Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Alessandro Negrini e all’Ing. Serenella Corbetta del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.


Come raccontato in un precedente post, il lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, non è solo una conseguenza della pandemia e dell’emergenza COVID-19. Il modello organizzativo del lavoro a distanza è molto di più: è una nuova prospettiva, un “mutamento copernicano” con cui il mondo del lavoro deve confrontarsi per il presente e per il futuro. E non solo in riferimento alla scelta, o meno, di adottarlo, ma anche in relazione alle nuove strategie di prevenzione e alle corrette prassi di valutazione dei rischi di una realtà che la normativa attuale fatica ancora a riconoscere e gestire adeguatamente, almeno per quanto riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Per cercare di conoscere meglio questo mondo ho già segnalato il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI. E ho presentato – nel post “Covid e smart working 01: criticità e prospettive future” – una intervista ad alcuni dei suoi autori, gli ingegneri Gaetano Fede e Stefano Bergagnin.

Se in quella intervista mi sono soffermato sulle caratteristiche del lavoro agile e sulle carenze normative, nell’intervista che presento oggi- con due componenti del GTT “Smart working e lavori in solitudine”, gli ingegneri Alessandro Negrini e Serenella Corbetta – affronto alcuni aspetti più operativi relativi allo smart working.

Ricordo che l’intervista è stata realizzata e pubblicata per PuntoSicuro nell’articolo “Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”.  


Possiamo dare qualche consiglio alle aziende che si trovano a dover valutare i rischi dello smart working anche in relazione all’attuale contesto emergenziale?

Ing. Alessandro Negrini: Come molti strumenti innovativi legati all’organizzazione d’impresa, anche il lavoro agile richiede una solida pianificazione fondata su quelli che possiamo considerare i tre pilastri di qualsiasi processo di sviluppo destinato al successo: una comunicazione efficace, una formazione graduale (quanto continua nel tempo) e l’accesso a nuove tecnologie scalabili con cui poter prendere confidenza via via che si procede lungo la curva d’apprendimento.

Il primo consiglio, quindi, è di agire in modo ponderato nonostante l’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria: lo smart working impone di definire chiaramente a priori sia gli obiettivi che le risorse destinate ad alimentare quello che sarà un cambiamento strutturale, importante e – soprattutto – articolato nel tempo. Questo per non confondere la flessibilità con l’improvvisazione.

Quali sono i rischi più sottovalutati o meno conosciuti nel lavoro a distanza e nello smart working in particolare?

Ing. Alessandro Negrini: Parlando di sicurezza occupazionale in genere, i rischi psicosociali sono spesso trattati alla stregua di una tematica di secondo piano: forse perché è complicato parlare in modo oggettivo di questioni spesso legate alla sfera emotiva, personale. La remotizzazione del lavoro, tuttavia, accentua molte di queste criticità e ci pone davanti alla necessità di affrontarle in modo aperto proprio attraverso la comunicazione e la formazione.

Più nello specifico, una valida gestione dei rischi psicosociali dovrebbe poter stabilire precisi confini tra “pubblico” e “privato” sia in termini di orari che di strumenti di comunicazione anche e soprattutto in funzione delle specifiche necessità individuali: ciò equivale a riconoscere – innanzitutto – che, se anche lo smart working impone un ampio ricorso alla digitalizzazione, questo non implica necessariamente l’estraniamento, l’isolamento o la frustrazione. Si può lavorare (e si deve) in modo agile favorendo un’interazione sociale più ricca ed equilibrata che affianchi il principio d’inclusione a quello della creazione di un mero valore economico.

Certo è che il primo radicale cambiamento di prospettiva (un mutamento copernicano, in un certo senso) prescinde dalle scelte tecnologiche e si fonda, anzi, sulle persone stesse: sullo svecchiamento di una mentalità aziendale che, troppo spesso, considera lo stress (nelle sue varie espressioni) come una componente strutturale dell’attività lavorativa in sé. In questo dobbiamo riconoscere che molti dei problemi associati al lavoro agile (parliamo, fra l’altro, di tecnostress, di burnout, di ansia da controllo/ micro-management) sono gli stessi punti dolenti che, mal gestiti, portano una parte delle aziende ad uscire dal mercato perché insistono tout court nel rifiutare nuovi approcci alla gestione d’impresa sulla base di un equivoco di fondo: la convinzione che un’attività lavorativa bilanciata e “a misura d’uomo” costituisca un’utopia, al pari di un modello organizzativo (come lo smart working) focalizzato sulla qualità del risultato anziché su logore metriche di stampo quantitativo.

Nelle linee di indirizzo si parla di “boundary”, di confine tra spazio lavorativo e spazio domestico. Quali sono i problemi connessi alla gestione degli spazi lavorativi negli ambienti privati e nelle abitazioni?

