Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Alessandro Negrini e all’Ing. Serenella Corbetta del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.


Come raccontato in un precedente post, il lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, non è solo una conseguenza della pandemia e dell’emergenza COVID-19. Il modello organizzativo del lavoro a distanza è molto di più: è una nuova prospettiva, un “mutamento copernicano” con cui il mondo del lavoro deve confrontarsi per il presente e per il futuro. E non solo in riferimento alla scelta, o meno, di adottarlo, ma anche in relazione alle nuove strategie di prevenzione e alle corrette prassi di valutazione dei rischi di una realtà che la normativa attuale fatica ancora a riconoscere e gestire adeguatamente, almeno per quanto riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Per cercare di conoscere meglio questo mondo ho già segnalato il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI. E ho presentato – nel post “Covid e smart working 01: criticità e prospettive future” – una intervista ad alcuni dei suoi autori, gli ingegneri Gaetano Fede e Stefano Bergagnin.

Se in quella intervista mi sono soffermato sulle caratteristiche del lavoro agile e sulle carenze normative, nell’intervista che presento oggi- con due componenti del GTT “Smart working e lavori in solitudine”, gli ingegneri Alessandro Negrini e Serenella Corbetta – affronto alcuni aspetti più operativi relativi allo smart working.

Ricordo che l’intervista è stata realizzata e pubblicata per PuntoSicuro nell’articolo “Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”.  


Possiamo dare qualche consiglio alle aziende che si trovano a dover valutare i rischi dello smart working anche in relazione all’attuale contesto emergenziale?

Ing. Alessandro Negrini: Come molti strumenti innovativi legati all’organizzazione d’impresa, anche il lavoro agile richiede una solida pianificazione fondata su quelli che possiamo considerare i tre pilastri di qualsiasi processo di sviluppo destinato al successo: una comunicazione efficace, una formazione graduale (quanto continua nel tempo) e l’accesso a nuove tecnologie scalabili con cui poter prendere confidenza via via che si procede lungo la curva d’apprendimento.

Il primo consiglio, quindi, è di agire in modo ponderato nonostante l’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria: lo smart working impone di definire chiaramente a priori sia gli obiettivi che le risorse destinate ad alimentare quello che sarà un cambiamento strutturale, importante e – soprattutto – articolato nel tempo. Questo per non confondere la flessibilità con l’improvvisazione.

Quali sono i rischi più sottovalutati o meno conosciuti nel lavoro a distanza e nello smart working in particolare?

Ing. Alessandro Negrini: Parlando di sicurezza occupazionale in genere, i rischi psicosociali sono spesso trattati alla stregua di una tematica di secondo piano: forse perché è complicato parlare in modo oggettivo di questioni spesso legate alla sfera emotiva, personale. La remotizzazione del lavoro, tuttavia, accentua molte di queste criticità e ci pone davanti alla necessità di affrontarle in modo aperto proprio attraverso la comunicazione e la formazione.

Più nello specifico, una valida gestione dei rischi psicosociali dovrebbe poter stabilire precisi confini tra “pubblico” e “privato” sia in termini di orari che di strumenti di comunicazione anche e soprattutto in funzione delle specifiche necessità individuali: ciò equivale a riconoscere – innanzitutto – che, se anche lo smart working impone un ampio ricorso alla digitalizzazione, questo non implica necessariamente l’estraniamento, l’isolamento o la frustrazione. Si può lavorare (e si deve) in modo agile favorendo un’interazione sociale più ricca ed equilibrata che affianchi il principio d’inclusione a quello della creazione di un mero valore economico.

Certo è che il primo radicale cambiamento di prospettiva (un mutamento copernicano, in un certo senso) prescinde dalle scelte tecnologiche e si fonda, anzi, sulle persone stesse: sullo svecchiamento di una mentalità aziendale che, troppo spesso, considera lo stress (nelle sue varie espressioni) come una componente strutturale dell’attività lavorativa in sé. In questo dobbiamo riconoscere che molti dei problemi associati al lavoro agile (parliamo, fra l’altro, di tecnostress, di burnout, di ansia da controllo/ micro-management) sono gli stessi punti dolenti che, mal gestiti, portano una parte delle aziende ad uscire dal mercato perché insistono tout court nel rifiutare nuovi approcci alla gestione d’impresa sulla base di un equivoco di fondo: la convinzione che un’attività lavorativa bilanciata e “a misura d’uomo” costituisca un’utopia, al pari di un modello organizzativo (come lo smart working) focalizzato sulla qualità del risultato anziché su logore metriche di stampo quantitativo.

Nelle linee di indirizzo si parla di “boundary”, di confine tra spazio lavorativo e spazio domestico. Quali sono i problemi connessi alla gestione degli spazi lavorativi negli ambienti privati e nelle abitazioni?

Ing. Alessandro Negrini: : Nel momento in cui l’impresa diviene “liquida“, i confini fisici dello spazio lavorativo tradizionale si fanno indistinti e, soprattutto, non consentono più di ragionare secondo i vecchi criteri che permettevano di definire un’attribuzione diretta di responsabilità (es. incidente in sede o in itinere, vigilanza di terzi o autonoma ecc.) oltre a stabilire un’implicita compartimentazione tra sfera lavorativa e dimensione privata (fisicamente collocate in luoghi diversi).

