perché comunque con la Riforma Sanitaria (Legge 23 dicembre 1978, n. 833) le Regioni si sono presi carico del ‘cittadino che lavora, e come tale è creditore di attenzione ed entra nella tutela del sistema sanitario’.
Tuttavia nessuno può comprendere oggi cosa cambierà invece a lungo termine. Dipende da quali norme future saranno varate e da quali saranno le intenzioni dei prossimi governi, perché, ad esempio, uno dei temi che potrebbe essere toccato – e non lo è oggi con la riforma – è quello delle competenze ispettive.
Qual è la sua opinione sul fatto che le Regioni potrebbero non avere più la competenza normativa in materia di salute e sicurezza?
Marco Masi: (…) “Il Titolo I del decreto 81 in realtà affronta i temi del confronto Stato-Regioni e consegna un sistema complessivo della prevenzione sul lavoro italiana. Siamo nel 2008. Nel 2001 entra la modifica costituzionale, che lei ha richiamato, e che dà alle Regioni normazione concorrente. Ma il decreto 81 è una norma che definisce con chiarezza quali sono gli istituti in cui questi due soggetti – e tutte le componenti sociali interessate al grande tema della prevenzione – possono trovare sintesi ed elaborare, attraverso linee guida o buone prassi, quelli che sono il concetto delle soft law, della normativa secondaria, per poter meglio applicare norme generali previste dall’81. Quindi un modo anche moderno di affrontare la normativa sul lavoro.
Spesso tuttavia la materia concorrente è stata considerata piuttosto antagonista, competitiva. Ma non ci può essere competizione tra istituzioni sui grandi temi sociali, come la sicurezza e salute sul lavoro. La materia concorrente permette alle regioni di applicare meglio le norme generali previste dal decreto 81. E a volte questo può non servire se la norma generale è fatta bene.
E quindi insisto, ne abbiamo discusso proprio oggi, l’81 contiene, per esempio nella Commissione consultiva permanente, il modo di rapportarsi tra le componenti: i ministeri, le parti sociali, le regioni e le province autonome”.
Certo che una buona collaborazione tra Stato e Regioni può dare ottimi risultati. Ma l’eventuale passaggio delle competenze normative in modo esclusivo allo Stato, non potrebbe rendere ancora più efficace il raggiungimento degli obiettivi e dei principi del decreto 81?
M.M.: “Uno dei principi che definisce il decreto 81 (…) indica che la salute e sicurezza non è del lavoro dipendente. Non è del lavoro dipendente nella grande o piccola impresa. La salute e sicurezza è dell’individuo che lavora, a prescindere dal contratto, a prescindere dalla differenza di genere. (…) Anche uno studente è lavoratore in un’attività di laboratorio, anche un volontario, nel prestare la sua importante opera, è un lavoratore e quindi un creditore di attenzione in termini di prevenzione salute e sicurezza. L’81 ha affermato questo principio sovrano. È un principio che deve essere un faro per orientare tutti noi verso una normativa efficace. Una normativa che segue l’evoluzione del mondo del lavoro,.. Ecco perché parlavo delle linee guida e le soft law. Queste le possono emanare le Regioni insieme al Ministero con la collaborazione delle componenti sociali e dell’Inail che gioca un ruolo fondamentale, anche per rendere effettivamente agibile il Sistema Informativo nazionale per la prevenzione”. (…)
Lei ha toccato il tema del sistema informativo nazionale, del SINP, che è uno dei più chiari esempi di grandi ritardi normativi in materia di sicurezza. Lei non crede che un riparto diverso delle competenze velocizzerebbe la normazione?
M.M.: “Il problema della tempistica è vero, è reale e concreto. Noi dobbiamo dare quanto più possibile risposte certe, chiare e soprattutto in tempi compatibili a un’evoluzione del mondo del lavoro sempre più frenetica. E non è indubbio che cicli produttivi che si segmentano, ricorso sempre più spinto all’esternalizzazione, l’introduzione di nuovi contratti di lavoro, impongono a tutto il sistema di dare risposte in tempi veloci. E quindi lei ha ragione.
Questo sistema, in effetti, ha determinato dei ritardi.