Ing. Alessandro Negrini: : Nel momento in cui l’impresa diviene “liquida“, i confini fisici dello spazio lavorativo tradizionale si fanno indistinti e, soprattutto, non consentono più di ragionare secondo i vecchi criteri che permettevano di definire un’attribuzione diretta di responsabilità (es. incidente in sede o in itinere, vigilanza di terzi o autonoma ecc.) oltre a stabilire un’implicita compartimentazione tra sfera lavorativa e dimensione privata (fisicamente collocate in luoghi diversi).

Il lavoro agile mette in discussione questi stessi confini e, al contempo, impone di concordarne di nuovi con l’impresa, offrendo – a mio avviso – la preziosa opportunità di superare la standardizzazione tipica dei modelli tradizionali, per focalizzarsi finalmente sugli elementi che davvero possono favorire il benessere individuale dei lavoratori in base alle loro specifiche esigenze di vita.

La gestione dei rischi che interessano i lavoratori agili assume, d’altronde, un’ottica di ampio respiro improntata ad una diversa concezione di welfare, tenendo in conto che la frequente sovrapposizione tra ambiente privato e ambiente di lavoro induce a trasferire le abitudini personali (salutari e non) anche al contesto professionale. Questa tendenza impone la necessità di individuare le fonti di rischio per la salute psico-fisica dei lavoratori secondo una prospettiva a lungo termine e, a mio parere, con un approccio che definirei “olistico” cioè teso a superare la logica dei “compartimenti stagni” menzionata poco fa.

In questo, stimo di rilievo gli esperimenti promossi negli scorsi mesi da alcune imprese che hanno varato programmi di miglioramento della salute aziendale volti a garantire ai propri dipendenti in smart working tutta una serie di iniziative (es. formazione nutrizionale e sugli effetti nocivi del fumo, attività fisica ed educazione posturale on-line ecc.) che ne migliorassero lo stile di vita nonostante la nuova sfida costituita dalla remotizzazione emergenziale. Le implicazioni anche a livello di welfare sociale (es. il contributo alla diffusione di una cultura della salute, l’opportunità di un invecchiamento attivo ecc.) sono evidenti, quanto interessanti.

Come affrontare la valutazione dei rischi nel lavoro agile? Come operare una valutazione in “luoghi di lavoro e in condizioni non controllabili e non monitorabili” direttamente?

Ing. Serenella Corbetta: Ai sensi del D.Lgs. 81/2008, il Datore di lavoro è tenuto alla verifica della conformità dell’ambiente di lavoro ma per quanto concerne i lavoratori agili e la loro prestazione di lavoro “anywhere”, appare evidente la quasi impossibilità di verificare lo stato di tutti i luoghi di lavoro privati in cui operano i lavoratori agili o i luoghi all’aperto.

E’ pertanto utile ricorrere a strumenti di autocontrollo con ausilio di check list compilate dal lavoratore, che deve essere evidentemente reso partecipe e consapevole della valutazione.

La check list deve essere di facile comprensione identificando in primis il luogo prevalente dello svolgimento dell’attività e declinando poi i potenziali rischi da analizzare, contribuendo così ad innalzare il grado di consapevolezza del lavoratore: indicativamente le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, degli spazi di lavoro, degli arredi, del rischio elettrico, incendio , dei fattori organizzativi , di conciliazione spazi vita lavoro, del lavoro in solitario, delle modalità organizzative.

Questa check list sarà poi utile a definire l’informativa – richiesta sempre dall’art. 22 della L. 81/2017- ai lavoratori stessi sui rischi generali e specifici dell’attività lavorativa in modalità agile.

Nella prima parte dell’intervista abbiamo accennato alla riduzione degli infortuni in itinere, ma ci sono esempi di infortuni durante le attività di smartworking?

Ing. Serenella Corbetta: Nel settembre scorso, l’INAIL è stata sollecitata da una richiesta di indennizzo per una lavoratrice caduta dalle scale, mentre effettuava una telefonata di lavoro e svolgeva la sua attività in modalità agile. Alcuni chiarimenti sull’infortunio in smartworking si ricavano dalla circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017, dove è precisato che il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio proprio dell’attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni del profilo professionale del lavoratore.

E’ necessario ricordare che l’art. 22 della Legge 81/2017- attuale normativa sul lavoro agile – prevede espressamente che il datore di lavoro garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori che svolgono l’attività in modalità agile.

Anche in questo caso riteniamo importante, da un lato una check list redatta secondo i suggerimenti che abbiamo prima elencato e dall’altro disciplinare nell’accordo le modalità e i luoghi dove il lavoratore potrà svolgere l’attività lavorativa, con una adeguata e dettagliata informativa sui rischi.

Diciamo qualcosa anche sullo stress lavoro correlato nello smart working. Spesso si è parla di tecnostress e di diritto alla disconnessione. Sono temi che avete affrontato anche nelle linee di indirizzo?

Ing. Serenella Corbetta: Certo, il documento da ampio spazio al diritto della disconnessione, ovvero “il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psico- fisiche”.

Il lavoratore agile è particolarmente esposto all’intensificazione dei ritmi (iper connessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero) all’isolamento e alla connotazione labile dei confini tra spazi/tempi lavorativi e non lavorativi, variabili in parte compensati dall’autonomia nella gestione del tempo.