Il lavoro agile mette in discussione questi stessi confini e, al contempo, impone di concordarne di nuovi con l’impresa, offrendo – a mio avviso – la preziosa opportunità di superare la standardizzazione tipica dei modelli tradizionali, per focalizzarsi finalmente sugli elementi che davvero possono favorire il benessere individuale dei lavoratori in base alle loro specifiche esigenze di vita.

La gestione dei rischi che interessano i lavoratori agili assume, d’altronde, un’ottica di ampio respiro improntata ad una diversa concezione di welfare, tenendo in conto che la frequente sovrapposizione tra ambiente privato e ambiente di lavoro induce a trasferire le abitudini personali (salutari e non) anche al contesto professionale. Questa tendenza impone la necessità di individuare le fonti di rischio per la salute psico-fisica dei lavoratori secondo una prospettiva a lungo termine e, a mio parere, con un approccio che definirei “olistico” cioè teso a superare la logica dei “compartimenti stagni” menzionata poco fa.

In questo, stimo di rilievo gli esperimenti promossi negli scorsi mesi da alcune imprese che hanno varato programmi di miglioramento della salute aziendale volti a garantire ai propri dipendenti in smart working tutta una serie di iniziative (es. formazione nutrizionale e sugli effetti nocivi del fumo, attività fisica ed educazione posturale on-line ecc.) che ne migliorassero lo stile di vita nonostante la nuova sfida costituita dalla remotizzazione emergenziale. Le implicazioni anche a livello di welfare sociale (es. il contributo alla diffusione di una cultura della salute, l’opportunità di un invecchiamento attivo ecc.) sono evidenti, quanto interessanti.

Come affrontare la valutazione dei rischi nel lavoro agile? Come operare una valutazione in “luoghi di lavoro e in condizioni non controllabili e non monitorabili” direttamente?

Ing. Serenella Corbetta: Ai sensi del D.Lgs. 81/2008, il Datore di lavoro è tenuto alla verifica della conformità dell’ambiente di lavoro ma per quanto concerne i lavoratori agili e la loro prestazione di lavoro “anywhere”, appare evidente la quasi impossibilità di verificare lo stato di tutti i luoghi di lavoro privati in cui operano i lavoratori agili o i luoghi all’aperto.

E’ pertanto utile ricorrere a strumenti di autocontrollo con ausilio di check list compilate dal lavoratore, che deve essere evidentemente reso partecipe e consapevole della valutazione.

La check list deve essere di facile comprensione identificando in primis il luogo prevalente dello svolgimento dell’attività e declinando poi i potenziali rischi da analizzare, contribuendo così ad innalzare il grado di consapevolezza del lavoratore: indicativamente le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, degli spazi di lavoro, degli arredi, del rischio elettrico, incendio , dei fattori organizzativi , di conciliazione spazi vita lavoro, del lavoro in solitario, delle modalità organizzative.

Questa check list sarà poi utile a definire l’informativa – richiesta sempre dall’art. 22 della L. 81/2017- ai lavoratori stessi sui rischi generali e specifici dell’attività lavorativa in modalità agile.

Nella prima parte dell’intervista abbiamo accennato alla riduzione degli infortuni in itinere, ma ci sono esempi di infortuni durante le attività di smartworking?

Ing. Serenella Corbetta: Nel settembre scorso, l’INAIL è stata sollecitata da una richiesta di indennizzo per una lavoratrice caduta dalle scale, mentre effettuava una telefonata di lavoro e svolgeva la sua attività in modalità agile. Alcuni chiarimenti sull’infortunio in smartworking si ricavano dalla circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017, dove è precisato che il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio proprio dell’attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni del profilo professionale del lavoratore.

E’ necessario ricordare che l’art. 22 della Legge 81/2017- attuale normativa sul lavoro agile – prevede espressamente che il datore di lavoro garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori che svolgono l’attività in modalità agile.

Anche in questo caso riteniamo importante, da un lato una check list redatta secondo i suggerimenti che abbiamo prima elencato e dall’altro disciplinare nell’accordo le modalità e i luoghi dove il lavoratore potrà svolgere l’attività lavorativa, con una adeguata e dettagliata informativa sui rischi.

Diciamo qualcosa anche sullo stress lavoro correlato nello smart working. Spesso si è parla di tecnostress e di diritto alla disconnessione. Sono temi che avete affrontato anche nelle linee di indirizzo?

Ing. Serenella Corbetta: Certo, il documento da ampio spazio al diritto della disconnessione, ovvero “il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psico- fisiche”.

Il lavoratore agile è particolarmente esposto all’intensificazione dei ritmi (iper connessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero) all’isolamento e alla connotazione labile dei confini tra spazi/tempi lavorativi e non lavorativi, variabili in parte compensati dall’autonomia nella gestione del tempo.

È il Datore di lavoro che deve evitare che il lavoratore agile, che svolge la propria attività lavorativa da remoto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici, sia sottoposto a stress da eccesso di lavoro o tecno stress disciplinando lo speculare “dovere di disconnessione” nel quadro della nuova organizzazione del lavoro.