Vorrei però sottolineare che ha anche permesso di garantire un plurimo apporto di competenze specialistiche: medici del lavoro, ingegneri, biologi, chimici, tutte le figure professionali che hanno contribuito coralmente a identificare delle norme utili per il mondo del lavoro.
Non mi pare il momento di parlare di materia concorrente. Mi piace pensare che il Decreto Legislativo 81 sia e rimanga, ovviamente migliorabile, l’elemento di confronto nel titolo I tra i soggetti tutti. Non ci dimentichiamo che anche il mondo delle imprese, gli stessi lavoratori, con la figura fondamentale del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, possono apportare il loro contributo.
Facciamo un esempio su tutti. Mi piace ricorda l’esperienza tra Toscana ed Emilia Romagna che abbiamo avuto nella realizzazione dell’Alta Velocità/Alta Capacità tra Firenze e Bologna. Abbiamo adottato nuovi sistemi di prevenzione, abbiamo emanato linee guida. Grazie all’apporto delle imprese, grazie all’apporto dei lavoratori…”.
Secondo lei la possibilità di avere una prevenzione che tenga conto di specificità locali e regionali può rendere più efficace una strategia di prevenzione…
M.M.: “Lo ritengo l’elemento strategico. E questo elemento – voglio esser chiaro – c’era prima, quando la materia era in capo esclusivo al Ministero e c’è ora quando è concorrente.
Le Regioni devono riprendere il loro ruolo di prevenzione non disgiunto dalla prevenzione collettiva. Un lavoratore cittadino che si fa male, impatta sul sistema sanitario nazionale e regionale. Quindi la prevenzione di un lavoratore non è disgiunta dalla prevenzione di un cittadino (…)”.
Le ricordo tuttavia, a titolo esemplificativo, cosa ha fatto a livello normativo la Regione Toscana in materia di cadute dall’alto e di uso delle linee vita. È normale, è giusto che su aspetti così rilevanti si abbiano tra le Regioni differenze normative evidenti in materia di sicurezza? Che ci siano Regioni che considerino alcuni rischi così elevati da necessitare di una regolazione specifica e altre no?
M.M.: “Bella provocazione.
Innanzitutto diciamo che la Regione Toscana ha utilizzato una norma urbanistica, edilizia per rafforzare i principi previsti dall’81. Eravamo coscienti, ma non solo in Toscana, che l’edilizia era uno dei principali settori a rischio, se non il principale. E purtroppo la caduta dall’alto era la causa dei principali infortuni gravi e mortali nell’edilizia. Non abbiamo portato normativa in più o in meno. Abbiamo posto in essere, come dire, una prassi. Abbiamo chiesto che gli edifici nuovi, e solo quelli, fossero dotati di sistemi anticaduta. (…)
Non intaccavamo, e non dobbiamo farlo, i principi generali dell’81.
Per questo io dico che se l’81 rimane nella sua concezione, è già l’81 un ecosistema tra Stato Regioni con cui migliorare la normativa, renderla effettivamente più efficace e soprattutto individuare quale sono le azioni di prevenzione nei settori maggiormente a rischio”.
Concludiamo riprendendo qualche spunto dal convegno in cui era relatore. Cambierà qualcosa per gli operatori, per le aziende, laddove le competenze passassero in modo esclusivo allo Stato?
M.M.: La legge 833 (riforma sanitaria, ndr) c’è. Non si tratta di passare competenze allo Stato. La riforma costituzionale dice di togliere la concorrenza normativa, che comunque, insisto, è una normativa di dettaglio, che non può intaccare i principi della norma, in questo caso dell’81. Ci tengo a questa precisazione…
Le Regioni e le Province Autonome possono ugualmente e con efficacia attuare quelli che sono i principi dell’833: garantire azioni di prevenzione verso il cittadino lavoratore, piani mirati di prevenzione, analisi degli eventi infortunistici, analisi epidemiologiche, particolare attenzione alle malattie professionali, (…) . Nessuno impedisce alle Regioni e alle Province Autonome di continuare a fare il loro lavoro”.