È il Datore di lavoro che deve evitare che il lavoratore agile, che svolge la propria attività lavorativa da remoto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici, sia sottoposto a stress da eccesso di lavoro o tecno stress disciplinando lo speculare “dovere di disconnessione” nel quadro della nuova organizzazione del lavoro.

Veniamo, infine, a un altro importante argomento trattato nelle linee di indirizzo: la formazione. Che tipo di formazione necessita per uno smart worker?

Ing. Serenella Corbetta: La formazione è certamente un elemento cardine per il miglioramento della consapevolezza dei rischi dello smart worker e deve essere finalizzata ad un cambiamento effettivo degli atteggiamenti e dei comportamenti dei lavoratori che devono acquisire la consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei contesti in cui lavorano. La formazione è l’unico strumento a disposizione delle aziende per tutelare i lavoratori agili aumentando le loro conoscenze e competenze in merito alla sicurezza in ambienti completamente diversi dal tradizionale ufficio aziendale ed è fondamentale per l’azienda che non può garantire il continuo monitoraggio dei luoghi di lavoro.

Ricordiamo che nell’informativa INAIL sullo smart workingil lavoratore è tenuto ad adottare un comportamento coscienzioso e prudente, escludendo luoghi che lo esporrebbero a rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici della propria attività svolta in luoghi chiusi”.

La prestazione all’aperto comporta rischi di cui il lavoratore potrebbe non avere la percezione: rischio furto, rapina, aggressione, per citarne alcuni di cui il lavoratore deve essere conscio nella scelta del luogo dove operare la propria prestazione.

Il dipendente ha l’obbligo di osservare le direttive aziendale e collaborare all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte dal Datore di Lavoro utilizzando gli strumenti tecnologici in sua dotazione, in conformità alle policy aziendali, per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali (art. 22 comma 2 lg 81/2017). La violazione degli obblighi di collaborazione, oltre alla rilevanza disciplinare, potrebbe determinare una limitazione di responsabilità in capo al datore di lavoro.

È pertanto implicito nel disposto normativo l’obiettivo di rendere consapevoli e partecipi i lavoratori all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte e solo un valido percorso formativo ad hoc, può permettere il raggiungimento dell’obiettivo.

Parliamo di una riprogettazione del processo formativo dello smart worker, dando certamente spazio alla formazione sui rischi tradizionali, ma pensando anche a percorsi di autoformazione guidati dal Rspp o da formatori qualificati, che declinino diversi momenti di autovalutazione delle proprie condizioni lavorative anche tramite interviste e somministrazioni di check list, training on the job o mentoring.

È necessario poi una grande attenzione ai nuovi contenuti di digital divide, diritto al distacco, problem solving e capacità di gestire il cambiamento. Riteniamo che l’aggiornamento formativo dello smart worker, partendo dal percorso tracciato dall’Accordo Stato Regione del 21/12/2011 che prevede 6 ore nel quinquennio, debba essere declinato con un monte ore annuale, esplicitato nell’accordo individuale con il lavoratore che diviene parte attiva del processo stesso con lavori a progetto che stimolino la capacità di acquisire competenze, riconoscere fonti attendibili, identificare i propri indicatori di perfomance.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Intervista di Tiziano Menduto

Spazi confinati 01: le criticità e la definizione mancante

Una breve raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una prima intervista, realizzata nel 2013, ad Adriano Paolo Bacchetta, coordinatore di spazioconfinato.it.

Non c’è dubbio che gli ambienti confinati e/o gli ambienti sospetti d’inquinamento si siano mostrati in questi tra gli ambienti a maggior rischio di infortuni gravi e mortali.

È dunque necessario promuovere e far conoscere prassi e materiali di prevenzione, ma è bene anche riflettere sulle criticità, sulle difficoltà operative, sulla valutazione dei rischi, sulla pianificazione delle emergenze e sulle carenze normative con particolare riferimento al Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, a norma dell’articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.

Per questo motivo ho realizzato e pubblicato negli anni, sul giornale online PuntoSicuro, diverse presentazioni di documenti, diversi approfondimenti e normativi e varie interviste che hanno avuto la funzione di porre domande e fornire risposte utili agli operatori, ai lavoratori e alle aziende, sulla sicurezza negli spazi confinati.

In questa e in altre puntate del blog ho intenzione di riportare un po’ di questo materiale per trasformare tutto questo lavoro in una sorta di reportage e inchiesta sulle criticità da affrontare per migliorare la prevenzione in questi ambienti di cui, ad oggi, è ancora difficile concordare una definizione chiara ed esaustiva.

Iniziamo questo viaggio con una intervista pubblicata il 29 ottobre 2013, nell’articolo “Spazi confinati: chiarimenti e criticità del DPR 177”, che raccoglie le indicazioni di uno dei massimi esperti in Italia della sicurezza negli spazi confinati, Adriano Paolo Bacchetta, ai margini del 3° Convegno Nazionale sulle attività negli Spazi Confinati – organizzato da spazioconfinato.it in collaborazione con il C.R.I.S.  e la Fondazione Organismo di ricerca GTecnology di Modena.