Veniamo, infine, a un altro importante argomento trattato nelle linee di indirizzo: la formazione. Che tipo di formazione necessita per uno smart worker?

Ing. Serenella Corbetta: La formazione è certamente un elemento cardine per il miglioramento della consapevolezza dei rischi dello smart worker e deve essere finalizzata ad un cambiamento effettivo degli atteggiamenti e dei comportamenti dei lavoratori che devono acquisire la consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei contesti in cui lavorano. La formazione è l’unico strumento a disposizione delle aziende per tutelare i lavoratori agili aumentando le loro conoscenze e competenze in merito alla sicurezza in ambienti completamente diversi dal tradizionale ufficio aziendale ed è fondamentale per l’azienda che non può garantire il continuo monitoraggio dei luoghi di lavoro.

Ricordiamo che nell’informativa INAIL sullo smart workingil lavoratore è tenuto ad adottare un comportamento coscienzioso e prudente, escludendo luoghi che lo esporrebbero a rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici della propria attività svolta in luoghi chiusi”.

La prestazione all’aperto comporta rischi di cui il lavoratore potrebbe non avere la percezione: rischio furto, rapina, aggressione, per citarne alcuni di cui il lavoratore deve essere conscio nella scelta del luogo dove operare la propria prestazione.

Il dipendente ha l’obbligo di osservare le direttive aziendale e collaborare all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte dal Datore di Lavoro utilizzando gli strumenti tecnologici in sua dotazione, in conformità alle policy aziendali, per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali (art. 22 comma 2 lg 81/2017). La violazione degli obblighi di collaborazione, oltre alla rilevanza disciplinare, potrebbe determinare una limitazione di responsabilità in capo al datore di lavoro.

È pertanto implicito nel disposto normativo l’obiettivo di rendere consapevoli e partecipi i lavoratori all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte e solo un valido percorso formativo ad hoc, può permettere il raggiungimento dell’obiettivo.

Parliamo di una riprogettazione del processo formativo dello smart worker, dando certamente spazio alla formazione sui rischi tradizionali, ma pensando anche a percorsi di autoformazione guidati dal Rspp o da formatori qualificati, che declinino diversi momenti di autovalutazione delle proprie condizioni lavorative anche tramite interviste e somministrazioni di check list, training on the job o mentoring.

È necessario poi una grande attenzione ai nuovi contenuti di digital divide, diritto al distacco, problem solving e capacità di gestire il cambiamento. Riteniamo che l’aggiornamento formativo dello smart worker, partendo dal percorso tracciato dall’Accordo Stato Regione del 21/12/2011 che prevede 6 ore nel quinquennio, debba essere declinato con un monte ore annuale, esplicitato nell’accordo individuale con il lavoratore che diviene parte attiva del processo stesso con lavori a progetto che stimolino la capacità di acquisire competenze, riconoscere fonti attendibili, identificare i propri indicatori di perfomance.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Intervista di Tiziano Menduto

Covid e smart working 01: criticità e prospettive future

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Gaetano Fede e all’Ing. Stefano Bergagnin del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.

Non c’è ormai alcun dubbio sul fatto che molte conseguenze sul mondo del lavoro della pandemia siano ormai quasi irreversibili, specialmente in termini di innovazione e riorganizzazione lavorativa. Il rischio biologico connesso al COVID-19 ci ha avvicinato ad un nuovo possibile modello lavorativo a distanza che tuttavia necessita di adeguate tutele e di una normativa moderna e adeguata, anche in materia di prevenzione.

Proprio per cercare di ragionare su questi aspetti, aiutare aziende e lavoratori a migliorare la prevenzione e proporre eventuali modifiche normative sono state pubblicate dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI) le “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working”. Un documento – a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo “Smart working e lavori in solitudine” del CNI – che ho pensato fosse utile approfondire attraverso alcune mie interviste pubblicate dal giornale online PuntoSicuro.

Nella prima intervista presentata oggi – pubblicata nell’articolo “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future” – ho posto alcune domande all’Ing. Gaetano Fede (Consigliere CNI e Coordinatore del Gruppo di Lavoro Sicurezza) e all’Ing. Stefano Bergagnin (Gruppo di Lavoro Sicurezza CNI) cercando di comprendere quali possano essere le carenze nella tutela dei lavoratori agili, quali siano i rischi del fraintendimento tra smart working e telelavoro e, specialmente, quali lacune si annidino in una normativa, la Legge n. 81 del 22 maggio 2017 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato“, che, come ricordato nell’articolo, “non sembra essere al passo del cambiamento richiesto dalle conseguenze della pandemia”.

L’intervista vuole comprendere anche cosa è possibile fare per migliorare le tutele dei lavoratori e quali siano gli eventuali vantaggi del lavoro a distanza, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere.

Nelle prossime settimane riporterò sul blog anche una seconda intervista sul lavoro agile con particolare attenzione ad aspetti più operativi, come la formazione dello smart worker e l’analisi e valutazione dei rischi, con riferimento al tecnostress e al confine tra spazio lavorativo e domestico.

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Partiamo dalle motivazioni che hanno portato il CNI a occuparsi di smart working… Quali sono a vostro parere le principali lacune e carenze, normative e culturali, che possono portare a sottovalutare o a non tutelare adeguatamente i rischi dei cosiddetti lavoratori agili?