Non c’è dubbio – come già raccontato in diversi post precedenti, sia in riferimento a un documento sindacale che ad un documento della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione(CIIP) – che il sistema formativo per migliorare la prevenzione di infortuni e malattie professionali nei luoghi di lavoro non sia esente da falle. Da carenze, da deviazioni, da non conformità, in alcuni casi, da truffe vere e proprie, che rovinano uno dei momenti più importanti per la gestione della salute e sicurezza aziendale.
Non bisogna poi dimenticare che la responsabilità di questi inefficaci percorsi formativi ricadono non solo su chi eroga la formazione, ma anche sulle aziende che volendo risparmiare sui costi della sicurezza non si preoccupano della qualità dei percorsi proposti per i propri lavoratori.
E ci sarebbe una gran necessità di poter controllare, di poter verificare la qualità e l’efficacia della formazione erogata nelle aziende in Italia. Servirebbe un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati.
Per approfondire queste problematiche ho realizzato per il giornale PuntoSicuro un’intervista a tre degli estensori del documento CIIP: Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).
Una lunga intervista divisa in tre parti.
Nel post precedente ho presentato la prima parte che si soffermava in particolare sul “mercato della sicurezza” in Italia e continuiamo oggi con la seconda parte che entra nel merito delle proposte del documento.
Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ad erogare formazione alla sicurezza.
Queste le proposte CIIP:
– individuazione di soggetti autorizzati “ex lege” solamente tra enti, istituzioni o strutture private che svolgono attività di formazione in modo istituzionale (Regioni/ASL, INAIL, Università, Scuole Superiori di Formazione, ecc.), dotati di specifica conoscenza e competenza nel settore;
– tutti gli altri soggetti che svolgono attività di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sia autonomamente che in collaborazione con soggetti legittimati, devono dimostrare/certificare la competenza (accreditamento regionale con certificazione competenze e/o sistema di gestione, secondo standard riconosciuti in Italia e negli altri Paesi);
– tutti i soggetti accreditati/certificati possono operare sull’intero territorio nazionale (riconoscimento reciproco accreditamenti regionali).
Un’altra proposta chiede di programmare un Piano Nazionale dei Controlli (per gli organismi di vigilanza ASL) mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati e la definizione di metodi per la verifica dell’efficacia della “funzione educativa” della formazione erogata.
Inoltre le proposte CIIP affrontano anche il tema dell’istituzione del libretto formativo individuale elettronico e l’efficacia della formazione e-learning.
Parliamo delle proposte, della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, in materia di formazione. Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ex lege ad erogare la formazione e la possibilità di certificazione/validazione di altri soggetti…
Norberto Canciani: Per legge, per una serie di percorsi legislativi degli anni passati, sono individuati, come soggetti autorizzati ad erogare la formazione, soggetti istituzionali quali le Regioni, le Asl, le Università, l’Inail, i Vigili del Fuoco, …
Oltre a questi soggetti istituzionali sono individuate anche le associazioni datoriali e sindacali. Per la verità in origine, già con riferimento al D.Lgs. 626/94, venivano individuati questi soggetti in quanto componenti di quelli che erano gli organismi che avevano la funzione specifica della formazione, gli organismi paritetici. Soggetti che, come individuati dalla norma di allora, erano costituiti attraverso la pariteticità dell’associazione datoriale e sindacale ed erano costituiti proprio per fare formazione con organizzazione, competenze e abilità adeguate.
Questo passaggio negli anni si è un po’ perso. Così invece di parlare di organismi paritetici si è cominciato a parlare di organismi paritetici e enti bilaterali, confondendo così ruoli anche diversi. Fino ad arrivare a consentire a soggetti datoriali e sindacali di poter erogare la formazione. Nessuno mette in discussione questa scelta, ma il vero è problema è che se questi soggetti non ne hanno la capacità succede quanto già raccontato (nella prima parte dell’intervista, con riferimento alle deleghe date per la formazione ad altri soggetti formativi più o meno abilitati e competenti, ndr).
La proposta CIIP dice: evitiamo di consentire a tutti di erogare formazione, a parte i soggetti istituzionali che lo fanno già per definizione e per competenze (vedi, ad esempio, le Università).
Questi sono gli unici legittimati: tutti gli altri soggetti che non hanno nella loro mission l’erogazione della formazione, per poterlo fare devono essere in qualche modo validati attraverso procedure. Le procedure attualmente vigenti sono essenzialmente le procedure dell’accreditamento regionale. Noi abbiamo proposto qualcosa di più: che si arrivi ad una certificazione che abbia anche una valenza internazionale.