Riprendiamo dall’intervista audio una parziale sbobinatura rimandando i lettori del blog alla visualizzazione dell’articolo integrale e all’ascolto dell’intera intervista audio.

Nelle prossime settimane pubblicherò altri materiali anche con riferimento alle più recenti novità in materia. Lo stesso Bacchetta ha recentemente lavorato con il Consiglio Nazionale Ingegneri alla stesura delle “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati o a rischio di inquinamento”, che presenterò nei prossimi giorni.


Esiste una definizione univoca relativa agli spazi confinati?

Adriano Paolo Bacchetta: Cominciamo a dire che il termine “ambiente confinato” è un termine che oggi si presta a una non corretta interpretazione perché se noi andiamo a ricercare “ambiente confinato” su internet troviamo le problematiche dell’indoor air quality. Nel senso che in definitiva nell’accezione comune se associato a sospetto d’inquinamento viene fuori il decreto 177/2011, ma passando i primi due o tre punti che possiamo trovare sul motore di ricerca, cominciamo a vedere che l’ambiente confinato è relativo ai problemi del sistema di ventilazione, problema della legionella, la sindrome dell’edificio malato… E ci sono fior di documenti di organismi statali che parlano proprio di qualità dell’aria nell’ambiente confinato. Allora la domanda è: come può essere che lo stesso termine di “ambiente confinato” possa essere utilizzato per un ambiente che ha le peculiarità di un confined spaces o anche di qualcosa che rientra nella 177 e contestualmente, con la stessa terminologia, altri enti, come ARPA o altre organizzazioni comunque statali, chiamano invece una stanza dove c’è un impianto di ventilazione. Confined spaces, spazi chiusi?… Ad esempio nella terminologia del 272[1], quindi fondamentalmente della 626 o dell’81 navale, si parla di spazi chiusi della nave, quindi le stive e ambienti di questo tipo… Se andiamo a vedere la UNI EN 529, che poi è quella che tiene conto dei dispositivi di protezione respiratoria, c’è un’altra modalità ancora di chiamare questi ambienti. Si parla di ambienti circoscritti. Già partendo da lì, si ha l’indicazione che da noi c’è confusione…

Con “da noi” intende che da qualche parte ce n’è di meno…

APB: Il concetto è che se uno parla di confined spaces a livello internazionale quelli sono e sono chiari. Dopo di che, per fare una esemplificazione, a livello nazionale noi parliamo di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui al DPR 177. Le stesse OSHA[2] hanno cinque definizioni diverse di confined spaces a seconda che sia edilizia, industriale, agricoltura, navi o porti. (…) E lasciamo perdere l’NFPA[3], perché (…)anche le NFPA hanno altre modalità per identificare questi ambienti. Ci sarà un motivo per cui qualcuno ha perso tempo per definire in cinque modi – simili, ma con peculiarità differenti – l’ambiente confinato a seconda di quale tipologia di ambiente è. Ci deve essere un motivo e il motivo è relativo al fatto che non è possibile applicare gli articoli 66, 121 (D.Lgs. 81/2008, ndr) e l’articolo 3 dell’allegato IV a tutto il mondo. Ci sono peculiarità diverse che dovrebbero essere tenute in considerazione…

Cambierà qualcosa in Italia? Miglioreranno le definizioni e le normative?

APB: (…)Io amo citare (…) Neil McManus[4], che tra l’altro è stato in audio conferenza ieri al mio terzo convegno nazionale. Lui, quando ad un certo punto, è stato chiamato dall’ILO[5] a parlare degli ambienti confinati, dei confined spaces, ha detto una cosa lapidaria ma che è di una chiarezza cristallina: “qualsiasi ambiente dove una persona lavora può diventare uno spazio confinato”. Quindi in realtà questa abitudine italica di caratterizzare – quanto è lungo, quanto è largo, quanto è profondo (…) – deve “uscire”. I concetti da noi sono quelli che, ad esempio, portano a fare la valutazione del rischio dimenticando un fattore di rischio che è fondamentale che nella normativa americana che definisce il cosiddetto IDLH, ovverossia la condizione di pericolo grave o immediato per la salute e sicurezza del lavoratore. E al di là del fatto che ci sia presente una sostanza chimica o meno, al di là del fatto che ci siano delle condizioni di rischio diverso, la terza condizione prevista nei IDLH è l’autosalvamento. Se una persona non è in grado in particolari condizioni di essere capace con le proprie forze di poter uscire o poter risolvere una situazione pericolosa.  Su questa condizione dell’IDLH bisogna ragionare. E questo non fa parte della nostra cultura… (…)