Ing. Gaetano Fede: C’è da sottolineare innanzitutto che la veloce diffusione del lavoro a distanza a partire dall’inizio del periodo pandemico del COVID19 nel nostro Paese ha colto tutti impreparati considerato che il telelavoro, e soprattutto lo smartworking, in Italia non erano diffusi come in altri Paesi.

Il GdL sicurezza del CNI aveva tuttavia già attivato un GTT (Gruppo Tematico a Tempo) in merito proprio allo smartworking e al lavoro in solitudine, che a volte coincidono, perché ritenemmo, già 2 anni fa, che fosse necessario un approfondimento sui rischi per i lavoratori che svolgono la propria attività secondo tali modalità.

Con il diffondersi della pandemia e l’incremento del lavoro a distanza abbiamo ritenuto ancora più urgente sviluppare il lavoro delle linee di indirizzo con la massima urgenza, in quanto l’unica norma in vigore in merito al lavoro agile è la Legge 81/2017, a nostro avviso non sufficientemente dettagliata per fornire indicazioni su come valutare e gestire i rischi che sono presenti, a volte in modo diverso, anche per chi lavora esternamente alla sede aziendale.

Nelle vostre linee di indirizzo si fa riferimento al “diffuso fraintendimento” tra le diverse modalità del lavoro agile e del telelavoro. Quali sono le differenze tra queste due modalità di lavoro e i rischi di questa confusione?

Ing. Gaetano Fede: Ci sono diversi aspetti in comune tra lavoro agile e telelavoro, ad esempio il fatto che si lavori a distanza, ma vi sono differenze fondamentali che non sono mai state messe in evidenza e di conseguenza quando i “media” trattano il tema del lavoro a distanza, così diffuso in questo periodo, lo indicano semplicemente come smartworking.

Tuttavia non è così, perché vi sono due differenze fondamentali.

In primo luogo l’assoluto vincolo di orario presente nel telelavoro ma non previsto, o previsto soltanto parzialmente, per il lavoro agile. Inoltre il lavoro agile (sostanzialmente coincidente con la definizione smartworking) prevede che vi sia sempre un obiettivo concordato tra lavoratore e azienda (o ente perché è applicato anche nel settore pubblico), aspetto questo che il telelavoro non prevede. Mettere insieme due diverse tipologie di lavoro a distanza rischia pertanto di confondere pericolosamente le acque, anche in relazione ai nuovi rischi che ne possano derivare.

A suo parere nella riorganizzazione lavorativa seguita alla pandemia qual è stata la reale proporzione, nella diffusione del lavoro a distanza, tra le nuove realtà di telelavoro o di lavoro agile?

Ing. Gaetano Fede: Non ci sono ancora dati governativi ufficiali dai quali possiamo attingere.

Al momento sui quotidiani si parla di circa 6 milioni di lavoratori a distanza (qualcuno continua a dire in smartworking e, come sopra detto, non è corretto), ma abbiamo potuto appurare, avendo rapporti giornalieri con enti pubblici, che in questi ambiti non si tratta quasi mai di lavoro agile ma semplicemente di telelavoro, modalità già presente da anni ma poco utilizzata.

Anche nel privato la condivisione di obiettivi tra lavoratori e azienda non viene spesso definita e ufficializzata. Senza dubbio la percentuale di lavoratori agili tra gli attuali 6 milioni è decisamente minoritaria.

Parlando di prevenzione il lavoro in smart working e in telelavoro hanno indubbiamente anche dei vantaggi rispetto al lavoro svolto nei classici ambienti lavorativi, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere. Ci sono dati a questo proposito? Qual è il suo parere sulla diffusione del lavoro a distanza anche successivamente all’emergenza?

Ing. Gaetano Fede: I dati INAIL del 2020 non sono ancora ufficiali e pertanto non possiamo sapere se effettivamente gli infortuni in itinere sono diminuiti, ma ci aspettiamo sicuramente che la riduzione sia stata significativa. A tal proposito evidenziamo anche un minore impatto ambientale (diminuzione dell’inquinamento atmosferico) legato senza dubbio al lockdown scaturente dalla pandemia; tutti abbiamo notato negli ultimi 15 mesi un’aria più pulita e una maggiore visibilità! Se riducessimo gli spostamenti per un numero importante di lavoratori a distanza, sicuramente tale situazione sarebbe comunque costante nel tempo.

Il lavoro a distanza sarà certamente predominante nel prossimo futuro, come già prevedono le modalità di importanti aziende multinazionali, che lo alternano con giornate in presenza; solo così saranno più facilmente raggiungibili gli obiettivi condivisi e saranno più gestibili i rischi, sia in merito agli aspetti propriamente tecnici, sia per gli aspetti collegabili alle delicate tematiche della “socialità” e dello “stress lavoro correlato”.

Le linee di indirizzo sottolineano che la Legge n. 81/2017, benché relativamente recente, risente di “un approccio di vecchio stampo”. Quali sono a suo parere gli aspetti su cui il legislatore dovrebbe intervenire per rendere la norma più efficace?