E che abbia anche una valenza nazionale, perché ancora oggi l’accreditamento è regionale. Quindi un soggetto che è accreditato a svolgere formazione in una regione non può andare a farla nelle altre. O meglio, per svolgere formazione nelle altre regioni, deve farsi accreditare di volta in volta nelle diverse regioni.
Questo è un meccanismo molto farraginoso che porta a diverse distorsioni (vedi la prima parte dell’intervista, ndr).
Per cui è opportuno semplificare lasciando la legittimazione soltanto ai soggetti istituzionalmente legittimati e prevedendo una procedura di “autorizzazione” per i soggetti che vogliono erogare formazione, una autorizzazione che abbia una valenza più ampia, per lo meno sull’intero territorio nazionale…
Ci potrebbero essere variazioni riguardo al tema dell’accreditamento regionale con la probabile futura approvazione della riforma costituzionale che riporta le competenze in materia di sicurezza sul lavoro allo Stato?
Norberto Canciani: (…) In realtà la formazione professionale rimane di competenza regionale. Bisogna capire se ci sarà una ridefinizione della formazione in materia di sicurezza sul lavoro. È una formazione specifica e particolare che sfugge alla legislazione delle competenza regionale in materia di formazione professionale? Oppure no?
La complessità della questione è data dal fatto che noi parliamo di due piani di formazione diversi. Un conto è la formazione che la normativa prevede di base e specifica per tutti i lavoratori, un conto è la formazione professionale che deve essere erogata agli specialisti, pensiamo ad esempio ai corsi di formazione per gli RSPP. E’ chiaro che qui parliamo di un livello di formazione più elevata. Pensare che questo tipo di formazione sfugga al controllo regionale è al momento non così scontato.
E’ dunque possibile che permanga ancora una competenza regionale in tal senso anche a modifica legislativa avvenuta….
Giancarlo Bianchi: (…) Ricordo inoltre che a partire dalla Legge n. 4 del 14 gennaio 2013 e dal decreto legislativo 13/2013, (…)per la prima volta si parla di conoscenze, abilità e competenze professionali. E quindi si identifica con precisione, a seconda della professione, quali sono le differenze di conoscenze, abilità e competenze. Quindi ci sono strumenti, unificati a livello europeo, che per la prima volta permettono di fare una formazione (…) unificata a livello italiano e che può permettere (…) ai professionisti di andare nei 28 paesi dell’Unione Europea… Il processo è un processo molto articolato che esige diverse soluzioni di carattere legislativo generale, ma anche di applicazione puntuale e concreta delle due normative… (…)
In un’altra vostra proposta richiedete un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace”… Ci sono esperienze di controlli di questo tipo? Come avvengono questi controlli?
Norberto Canciani: (…) Come avviene? Per esperienza passata ci sono controlli che passano da momenti formali, ad esempio verificare la coincidenza della data in cui è stata erogata la formazione con l’effettività della formazione, attraverso controlli incrociati su badge di timbratura,… Poi vengono acquisiti i fascicoli formativi che ogni soggetto formatore deve avere, in cui deve esserci l’analisi dei bisogni formativi… Tutte cose peraltro scritti nell’Accordo Stato-Regioni… (…)
Dopo di che spesso si entra nel merito dell’efficacia della formazione andando a vedere i comportamenti reali di chi sta lavorando… E’ chiaro che si entra in un aspetto molto delicato. Ci possono certo essere a volte comportamenti incongruenti rispetto anche ad una formazione efficace, ma se la totalità dei lavoratori si comporta non coerentemente con la formazione erogata, questo è un problema diverso…
Su questi aspetti sono state fatte delle sperimentazioni, sono in corso di elaborazione dei modelli, per vedere, acquisire indicazioni sull’efficacia della formazione.