No, il problema non è solo il TLV/TWA[6] è l’IDLH, perché se il TLV/TWA è anche rispettato ma se ad un certo punto, come abbiamo sentito in alcuni interventi, vai a fare l’analisi, scopri che la persona che sta facendo quel ripristino con un solvente (…) è abbondantemente oltre all’IDLH, cioè a quella concentrazione tale per cui si genera una situazione di pericolo o di rischio immediato per la salute e sicurezza, addirittura la vita, del lavoratore…(…)

Tuttavia l’IDLH alcuni lo conoscono, altri non sanno cos’è… (…)

Tutta la norma americana si basa su questo, non va a vedere quanto è lungo, quanto è largo. Dice, con alcune condizioni specifiche per quanto riguarda l’accessibilità e la presenza di rischi, hai una condizione IDLH? Loro (…), ad esempio, dicono “ambiente confinato con il permesso d’ingresso o senza?”, se sei nella condizione di richiedere, di essere un permitted required confined spaces, a questo punto te lo modulo in tre classi: A, B e C. A è IDLH, B è un grado severo ma non così rilevante, C è un grado inferiore… (…)

Quest’idea è di scalare i livelli di rischio, di scalare le attività necessarie in funzione dell’effettivo rischio.

L’applicazione pedissequa del decreto 177 porta la gente fondamentalmente a fare tutto anche quando c’è un livello di rischio molto basso. E tutto questo è spesso utilizzato per dire “Devo fare tutta questa roba qui, per una roba così? Allora non faccio niente”. Chiedere tutte queste cose a fronte di rischi anche limitati o gestibili in maniera diversa e non avere questa scalabilità del rischio con obblighi conseguenti, pone le aziende nella condizione o dà il là per (…) non fare niente.

Dunque cosa dovrebbe cambiare?

APB: [Bisognerebbe] limitare l’applicazione o l’orientamento legislativo a dare i principi derivanti dalla Costituzione: tutela del lavoro, tutela dei lavoratori, … Poi su alcuni argomenti limitarsi a sollecitare in maniera puntuale l’applicazione di norme tecniche che sono molto più dinamiche, che sono condivise, che fanno parte comunque dell’evoluzione e che sono facilmente aggiornabili rispetto all’esperienza.

La 177 così è e ce la terremo per i prossimi 10 anni. Esattamente nello stesso modo. Ti esce la circolare del Ministero che spiega il subappalto? È una circolare: che valenza giuridica ha un domani? Se qualcuno ha un problema e va in giudizio… Il giudice applicherà la legge o andrà a vedere anche le eventuali interpretazioni e i parere dei vari soggetti? (…)

Credo che su alcune tematiche come questa andrebbe veramente fatto questo: uno sforzo per capire cosa c’è a livello internazionale,  a livello di evoluzione. Perché gli americani sono 40 anni che sono dietro alle norme Osha…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Spazi confinati: chiarimenti e criticità del DPR 177″…

Per altri approfondimenti rimandiamo anche al post “Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011”.

Intervista di Tiziano Menduto



[1] Decreto Legislativo n.272 del 27 luglio 1999 – Adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori nell’espletamento di operazioni e servizi portuali, nonché di operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi in ambito portuale, a norma della legge 31 dicembre 1998, n. 485, ndr

[2] Occupational Safety and Health Administration (USA), ndr

[3] National Fire Protection Association

[4] CIH, ROH, CSP, NorthWest Occupational Health & Safety North Vancouver, British Columbia, Canada

[5] International Labour Organization

[6] Threshold Limit Value (TLV)-Time Weighted Average (TWA): Il TLV rappresenta il valore limite di soglia, le concentrazioni sotto le quali la maggior parte dei lavoratori può rimanere esposta senza alcun effetto negativo per la salute. I TLV/TWA sono relativi al valore medio ponderato nel tempo. La durata di esposizione media, riportata negli elenchi dei limiti di esposizione professionale, è pari, di norma, a un orario lavorativo di otto ore al giorno.

Lo stress dimenticato: breve inchiesta attraverso le carenze della valutazione del rischio stress lavoro correlato

Parlare del rischio stress è come parlare di un illustre sconosciuto. Tutti lo conoscono, ne discutono, tutti concordano sulla sua onnipresenza nel mondo del lavoro. Ma poi molte aziende evitano la valutazione o ne sfiorano soltanto i rischi con contromisure all’acqua di rose, convinti che in realtà lo stress sia qualcosa di altri, sia un “clima aziendale” da cambiare solo con una finestra aperta.

Il problema è che lo stress correlato all’attività lavorativo è un reale pericolo per i lavoratori e per l’azienda.

Per l’azienda è come un tarlo che rode da dentro. Non è solo la causa di assenteismo/malattia, è anche un forte freno alla produttività, specialmente se gonfiata da una faticosa rincorsa alla produttività dei competitors. Un freno che, senza prevenzione, prima o poi si farà sentire e non sarà più disinseribile senza grandi e dolorosi cambiamenti.

E per il lavoratore il rischio stress è un cattivo compagno che – in condizioni snervanti dal punto di vista organizzativo e/o relazionale – danneggia il fisico e la psiche. A volte lo stress si insinua nel lavoratore come una sconfitta da nascondere, una battaglia persa.