Ing. Stefano Bergagnin: L’abbiamo definita “vecchio stampo” semplicemente perché riprende il principio risalente al primo recepimento con il D.Lgs. 626/94 della direttiva quadro europea sulla sicurezza, la 89/391/CEE, che prevedeva praticamente buona parte della responsabilità sulla valutazione dei rischi a carico del “datore di lavoro”. In merito al lavoro agile siamo decisamente ancora in queste condizioni, quando invece l’approccio dovrebbe essere diverso, anche per ragioni pratiche.

Facciamo un esempio: come può un datore di lavoro (anche se con la collaborazione del RSPP) effettuare una completa e approfondita valutazione dei rischi per il lavoratore che magari opera da casa sua? Non è senza dubbio sufficiente l’informativa di cui parla la Legge 81/2017; non è possibile effettuare una buona valutazione dei rischi basandosi semplicemente su un’informativa annuale come prevede la nostra norma. All’estero, in alcuni casi, la collaborazione del lavoratore stesso, tramite la trasmissione di dati specifici utili alla redazione del documento in merito alla valutazione dei rischi, è obbligatoria.

Il mondo sta cambiando repentinamente, la sede di lavoro non sarà più per molti la sede aziendale, c’è bisogno di un nuovo paradigma, di una maggiore collaborazione tra le parti per il bene, in primo luogo, del lavoratore.

Qual è il suo parere su quello che si è fatto, in questa fase di emergenza, per favorire, insieme alla diffusione del lavoro a distanza, anche un’adeguata tutela? Si poteva fare di più?

Ing. Stefano Bergagnin: E’ difficile dare un giudizio in merito: c’è chi ha agito bene e chi ha sottovalutato le possibili conseguenze. In alcuni grandi gruppi industriali c’è stata senza dubbio una collaborazione tra aziende e sindacati, si sono definiti obiettivi, condizioni di lavoro, approfondimenti e la conseguenza è stata la focalizzazione di problemi specifici che possono condizionare il lavoro a distanza.

Parallelamente, soprattutto nel pubblico e nelle aziende di piccole dimensioni, il problema non è stato affrontato, la condivisione tra azienda/ente e lavoratori è stata minima soprattutto in relazione all’improvviso diffondersi della pandemia e del necessario spostamento a distanza del lavoratore, senza neppure trattarne le conseguenze e, addirittura, confondendo e/o sovrapponendo telelavoro e smartworking.

Sono previsti, come è stato per le linee di indirizzo per gli spazi confinati, futuri aggiornamenti? Quali sono i prossimi progetti su cui lavorerà il CNI in materia di smart working?

Ing. Stefano Bergagnin: Senza dubbio ci sarà un futuro aggiornamento perché siamo in piena evoluzione. Ci aspettiamo in primo luogo un aggiornamento della normativa e un approfondimento da parte del legislatore ma nel frattempo noi del GdL e dello specifico GTT sullo smartworking continueremo a studiare l’evoluzione tecnologica legata al lavoro agile e la gestione dei rischi ad esso collegati. Non è escluso un sondaggio, tra i nostri iscritti esperti nel settore, al fine di raccogliere importanti e dettagliati contributi/criticità dai vari territori del nostro Paese.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Intervista di Tiziano Menduto

Spazi confinati 03: un nuovo strumento per la prevenzione

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una intervista, realizzata nel 2019, presenta le linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri.

Come ricordato nel “Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ai sensi dell’art. 3 comma 3 del d.p.r. 177/2011” e nelle schede informative pubblicate dal sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi INFOR.MO., gli ambienti confinati possono presentare diversi rischi per la salute e la sicurezza.

Ad esempio:

  • asfissia per carenza di ossigeno;
  • intossicazione per esposizione ad agenti chimici pericolosi;
  • esposizione ad agenti biologici;
  • caduta dall’alto dell’infortunato;
  • contatto con organi lavoratori in movimento;
  • scivolamento dovuti alla difficoltà di accesso/uscita, alla carenza/assenza di illuminazione naturale, alla presenza di tubazioni/cavi/materiali o di fondo vischioso/scivoloso;
  • seppellimento per caduta di polverulenti dall’alto;
  • ustione/congelamento per esposizione a sostanze corrosive, a temperature elevate o molto basse;
  • annegamento in presenza di melma/fanghi o variazioni improvvise di livello di altri fluidi;
  • folgorazione per presenza di connessioni elettriche.

E analizzando gli infortuni mortali in ambienti confinati si rileva che i fattori di rischio più frequenti sono gli errori nelle modalità operative, la mancata fornitura o il non utilizzo dei DPI necessari e le carenze strutturali e organizzative degli ambienti lavorativi.

Proprio a partire dagli elevati rischi per i lavoratori di questi ambienti ho pensato di dedicare il terzo post sugli spazi confinati ad alcuni interessanti strumenti che possono favorire la prevenzione.

Sto parlando delle linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri (CNI) dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati o a rischio di inquinamento”, di cui presento una breve intervista sulla prima versione ufficiale (sono già stati pubblicati alcuni aggiornamenti). Intervista all’Ing. Stefano Bergagnin (Ordine Ingegneri di Ferrara – componente del gruppo di lavoro Sicurezza del CNI e coordinatore del gruppo tematico temporaneo sui lavori in ambienti confinati) e all’Ing. Adriano Paolo Bacchetta (esperto in materia di spazi confinati e fondatore e coordinatore del sito www.spazioconfinato.it).