Negli ultimi tempi questi controlli degli organi di vigilanza aumentano, sicuramente in occasione degli incidenti. E, posso dire, per mia esperienza passata, che quando ci sono infortuni nella quasi totalità dei casi viene contestata tra le cause una carente, una mancata formazione. E pure in presenza di attestati…
(…)
Se l’efficacia formativa non è legata alla modalità formativa, ma alla qualità della formazione erogata, che strumenti ha il datore di lavoro per comprendere, conoscere questa qualità prima di scegliere che formazione erogare ai propri lavoratori? Quali controlli dovrebbero essere messi in atto per verificare l’efficacia della formazione?
Arnaldo Zaffanella: (…) Io ho avuto modo di vedere, essendo un centro convenzionato con strutture straniere per fare formazione, che in questi paesi, contrariamente a noi, l’elemento fondamentale è il controllo finale, l’esame di merito. Bisogna andare a vedere che cosa il lavoratore ha imparato. Si pensi che in molti centri di formazione stranieri addirittura viene allontanato il docente e l’esame viene fatto da una commissione indipendente. (…)
Questo è un elemento critico che si voleva sottolineare… (…)
Questo vale per l’e-learning e vale anche per gli altri modelli di formazione. Bisogna fare in modo tale di avere la certezza che questo addestramento (…) raggiunga l’obiettivo…
(…)
Arriviamo poi a parlare di crediti formativi…
Giancarlo Bianchi: Pavanello aveva messo in evidenza come il rilascio di crediti formativi privi di valore svilisse la formazione efficace.
E anche noi abbiamo ripreso un indirizzo condiviso nella CIIP con Pavanello e lo stiamo portando avanti. Lo portiamo avanti nell’ambito delle strutture formative che ci seguono rispettando i criteri legali relativi al rilascio di crediti. Quindi distinguiamo fra i corsi e la partecipazione a convegni: i convegni non possono essere visti come strumento normale di superamento di una formazione efficace di un professionista. Perché se no sviliamo il concetto di formazione. Un convegno prevalentemente è qualcosa in cui si dà una informazione, mentre un corso è invece qualcosa che porta ad un cambiamento comportamentale e di conoscenze.
Dopo aver presentato alcune criticità della formazione alla sicurezza in Italia, attraverso un documento di Sebastiano Calleri(Responsabile Salute e Sicurezza della Cgil), dopo aver raccolto le interessanti proposte della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione(CIIP), una associazione che raccoglie alcune tra le più rappresentative associazioni professionali e scientifiche in materia di salute e sicurezza, è venuto il momento di fare alcune riflessioni.
E interessanti riflessioni e analisi sono gli ingredienti di un’intervista – della durata quasi di un convegno (circa un’ora e trenta minuti) – che ho realizzato per il giornale PuntoSicuro a tre degli estensori del documento CIIP: Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).
L’intervista, inizia delineando quel “mercato e business della formazione” e affrontando quella carenza di attenzione ai “bisogni formativi” a cui la CIIP vuole porre urgente rimedio attraverso le sue proposte. Si sofferma anche sulle “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti” (estratto del documento CIIP).
– Perché in questi anni il mercato della formazione ha visto l’emergere anche di realtà carenti a livello di qualità ed efficacia?
– Chi sono i soggetti accreditati ad erogare la formazione? E perché si è diffusa l’abitudine della delega? Con che risultati?
– Cosa può servire per migliorare i controlli sulla formazione alla sicurezza?
– Ci sono le capacità, le competenze, le risorse, le linee guida per poter effettivamente vigilare sulla formazione?
– Si valutano correttamente i bisogni formativi?
– Ci sono norme tecniche che possono supportare le aziende, i formatori, i percorsi formativi?
L’intervista su YouTube:
Questa è una breve trascrizione parziale dell’intervista pubblicata e presentata su PuntoSicuro:
Con riferimento al documento prodotto il 10 dicembre dalla Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, affrontiamo il tema delle criticità della proposta formativa in Italia. Cerchiamo di comprendere la situazione attuale…
Giancarlo Bianchi : (…)Oggi l’80% dei problemi che nascono dagli incidenti o dagli infortuni dipendono da non corretti comportamenti degli operatori. Comportamenti che possono dipendere anche da carenze organizzative progettuali.