In un’azienda in cui la valutazione non c’è o le misure di prevenzione sono solo apparenti, questo tarlo si rinforza diffondendosi sempre più. Diventa sempre più un modus vivendi. E quando una malattia non può più essere riconosciuta perché vissuta come normalità, non c’è più niente da fare.

Proprio per alzare l’attenzione sulla falsa prevenzione dello stress nel mondo del lavoro, ho deciso di dedicare un po’ di spazio di questo blog a questo tema. Magari parlando di valutazioni da fare o fatte male, di indagini della magistratura, delle conseguenze reali su lavoratori e aziende e delle ricerche che hanno messo in questi anni, dopo che il D.Lgs. 81/2008 ha aumentato l’attenzione sui rischi psicosociali nel mondo del lavoro, il “dito nella piaga”.

La prima ricerca di cui vorrei parlare è un’indagine condotta dall’Associazione Bruno Trentin in stretta collaborazione con le organizzazioni sindacali e promossa dalla CGIL Nazionale e dalla FIOM CGIL – con il finanziamento del FAPI (Fondo Formazione Piccole e Medie Imprese) – per comprendere come è affrontato il rischio stress lavoro correlato nelle aziende metalmeccaniche. I risultati dell’indagine, raccolti nel volume “Il rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico” sono stati presentati il 31 marzo 2015 a Roma durante la giornata di studio e confronto dal titolo “ Rischi psicosociali in Italia ed in Europa: quali percorsi per la tutela dei lavoratori?”.

Per comprendere i risultati di questa interessante ricerca e avere un quadro realistico di come si affronta lo stress lavorativo nelle aziende del comparto metalmeccanico, ho realizzato un intervista – pubblicata sul quotidiano online PuntoSicuro del 9 giugno 2015 – al ricercatore Daniele Di Nunzio (Associazione Bruno Trentin – IRES – Istituto di Ricerche Economiche e Sociali– Osservatorio Salute e Sicurezza).

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto

 

 


 

 

(…)

 

Partiamo dalla storia di questa ricerca sul rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico. Da quali esigenze e problematiche è nata? Chi ha coinvolto?

Daniele Di Nunzio: Negli ultimi dieci anni le leggi e gli accordi tra le parti sociali hanno rafforzato gli obblighi per la tutela della salute dei lavoratori dando sempre maggiore importanza all’integrità della salute psico-fisica e, di conseguenza, alla prevenzione dei rischi psicosociali. In particolare, il decreto legislativo 81/2008 impone a tutte le imprese l’obbligo di effettuare la valutazione del rischio stress correlato al lavoro, secondo quanto previsto dalle indicazioni della Commissione consultiva permanente emanate alla fine del 2010.

L’Associazione Bruno Trentin, in collaborazione con la CGIL nazionale e la FIOM CGIL, con un finanziamento del Fapi, ha condotto una ricerca per capire lo stato della valutazione del rischio stress: se è effettuata, come è effettuata, quali sono i risultati.

La ricerca è stata condotta nelle aziende metalmeccaniche, ascoltando il parere dei Rappresentanti dei Lavoratori per Sicurezza, attraverso un questionario.

Perché ha riguardato in particolare il settore metalmeccanico? Quanto è presente in questo settore il rischio stress lavoro correlato?

DDN: Nel settore industriale i rischi per la salute dei lavoratori sono molti. I  rischi più noti sono quelli di tipo fisico, come i danni muscolo-scheletrici, o di tipo chimico, così come il rischio di subire un incidente.  Però esistono anche dei rischi che sono propri dell’organizzazione del lavoro, molto diffusi, meno visibili, rispetto ai quali l’attenzione è minore. I fattori che mettono una forte pressione sul lavoratore sono tanti, come i ritmi serrati, la catena di montaggio, il lavoro ripetitivo, i turni e la tendenza alla produzione continua. Questi fattori possono comportare dei danni alla salute psicologica e anche un maggiore rischio di incidenti, quindi mettono in pericolo la salute del singolo ma anche quella di una comunità di lavoratori e lavoratrici.

Veniamo ai risultati partendo innanzitutto dai ritardi delle aziende nel valutare i rischi stress lavoro correlati. Qual è la situazione nel comparto metalmeccanico? In quante aziende la valutazione è stata effettivamente fatta?

DDN: La ricerca mostra l’esistenza di numerose difficoltà per la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Le criticità maggiori e più diffuse sono: il fatto che la valutazione non viene effettuata, le mancanze nell’applicazione delle norme, lo scarso coinvolgimento degli Rls, la scarsa efficacia nell’individuazione dei rischi, la scarsa capacità di programmare delle adeguate misure di intervento per migliorare le condizioni di lavoro.