L’intervista è stata realizzata, per il  giornale online PuntoSicuro, durante la manifestazione “Ambiente Lavoro” che si è tenuta a Bolognadal 15 al 17 ottobre 2019 dove i due ingegneri erano relatori al convegno “Ambienti confinati: stato dell’arte e proposte del CNI per la gestione del rischio specifico”, organizzato dall’Ordine Ingegneri di Bologna con il patrocinio del CNI.

In particolare l’intervista, di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, è stata pubblicata nell’articolo “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Nelle prossime settimane continuerà la pubblicazione di altri post e contributi sul tema.

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Gli spazi confinati e le carenze normative

Nella presentazione del documento si sottolinea che in materia di ambienti confinati e a rischio di inquinamento a tutt’oggi gli strumenti di gestione ancora non sono sufficienti, immagino che queste linee di indirizzo vogliano affrontare questa carenza…

Stefano Bergagnin: Si, questo è proprio L’obiettivo della pubblicazione e il titolo “linee di indirizzo” è finalizzato a questo scopo, cioè vuole fornire a tutti i tecnici – ma non solo tecnici, ovviamente anche ai datori di lavoro, ai committenti, ai coordinatori per la sicurezza e anche alle imprese, le imprese che svolgono questo tipo di interventi – degli strumenti per gestire, auspichiamo correttamente, quello che è un rischio che purtroppo rimane ancora molto di attualità perché gli infortuni non calano e questo è forse dovuto anche (…) a una carenza normativa. Perché effettivamente tutti gli aspetti tecnici che sono assolutamente necessari per un rischio di una gravità così importante dovrebbero essere disponibili.

Noi abbiamo cercato di fornire più strumenti possibili e tra l’altro questa è anche una linea di indirizzo molto corposa, il contributo dei tecnici del gruppo di lavoro è stato veramente molto interessante, a cominciare proprio da quello di Adriano che è uno dei maggiori esperti e ha fornito sicuramente strumenti utili.

Noi ci siamo spinti con il documento soprattutto su alcuni aspetti che, a nostro avviso, erano carenti, perché poco approfonditi nella normativa.

Addirittura, se parliamo della formazione, era previsto un accordo Stato-Regioni che non è mai uscito. Quindi abbiamo cercato di fornire strumenti anche in questo senso.

Tra le altre cose (…) c’è anche una app importante che abbiamo messo in allegato e che è la prima app – ne usciranno probabilmente anche delle altre – ed è interessante soprattutto per l’identificazione degli spazi confinati ed è stata presentata a cura di Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, con tanti altri contributi. (…)

So che l’ing. Bacchetta si è occupato spesso della normativa in materia di ambienti confinati e/o sospetti d’inquinamento. Cosa possiamo dire della normativa che c’è e di quella che ancora manca? Quali sono le criticità?

Adriano Paolo Bacchetta: “Diciamo che la normativa che c’è è come se non ci fosse – io lo dico dal 2011 – fondamentalmente quello che abbiamo è frutto di una necessità immediata per dare risposta agli incidenti a cavallo del 2009-2010 (depuratore di Mineo, Truck Center e altri) che però non ha risposto alle esigenze. Anzi ha creato una serie di complicazioni e una serie di adempimenti meramente burocratici che, personalmente, io valuto poco idonei ad una risposta funzionale.

Questo capita quando si lasciano campi assolutamente non definiti, interpretativi.

Basti pensare (…) a quelli che prima erano degli ambienti che dovevano essere controllati per rischio di inquinamento e sono diventati a sospetto di inquinamento DPR 177/2011, ad esempio le gallerie. Ma ci immaginiamo una galleria, il traforo o la variante di valico? Come lo classifichiamo? Teoricamente andrebbe messo lì, ma è sbagliato. Poi ci sono gli ambienti dove può esserci il rischio di gas deleteri: qualsiasi stabilimento industriale dove fisicamente c’è una fumana che esce da una macchina potrebbe a ragione essere valutato come un ambiente dove può essere applicato il  decreto 177/2011. Una follia.

E questo oltre agli errori nei riferimenti (…), basti pensare che il titolo stesso del decreto è “ambienti confinanti”. Quindi in realtà, almeno gli errori formali potevano metterli a posto.

E poi c’è quella veramente vergognosa mancanza della definizione dei requisiti degli aspetti formativi (…). Ad oggi c’è in giro di tutto, tutti fanno tutto, (…) e dopodiché anche il Ministro l’altro giorno ha detto che è “importante la formazione”. Siamo d’accordo ma ad oggi non esiste una specifica di chi può farla, quanto deve durare, quali sono gli argomenti.

Quindi inutile parlare di formazione quando nel caso specifico degli ambienti confinati non c’è neanche la definizione. (…)

Stefano Bergagnin: Mi ha interessato moltissimo quanto ha detto Adriano, proprio nell’ultima parte del suo intervento.

L’aspetto formazione noi lo abbiamo approfondito, proprio anche nelle linee di indirizzo, indicando con la maggior precisione possibile anche i contenuti.