La formazione è lo strumento essenziale per cambiare i comportamenti. Tuttavia attualmente la formazione viene gestita prevalentemente per cambiare le conoscenze iniziali rispetto alle conoscenze finali, ma non nell’ottica di un cambiamento comportamentale. (…)
Affrontiamo più nel dettaglio il tema delle criticità, anche in riferimento alla normativa italiana e, in specifico, agli Accordi Stato-Regioni in materia di formazione…
Norberto Canciani: (…)Il problema è questi Accordi Stato-Regioni si sono verificati inefficaci per gli obiettivi per cui erano nati. Probabilmente questo eccesso di definizione – di normazione, direbbe qualcuno – ha portato a stravolgere il senso stesso e gli obiettivi. Cosa è successo?
Intanto probabilmente c’è una scorretta individuazione dei soggetti abilitati ad erogare la formazione. E’ stata fatta una individuazione solamente sulla base di criteri generali senza entrare nel merito delle competenze specifiche. Per fare un esempio, sono stati individuati come soggetti erogatori della formazione anche enti e soggetti che non sono nati per erogare formazione. Mi riferisco, ad esempio, ad alcune associazioni datoriali o sindacali che nascono con un obiettivo diverso, una mission diversa e che però per definizione, per legge, sono abilitati ad erogare formazione.
Cosa è successo dunque in questo periodo?
E’ successo che proprio per l’incapacità di alcuni di questi soggetti ad essere soggetti formatori si è assistito alla delega di funzioni. Per cui molti di questi soggetti che avevano l’autorizzazione per legge a fare formazione, non avendone le competenze, si sono avventurati in una serie di deleghe ad altri soggetti formativi più o meno abilitati. Addirittura, in alcuni casi, arrogandosi anche il diritto di abilitare altri soggetti formativi. Non dimentichiamo che in Italia i soggetti formatori o sono legittimati, autorizzati a monte dalla legge stessa (sono essenzialmente i soggetti istituzionali) o sono accreditati a livello regionale.
In questi anni è successo che molti soggetti che non erano né legittimati né accreditati, si sono avventurati nell’erogare formazione a tutti i livelli. Con le conseguenze del caso. Perché tra tanti soggetti anche competenti si sono annidati personaggi più o meno competenti, più o meno onesti e si è assistito ad un proliferare di attestati, di corsi. E anche di corsi malfatti, fatti da docenti non qualificati, fatti non seguendo i criteri stabiliti dalla norma e, specialmente, fatti senza tener conto dell’efficacia della formazione.
La situazione verificata al momento è abbastanza drammatica, perché la formazione è diventata un business, ma i risultati di questa formazione, in termini di prevenzione, non si vedono assolutamente. Per questo motivo come CIIP abbiamo definito, a monte, cosa vuol dire formazione, seguendo i canoni della norma… Ma non solo, facendo riferimento anche alle buone prassi relative alla formazione. E quindi abbiamo ritenuto, oltre a definire in un documento più corposo questi aspetti, di cercare di sollecitare i controlli e di presentare un istanza e le proposte che di cui più avanti parliamo…
Quali sono altre conseguenze di questa situazione della formazione in Italia?
Arnaldo Zaffanella: (…) Bisogna tener conto anche dei problemi che ha chi fa formazione seriamente, perché chi la fa seriamente si trova in concorrenza delle proposte molto molto veloci e molto poco costose, una sorta di discount della formazione. È chiaro che vendere attestati è qualcosa di diverso dal fare una formazione come si deve. Una formazione che, dobbiamo ricordarci, è di tipo specifico, operativo, comporta anche un addestramento. Non è semplicemente far vedere la normativa. (…)
Quanto diceva Norberto è legato al fatto che la normativa vigente è prevalentemente portata ad avere i crediti, ad avere l’attestato. Ma chi entra però nei contenuti della formazione? Probabilmente c’è qui un aspetto da mettere a fuoco…
Come misurare l’efficacia della formazione?
Si sa che ogni processo – ingegneristico, medico, …di qualsiasi tipo – ha bisogno di essere erogato, ma poi è necessario misurarne l’efficacia. Come la misuriamo? Con l’attestato? (…)
Cosa serve per migliorare i controlli sulla formazione alla sicurezza? Ci sono le capacità, le competenze, le risorse, le linee guida per poter effettivamente vigilare sulla formazione?