Dei 185 casi analizzati, solo in 59 la valutazione è stata conclusa al momento della rilevazione. Dall’analisi di questi 59 casi sappiamo che solo in 8 aziende sono stati evidenziati dei rischi “medi” o “alti” dall’analisi degli eventi sentinella (ossia fattori quali l’indice infortunistico o l’assenza per malattia). In 22 casi i fattori di contesto o contenuto (come l’ambiente di lavoro, l’orario e i turni) hanno indicato un rischio “medio” o “alto”. Solo in 14 casi è stata indicata la necessità di misure di intervento per contrastare il rischio stress lavoro-correlato e migliorare le condizioni di lavoro.

Dunque, in un contesto con così tanti pericoli, come quello metalmeccanico, nella maggioranza dei casi la valutazione dei rischi non è riuscita a fare emergere i problemi reali per la salute psicologica dei lavoratori. E’ dunque utile fermarsi a riflettere su qual è il funzionamento del sistema di gestione dei rischi e della valutazione dei rischi, per comprenderne le criticità e migliorarne l’efficacia.

Se vogliamo approfondire l’analisi, i dati della ricerca ci mostrano che a tre anni dall’emanazione delle indicazioni della Commissione Consultiva ancora un’azienda su tre non ha iniziato a valutare il rischio stress lavoro-correlato secondo quanto previsto dalla nuova regolamentazione. Se consideriamo un periodo di tempo più lungo, un’azienda su cinque non ha mai svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato a partire almeno dal 2008, per cui numerosi lavoratori sono stati esclusi dalla prevenzione obbligatoria su questo rischio.

Che differenza c’è nei dati in relazione alla grandezza delle aziende?

DDN: Nelle piccole aziende sono molte le difficoltà per la tutela della salute dei lavoratori, tra cui: le difficoltà economiche che ostacolano la messa in atto di interventi preventivi e migliorativi delle condizioni di lavoro, la minore presenza di figure specializzate sui temi della salute e sicurezza, il fatto che le aziende più piccole lavorano più spesso in appalto o comunque sono più facilmente in balia del mercato e delle commesse esterne, una minore opportunità di  programmazione a lungo termine del lavoro.

Però dalla ricerca emerge un dato interessante: per quanto riguarda la valutazione specifica del rischio stress lavoro-correlato, il coinvolgimento degli Rls è avvenuto in misura maggiore nelle aziende più piccole (con meno di 50 addetti). In ipotesi, nei contesti più piccoli gli Rls hanno un rapporto più diretto con la dirigenza e possono assumere un ruolo più operativo mentre nei contesti più grandi si impone uno stile più tecnocratico e formale che ostacola la partecipazione.

La ricerca ha coinvolto in particolare i Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza delle varie aziende… Qual è il livello di coinvolgimento riscontrato, laddove la valutazione del rischio è stata fatta? In che percentuale sono stati formati sul rischio stress?

DDN: Il sindacato ha un ruolo fondamentale nel sistema di gestione dei rischi. La ricerca mostra che quando gli Rls sono coinvolti nella gestione del rischio stress emergono meglio i problemi e le soluzioni. È scarsa anche l’attenzione verso la percezione “soggettiva” dei lavoratori e questo dimostra come ci sia ancora troppa confusione rispetto ai temi della salute psicologica. I lavoratori dovrebbero essere i primi a essere coinvolti nei percorsi di tutela delle loro condizioni di salute, visto che l’analisi dei rischi legati allo stress non può certo prescindere dall’ascolto del loro punto di vista. Certamente i fattori oggettivi sono importanti ma non possono riuscire a individuare tutti i problemi presenti per la salute psicologica, perché questa non può essere ridotta a un calcolo matematico, perché l’articolazione dei fattori di rischio è complessa e perché, di certo, il primo fattore di benessere è quello di sentirsi partecipi della vita aziendale.

Riguardo al ruolo degli Rls, la ricerca mostra che il rispetto formale della normativa ha portato le aziende a osservare alcuni obblighi minimi, come la visione del Dvr per gli Rls e la loro formazione, ma nella sostanza non ha favorito un ruolo attivo e partecipativo degli Rls.

L’analisi evidenzia alcuni problemi: un Rls su quattro non è stato consultato su come impostare la valutazione preliminare; nella metà dei casi gli Rls non sono stati coinvolti o lo sono stati in maniera marginale; si afferma il ricorso a consulenze esterne private, mentre il coinvolgimento di  esperti delle istituzioni pubbliche e di quelli delle organizzazioni sindacali e datoriali è scarsissimo se non nullo.

Da cosa nasce la carenza di coinvolgimento degli RLS nelle valutazioni dei rischi? Perché in Italia è ancora carente l’idea che la partecipazione di tutti alla cultura della sicurezza possa essere un elemento vincente  per l’efficacia delle attività di prevenzione?