Ovviamente non potevamo sbilanciarsi sulle ore necessarie, … Però almeno abbiamo dato una definizione molto precisa dei contenuti minimi che devono essere affrontati proprio in questo ambito.

Il riconoscimento degli ambienti confinati e il ruolo degli operatori

Come avete affrontato il tema del riconoscimento degli spazi confinati nei luoghi di lavoro…

Stefano Bergagnin: Forse uno dei paragrafi più importanti è proprio quello sulla definizione. È un paragrafo corposo perché dare una definizione di spazio confinato non è semplice. Non è semplice perché anche le norme internazionali danno definizioni che sono un po’ diverse. C’è sì una certa omogeneità che abbiamo cercato di individuare, ma non è assolutamente semplice.

Noi più che altro abbiamo voluto allargare quello che è lo spazio di indirizzo, cioè capire quali potrebbero essere gli ambiti che senza dubbio potrebbero diventare o sono uno spazio confinato o a rischio d’inquinamento.

C’è anche un elenco, dentro le linee di indirizzo, di esempi di situazioni che potrebbero essere sicuramente definibili come spazi confinati. Abbiamo anche chiarito alcuni aspetti, tra questi anche il discorso “gallerie” che ha una sua normativa e che non riteniamo debba entrare in quest’ambito. O il discorso delle stive, le stive nei porti, … Anche lì c’è una normativa particolare. Abbiamo comunque dato indicazione che a volte quella che è la valutazione del rischio potrebbe trarre strumenti utili da una linea di indirizzo come la nostra, ma siamo in un ambito diverso e questo l’abbiamo specificato.

Poi ci sono strumenti che potrebbero servire, come l’app che citavo prima, anche soltanto per capire se l’intervento che viene organizzato con un’impresa appaltatrice, in una sede aziendale o anche in un cantiere, sia classificabile o meno.

L’app è utilissima ma visto che le app comunque compariranno sul mercato anche nel settore della sicurezza e della salute, bisogna fare molta attenzione. Perché questa è una app (…) che è stata fatta appunto da Alma Mater con il contributo, tra l’altro, dell’INAIL regionale, con il consenso dell’ASL della nostra regione. E questo è importante perché offre la garanzia che queste siano delle app con un livello di qualità elevato. (…)

Mi pare che nelle linee di indirizzo abbiate anche parlato del datore di lavoro committente e del rappresentante del datore di lavoro committente… Cosa si è detto nel vostro documento riguardo ai ruoli dei vari attori della sicurezza?

Stefano Bergagnin: Noi innanzitutto abbiamo evidenziato (…) che tra i soggetti destinatari delle linee di indirizzo ci sono gli RSPP/ASPP, ci sono i datori di lavoro committenti, ci sono i datori di lavoro delle imprese appaltatrici, delle imprese esecutrici di certi lavori. E abbiamo anche chiarito un dubbio che (…) era quello relativo appunto all’applicabilità della norma anche quando non c’è un contratto d’appalto; cioè quando i lavori in spazi confinati li fanno direttamente i dipendenti. La norma è applicabile anche lì. Ci sono anche dei passaggi – mi pare che fosse una circolare importante che abbiamo citato anche nel testo – in cui è stato chiarito che anche all’interno di un’azienda, se c’è questa tipologia di lavori, bisogna garantire le stesse misure di sicurezza che vengono previste negli altri casi (…). È quindi fondamentale che anche questo chiarimento ci sia e lo abbiamo inserito nelle linee di indirizzo. 

Il ruolo del medico competente e il DPR 177/2011

Veniamo a soffermarci su un tema che affronterà nel convegno Adriano Paolo Bacchetta, quello dei medici competenti. Quale ritiene sia il ruolo del Medico Competente nell’applicazione del DPR 177/2011?

Adriano Paolo Bacchetta: Partiamo dal presupposto che non siamo certamente noi (…) a dettare il passo ad un’altra categoria professionale importante come i medici. Quindi non siamo noi a dire cosa devono fare, però noi possiamo dire cosa auspichiamo di avere come supporto.

E certamente quello del medico competente, nel caso specifico delle attività in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, è un ruolo importante. (…)

Ad esempio c’è il problema della definizione di quali sono le attività del FOP, del First on Place ovvero sia del primo soccorritore, che deve intervenire su un soggetto che ha avuto un malore, un infortunio, qualcosa all’interno dell’ambiente confinato. Si parla di un operatore laico, quindi sostanzialmente né un sanitario, né un parasanitario; fondamentalmente un soggetto che ha una formazione che non va oltre, al momento, a quella prevista dal decreto 388 … (…). In realtà, a oggi, il medico competente o il laureato in medicina che viene contattato per fare il corso ai lavoratori fa il corso e poi queste persone devono intervenire su un collega, piuttosto che un dipendente dell’impresa appaltatrice nell’ambiente confinato. Però lì, obiettivamente, se non c’è il medico che dà delle indicazioni puntuali non può essere certamente il tecnico a definire la modalità operativa, i sistemi di immobilizzazione o quant’altro necessario. (…)

No, l’intervento di soccorso va studiato e chiaramente. C’è il tecnico che si occuperà delle progressioni su fune, di definire le strutture, gli apprestamenti, tutto quello che è necessario; ma poi serve comunque la controparte medica che dica “quando sei lì ti devi comportare in un certo modo”. È questo è il primo problema. Poi ce ne sono altri…

Nel documento sono proposti anche degli strumenti per i medici competenti?