Norberto Canciani: (…) Che tipo di controlli chiediamo? Intanto che venga messo in atto un Piano Nazionale dei Controlli sulla formazione. Sono stati fatti Piani nazionali su alcune tipologie di controlli, in materia di sicurezza sul lavoro, e sarebbe opportuno che venga organizzato un piano nazionale sulla formazione. Quando si organizzano questi piani nazionali dei controlli vengono stabiliti delle procedure, dei protocolli operativi, …
E’ chiaro che il controllo sull’efficacia della formazione non è una cosa semplice. Proprio per questo come CIIP ci stiamo lavorando e abbiamo prodotto un documento. In sostanza si chiede che i controlli innanzitutto vengano fatti in maniera sistematica. Che vengano fatti non attenendosi solo all’acquisizione dei certificati, degli attestati, di cui abbiamo appena parlato. E chiediamo che i controlli siano fatti entrando nel merito dei progetti formativi organizzati dalle singole aziende, dai singoli enti formatori. Possibilmente facendo controlli anche presso gli enti formatori autorizzati, accreditati, certificati, … La terminologia varia perché noi nelle nostre proposte siamo un po’ più articolati, come vedremo dopo. La sostanza è: controlli che puntino non alla verifica dell’esistenza dell’attestato, ma ai contenuti e alle modalità con cui è stata erogata l’attività di formazione. E anche ai risultati.
La partita sui risultati e sull’efficacia è una partita molto complessa. Ma ci sono delle esperienze. Io ho lavorato presso l’Asl di Milano e, per un periodo ho anche coordinato l’attività di controllo. E ho seguito un progetto che doveva ridefinire dei metodi per andare a controllare i risultati della formazione. Ricordo sempre che la norma non dice che il datore di lavoro deve erogare un corso di formazione ai propri lavoratori, ma la norma dice che il datore di lavoro deve realizzare e garantire una formazione adeguata e sufficiente. La norma definisce cosa si intende per formazione. La formazione non è trasferire delle informazioni. E’ un processo educativo che quindi deve portare ad una modifica dei comportamenti. Se questo non avviene, la formazione non si è verificata, la formazione non è avvenuta e il datore di lavoro non ha ottemperato a quanto previsto dall’articolo 37 del decreto 81/2008.
Nella lettera e nell’intervista si parla di un “mercato della formazione” che rincorre il minor costo senza alcun riferimento a criteri di qualità ed efficacia… Non c’è anche una responsabilità delle aziende? Secondo voi in Italia ci si rende conto di quanto si potrebbe risparmiare facendo buona formazione?
Arnaldo Zaffanella: No, non ci si rende abbastanza conto di questo. Sul tema della formazione c’è un comportamento molto difforme e disomogeneo tra grandi imprese, piccole/medie imprese e professionisti. E qui si apre un dibattito molto ampio… Sicuramente la domanda di formazione è diversa. Qual è quella giusta? Dipende dal tipo di sensibilità, dalla tipologia del lavoro, … Noi non dobbiamo metterci a inventare il modello giusto.
Esistono a livello internazionale, ne ha accennato il presidente Giancarlo Bianchi, delle normative che stabiliscono come si fa formazione professionale, non solo nel campo della prevenzione. Formazione che è distinta dalla formazione che viene chiamata formale. E quando si parla di formazione professionale si parla di training, non di learning. Training vuol dire anche addestramento, vuol dire preparare le persone a operare in modo diverso.
Ci sono, approvate da anni, dall’UNI, norme che hanno recepito in Italia questo modo di procedere. Ad esempio la norma 29990:2011, che sostanzialmente dice come deve essere fatta la formazione e parla anche di organizzazione dei centri di formazione… Che sia interno o esterno, ci deve essere un’organizzazione, un’analisi dei fabbisogni formativi… (…)
Si parla anche della preparazione del docente, il profilo del docente. Come misurarlo? Sono cose già scritte, che sono da applicare… Chiaramente non c’è un modello solo, ma bisogna cominciare… Ultimamente tra l’altro, a livello internazionale, in campo normativo c’è un nuovo approccio. Non è che io sono a posto perché compilo un modulo e sono tutti “si” (…). Occorre valutare caso per caso cosa serve, soprattutto nel caso della formazione professionale perché è agente correttivo di situazioni critiche…” (…).
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