DDN: Negli ultimi anni in Italia, non solo nel settore metalmeccanico, la competizione delle aziende è stata fondata soprattutto sull’abbassamento del costo del lavoro, con una scarsa attenzione ai fattori propri dell’innovazione e della valorizzazione del personale. Così, si è affermata una spirale di dequalificazione dei processi produttivi che si traduce in una minore competitività sui mercati globali e, anche, in peggiori condizioni per i lavoratori. In molte imprese italiane manca la capacità di puntare davvero sulla qualità della produzione, di valorizzare ogni singolo aspetto del ciclo produttivo, a partire dall’innovazione dei processi, dal lavoro quotidiano delle persone, dalla facoltà di creare un clima cooperativo. Ad esempio, la ricerca mostra che Il coinvolgimento degli Rls è avvenuto nella maggior parte dei casi nei contesti aziendali con uno stile di gestione del rischio più collaborativo, mentre laddove lo stile è più conflittuale ci sono degli ostacoli al coinvolgimento degli Rls. La cultura della sicurezza è indissolubilmente legata al valore che si da alle persone e al loro lavoro, così come è in stretto rapporto alla democrazia interna di un contesto aziendale.

Qual è il giudizio generale che è stato riscontrato sulla presenza e sulla gestione del rischio stress nelle aziende metalmeccaniche?

DDN: Solo il 30,8% degli Rls ritiene che la valutazione abbia fatto emergere i problemi principali legati al rischio stress in azienda e addirittura solo il 9% di loro ritiene che siano state affrontate delle problematiche ritenute importanti per la valutazione dello stress.

Non stupisce dunque che la maggioranza degli Rls (il 61,2%) non sia soddisfatta di come è stata condotta la valutazione nelle aziende e la valutazione del rischio sarebbe stata più efficace nell’individuare le problematiche realmente presenti nei luoghi di lavoro se il coinvolgimento degli Rls e dei lavoratori fosse stato maggiore, al contrario di quanto è accaduto.

Quali sono le possibili soluzioni per arrivare ad un’adeguata valutazione e gestione del rischio?

DDN: La soluzione migliore è certamente quella di rispettare le leggi e, anche, lo spirito che è alla base delle normative, partendo da quanto previsto dagli orientamenti europei in materia che prevedono la creazioni di sistemi di gestione del rischio fondati sulla cooperazione tra tutti gli attori. Per questo, è molto utile la creazioni di gruppi specifici di lavoro su questi temi a livello aziendale, capaci di favorire il coinvolgimento e la partecipazione degli Rls, dei lavoratori e anche dei medici, delle Asl, di esperti. In particolare, dalla ricerca emerge che le aziende in cui i fattori di contenuto e di contesto hanno portato all’individuazione di un rischio «medio» o «alto» sono quelle in cui c’è stato il coinvolgimento maggiore dell’RLS. Allo stesso modo la necessità del ricorso a misure correttive o interventi migliorativi emerge con maggiore frequenza nelle in cui è stata indagata la percezione dei lavoratori e l’RLS è stato coinvolto nel processo di valutazione.

Al di là delle scelte aziendali, tra gli RLS c’è sufficiente attenzione al tema dello stress e dei rischio psicosociali?

DDN: Negli ultimi anni l’attenzione a questi temi è andata crescendo. Lo stress correlato al lavoro è un problema che permea ogni aspetto della vita aziendale, di conseguenza per gli Rls occuparsi di questi temi significa occuparsi dell’organizzazione complessiva e delle condizioni generali del lavoro. Sicuramente i problemi per la salute psicologica nelle aziende sono meno considerati rispetto ad altri, però questo non significa che non siano importanti per i lavoratori che, ogni giorno, si confrontano con i problemi dovuti ai ritmi, agli orari, al carico di lavoro e di responsabilità che possono avere. E gli Rls dunque si confrontano necessariamente con questi problemi che riguardano la vita quotidiana dei lavoratori e lo fanno con una consapevolezza sempre crescente che deve essere alimentata con una formazione continua. Certamente sono problemi complessi e per questo gli Rls necessitano di avere degli strumenti adeguati, in termini di formazione ma anche di supporto da parte dell’azienda e, anche, delle organizzazioni sindacali, che devono riuscire a valorizzare il loro ruolo e a coordinare il loro lavoro in maniera sempre più efficace.

Quali sono in definitiva le principali conclusioni a cui arriva la ricerca?

DDN: Secondo i risultati della nostra ricerca, successivamente all’entrata in vigore delle indicazioni della Commissione Consultiva permanente è aumentato il numero di aziende che hanno svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato, per cui le indicazioni potrebbero avere contribuito ad aumentare l’attenzione a questi rischi. Quindi qualche passo in avanti è stato fatto ma la strada è ancora lunga. È necessario migliorare dal punto di vista normativo gli obblighi per la valutazione del rischio ma, soprattutto, bisogna superare qualsiasi approccio formale e non sostanziale a questi problemi, evitando anche il rischio di una burocratizzazione della valutazione che si ferma alla sola misurazione del dato oggettivo. In generale, è necessario favorire l’affermazione di una cultura della sicurezza fondata sulla cooperazione, sul dialogo, sulla democrazia aziendale, valorizzando il ruolo degli Rls e la partecipazione dei lavoratori, che sono i veri protagonisti di questi processi e devono avere un ruolo attivo e propositivo.

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Rischio stress: i ritardi e le carenze delle valutazioni dei rischi”