Adriano Paolo Bacchetta: Qua la cosa si fa un pelo più complessa, perché in realtà io sono stato autore, Insieme ad altri esperti, tra l’altro della Fondazione Maugeri di Pavia, (…) di un articolo dove abbiamo proposto un profilo sanitario per gli addetti negli spazi confinati.

Al momento stiamo cercando di trovare ancora l’applicazione e non mi risulta che esista un profilo, ad esempio, per la definizione dell’idoneità sanitaria. Quando l’articolo 66 del decreto 81/2008 in fondo mi dice che lo spazio deve avere un’apertura sufficientemente larga da poter estrarre un lavoratore privo di sensi – quindi sostituendo la originale indicazione del DPR 547 che dava il 30 x 40 ellittico o il diametro 40 come dimensione – di fatto mi dice tutto e non mi dice niente. L’unica cosa certa è che un soggetto di 140 kg, che ha una circonferenza di 1,60 metri, non può essere idoneo a lavorare in ambiente confinato se il punto d’accesso è un punto 30 x 40.

Quindi quando il medico dice che l’addetto è idoneo a lavorare in ambienti confinati, lui deve sapere esattamente quali sono questi ambienti e qual è la modalità d’accesso e uscita. Perché se a lui non viene detto che, ad esempio, gli addetti devono entrare nelle attrezzature a pressione attraverso un passaggio ellittico da 30 x 40, magari si vede davanti un tipo Schwarzenegger e obiettivamente dice che è idoneo agli spazi confinati. Ma da un punto di vista antropometrico, no, perché non ci può entrare e se poi devo tirarlo fuori senza problemi… Poi sarà compito del datore di lavoro andare a spiegare all’organo di vigilanza come ha fatto a rendere idoneo un addetto e dichiarare implicitamente, nel momento in cui accetta che lui entri, che lo poteva tirare fuori quando era inerme.

La situazione è molto complessa e quindi il medico, da quel punto di vista, deve adottare un protocollo che al momento non c’è.  L’unica pubblicazione che c’è è quella che abbiamo fatto noi nel 2015. Ora aspettiamo…

La gestione delle emergenze negli spazi confinati

A proposito di emergenze mi pare che quest’anno si sia parlato di soccorso ad Ambiente Lavoro anche in un convegno nazionale sul soccorso industriale…

Adriano Paolo Bacchetta: Questa del convegno è una logica evoluzione – sia di spazioconfinato.it sia di tutto quello che è stato fatto negli anni – che di fatto tiene conto di una necessità. A oggi per alcuni interventi (…) le aziende che non ritengono di avere del personale adeguatamente preparato formato o equipaggiato per poter fare interventi di soccorso utilizzano tipicamente dei professionisti, a tutti gli effetti, che svolgono il ruolo di soccorritori industriali. (…) Il problema è che, anche in questo caso, manca una specifica regolamentazione dei requisiti e qualificazioni (…) e noi gettiamo le basi ufficialmente (…) per cominciare a definire anche in Italia quella che può essere una ipotesi di profilo professionale del soccorritore industriale. Ma questo non basta, (…) l’associazione si sta muovendo per definire dei protocolli di formazione aggiuntiva a quella obbligatoria di legge per queste persone che normalmente fanno gli addetti di linea e quando suona la sirena automaticamente scattano e diventano vigili del fuoco e soccorritori sanitari.(…)

Cosa si dice nel documento del CNI riguardo alla gestione delle emergenze?

Stefano Bergagnin: Ci tenevo a rendere evidente che anche nel documento forse il paragrafo “Gestione delle emergenze” è quello più fitto, perché secondo noi è importantissimo. Soprattutto su questo tema la normativa è veramente carente perché non specifica addirittura le diverse tipologie di emergenza che, invece, sono note da decenni anche dalle norme internazionali. Noi le abbiamo riprese, (…) noi le abbiamo confermate, le abbiamo specificate meglio e a mio avviso, questo è un parere personale, questo è uno dei paragrafi che sarà più utile proprio come linea di indirizzo.

Adriano Paolo Bacchetta: Rispetto a tutto quello che abbiamo detto, c’è una cosa importante che dico a tutti. Chiunque si approccia a questo tema deve dimenticarsi di pensare di avere il software, l’app o cose del genere per cui uno che non ne sa niente, che non è cultore della materia, non ha esperienza della materia, comprando il software risolve i problemi. (…)

Gli ambienti confinati sono ambienti dove la professionalizzazione delle persone che progettano gli interventi e in particolar modo gli interventi di soccorso deve essere adeguata. Quindi da un punto di vista pratico invito ad acculturarsi, a leggere, studiare, venire ai convegni, fare comunque tutto quello che è necessario per evitare di fare documenti replica. E io ne vedo un quintale di roba fotocopiata, tagliuzzata, presa da internet e cose del genere. Quindi con sostanziale evidenza della mancanza totale di cultura e di conoscenza. (…)

(…)

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto