Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011

Torniamo a parlare in questo blog delle criticità e oscurità della nostra normativa sulla tutela della salute e sicurezza in Italia e lo facciamo affrontando alcune differenze interpretative del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un articolo di PuntoSicuro del 7 novembre 2016, con riferimento ad un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”), si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”. E l’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Tuttavia sempre sul quotidiano online PuntoSicuro altri hanno segnalato che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista ho realizzato un’intervista a più voci con domande elaborate anche dai vari intervistati:

– Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza);

– Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza);

– Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia).

Nei giorni scorsi ho presentato la prima parte dell’intervista, pubblicata su PuntoSicuro il 18 gennaio 2017, con le risposte di Massimo Peca, oggi riporto la seconda parte dell’intervista con le risposte di Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini

Anche in questo caso l’intervista è stata pubblicata su PuntoSicuro, con il titolo “Ambienti confinati e DPR 177/2011: si certificano i contratti d’appalto?”.

Buona lettura.

Tiziano Menduto

 


Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto


La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Massimo Peca:

 

  1. Come può incidere la sola verifica della regolarità del rapporto di lavoro, da lei sostenuta, accertata mediante la procedura di certificazione, sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (obiettivo del DPR 177/2011) non considerando l’obbligo previsto dal comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 (DUVRI/PSC/POS/contratto di appalto e tutto quello che ne consegue nel merito dei contenuti) e la valutazione da effettuare, in particolare, dell'”organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio” richiesta dalla circolare 48/2004 del MLPS?

 Carmelo G. Catanoso: Va premesso che per la gestione della sicurezza nei lavori in appalto all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, il datore di lavoro committente è gravato (art. 26 comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008), nei confronti degli appaltatori o dei lavoratori autonomi, dagli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale e di informazione riguardo i rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate. Inoltre, il successivo comma 2 richiede al datore di lavoro committente, agli appaltatori ed ai subappaltatori di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi nonché di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. La cooperazione e il coordinamento devono essere promossi elaborando il DUVRI.

Naturalmente, visto che si sta parlando di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, quanto appena detto dovrà essere specificatamente modellato sulla particolare e pericolosa tipologia di lavori da eseguire attraverso una contestualizzazione “spinta” del DUVRI.

Pertanto, visto che l’art. 26 si applica ai contratti d’appalto di lavori, servizi e forniture ed ai contratti d’opera, appare evidente che, ad esempio, un appalto per l’esecuzione della sostituzione di un galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio, possa ritenersi “coperto” dalla citata norma, sempre che il datore di lavoro committente, gli appaltatori e/o i subappaltatori intendano adempiere concretamente ad essa, tenendo conto delle specificità del lavoro da eseguire.

Quindi, il vero problema non è far certificare un contratto d’appalto ma adempiere concretamente ad obblighi che la legislazione vigente già prevede.

Quindi, un datore di lavoro committente deve scegliere con oculatezza il proprio appaltatore verificando preventivamente l’idoneità tecnico professionale, dove la sussistenza documentata di tutti i requisiti fissati dal D.P.R. n° 177/2011 occupa, visto il lavoro da effettuare, una parte fondamentale, e poi attuare quanto operativamente richiesto dall’art. 26 comma 1, lett. b) e comma 2. Il tutto deve poi essere consolidato all’interno del DUVRI che dovrà prevedere anche quanto previsto all’art. 3 del D.P.R. n° 177/2011 e dovrà essere contestualizzato in funzione della specifica operazione da eseguire nell’ambiente sospetto d’inquinamento o confinato. La contestualizzazione del DUVRI potrà avvenire con il Permesso di Lavoro che se, ben strutturato e concretamente applicato, prevedrà quanto necessario per eseguire i lavori in sicurezza, ivi compresa la gestione di eventuali emergenze.

Analogo discorso se i lavori che espongono i lavoratori al rischio derivante da attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati si debbano svolgere in un cantiere edile o d’ingegneria civile dove, le regole da applicare per il principio di specialità sono quelle del Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008. Qui sarà il CSP a prevedere ed integrare nel PSC le regole previste dal D.P.R. n° 177/2011 mentre toccherà al committente verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa che eseguirà i lavori anche in riferimento ai requisiti previsti per operare negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Sarà poi il CSE a verificarne, sul campo, la concreta applicazione.

Quindi, se le norme oggi vigenti (art. 26 e Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) sono applicate correttamente e compiutamente, l’eventuale certificazione dei contratti di appalto da parte degli organi abilitati alla certificazione (art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003), risulta inutile e costituisce solo un aggravio burocratico. Infatti, se per sostituire il galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio citata nell’esempio, un appaltatore impiega meno di un’ora, rispettando quanto previsto nel Permesso di Lavoro, altrettanto non può dirsi per la certificazione di questo appalto, visto che l’istruttoria ha solo l’obbligo di concludersi e comunicarne l’esito entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta e ciò con le conseguenze facilmente immaginabili.

Inutile, poi, segnalare che la maggior parte degli organi abilitati, indicati all’art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003, non hanno neanche lontanamente le competenze per effettuare una verifica tecnica su documenti presentati e ciò senza neanche dimenticare che, ad oggi, non esiste uno standard unico che indichi quali debbano essere i documenti tecnici da presentare con la richiesta di certificazione.

In conclusione, si reputa che le norme di legge oggi vigenti, se correttamente e compiutamente applicate, sono ampiamente in grado di rendere superflua la certificazione dei contratti d’appalto, fermo restando, visto quanto oggi previsto dal D.P.R. n° 177/2011, l’obbligo di certificazione del contratto di lavoro se diverso da quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infine, non sarebbe una cattiva idea creare un apposito Albo delle imprese che operano negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, alla stregua di quanto fatto per l’amianto e la bonifica da ordigni bellici e “normare” seriamente questa tipologia di lavori modificando il D. Lgs. n° 81/2008 con l’introduzione di uno specifico Titolo.

Le risposte di Carmelo G. Catanoso alle domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto? Perché?

Carmelo G. Catanoso: Il D.P.R. n° 177/2011 richiede la certificazione solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia stato costituito con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; in questo caso, il regolamento prevede che i relativi contratti di lavoro siano certificati ai sensi del D. Lgs. n° 276/2003. L’oggetto della certificazione è il rapporto di lavoro mentre è solo al comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n° 177/2011, che viene ribadito il divieto, per le attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, del ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del D. Lgs. n° 276/2003. Su questo argomento è chiara anche la Nota del MLPS n. 37/0011649 del 27/06/2013.

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati? Perché?

Carmelo G. Catanoso: La certificazione, richiesta dal D.P.R. n° 177/2011, riguarda solo i contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato e non altro (ad eccezione dei subappalti). L’obiettivo è chiaro ed è quello di evitare di avere personale “reclutato all’occasione” per operare all’interno di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, non in possesso di adeguate competenze (conoscenze e capacità documentate) e requisiti psicofisici adeguati. Analoga logica c’è dietro la previsione della certificazione del subappalto; si vuole evitare che un’impresa appaltatrice dopo aver acquisito i lavori da svolgersi in ambienti confinati o sospetti d’inquinamento, subappalti gli stessi ad un’altra impresa senza che questa sia in possesso dei requisiti minimi indicati dal D.P.R. n° 177/2011 nonché mezzi, organizzazione, personale per operare in questi particolari e pericolosi ambienti. Ricordo, infine, che per quanto riguarda la verifica dell’idoneità tecnico professionale, esiste una norma di rango superiore (art. 26 comma 1, lett. a) del D. Lgs. n° 81/2008) che già individua precisi obblighi a carico del datore di lavoro committente che appalta lavori all’interno della propria azienda o unità produttiva. Stesso discorso se i lavori in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati sono eseguiti all’interno di un cantiere edile o d’ingegneria civile (Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) non solo da un committente che è anche datore di lavoro ma anche da un committente che datore di lavoro non è (art. 90 comma 9 del D. Lgs. n° 81/2008). Infine, vale la pena di ricordare che in questo caso, l’allegato XVII renderebbe superflua anche la certificazione del subappalto, visto che al p. 3 viene chiesto al datore di lavoro dell’impresa affidataria di verificare l’idoneità tecnico professionale del subappaltatore con gli stessi criteri che sono stati utilizzati dal committente nei suoi confronti (p. 1 dell’allegato XVII). In conclusione, le norme esistono già e basterebbe applicarle concretamente e seriamente senza bisogno di aggiungerne altre che, sovrapponendosi alle esistenti creano confusione e forniscono, a chi non ha mai voluto far nulla, un ennesimo alibi per continuare a non fare nulla.

La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011?

Carmelo G. Catanoso: In questo caso non c’è differenza di opinione o d’interpretazione, perché oggi ciò che è soggetto a certificazione è il rapporto di lavoro e l’eventuale subappalto. Niente altro. Altrimenti, il rischio che si corre è quello di far passare per obbligo di legge ciò che obbligo di legge non è.

In merito all’applicabilità ed alle interpretazioni delle leggi in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in Italia, in generale, va detto che il nostro sistema prevenzionale è un sistema da “manutenzione a guasto”: dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.

Sia il D. Lgs. n° 81/2008 (pubblicato dopo i tragici fatti di Torino nel dicembre 2007)  che lo stesso D.P.R. n°177/2011 (pubblicato dopo i tragici fatti di Molfetta, Cagliari, Mineo, Capua, ecc.), sono la prova che in Italia si legifera solo sotto spinte emozionali ed emergenziali (molo probabilmente, il prossimo intervento riguarderà, dopo i 10 morti di Modugno (BA), le fabbriche di fuochi artificiali).

Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il “prodotto” non è mai granché per almeno un paio di motivi:

– si lavora di fretta, dopo fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;

– non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole “normare” e che, quindi, hanno conoscenza approfondita “dal di dentro” delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.

E quando parlo di “attori” che operano sul campo, non mi riferisco ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc.. Parlo di soggetti “indipendenti” in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.

Comunque, vista l’attuale situazione, quel che ne viene fuori, con questi presupposti, sono “regole” frutto di visioni che risentono sia del poco tempo disponibile che, soprattutto, delle conoscenze esperienziali dei soggetti coinvolti nella redazione ma che, pur indubbiamente pregevoli, essendo maturate in campi particolari (in genere in attività ispettive), non possono che risentirne nella percezione e visione delle dimensioni e complessità effettive del problema.

Pertanto, ciò che ne scaturisce, è quasi sempre un prodotto frutto di una visione particolare che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise con gli attori che saranno chiamate ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.

Esempio emblematico è proprio quello degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati dove il “mandato” per il legislatore era relativo alla definizione di un Regolamento per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ma che invece si è esteso, con l’art. 3 (procedure di sicurezza), in un ambito che evidentemente non padroneggiava a sufficienza, visto, ad esempio, quanto scritto a proposito delle attività informative di cui al comma 1. Eppure sarebbe bastato dare un’occhiata alla tanta letteratura tecnica ed alla tanta esperienza operativa soprattutto in chi, il problema Spazi Confinati, lo vive “dal di dentro”.

 

La risposta di Flavia Pasquini(Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

  1. Secondo la vostra Commissione e in relazione alla normativa vigente è corretto ritenere obbligatoria, ai sensi del DPR n. 177/2011, la certificazione dei contratti di appalto e subappalto? Ci sono casi in cui, a vostro parere, non è mai da ritenere obbligatoria? E in questi casi è comunque opportuna?

Flavia Pasquini: In mancanza, per quanto consta, di pronunce giurisdizionali e chiarimenti Ministeriali sul punto, ad avviso della Commissione una interpretazione sistematica del DPR n. 177/2011 dovrebbe condurre a ritenere obbligatoria la certificazione, oltre che di tutti i subappalti in luoghi confinati, anche degli appalti laddove siano possibili e/o rintracciabili interferenze (temporali o spaziali). In ogni caso, anche considerando possibili difformità di interpretazione da parte degli organi ispettivi e nell’ottica di un ulteriore controllo sulla qualificazione dell’impresa esecutrice, anche in mancanza di interferenze può comunque risultare cautelativo ed opportuno procedere alla certificazione del contratto di appalto. Inoltre, nel caso di appalto a un consorzio (è simile l’ipotesi della A.T.I. negli appalti pubblici), laddove l’appaltatore proceda ad affidare l’attività in luogo confinato ad una consorziata, sebbene quest’ultimo negozio di affidamento non sia tecnicamente un subappalto, ad avviso della Commissione è comunque opportuna la certificazione, in considerazione della sostanziale vicinanza tra il negozio di affidamento e il subappalto.

La risposta di Flavia Pasquini alla domanda di Massimo Peca:

  1. Qual è la ragione per cui la vostra Commissione, tra i vari documenti, chiede alle aziende che intendono ottenere la certificazione (sia del rapporto di lavoro che per gli appalti), quelli inerenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; come e da chi vengono valutati?

Flavia Pasquini: Benché non tenutavi ai sensi dell’interpretazione letterale del citato DPR n. 177/2011 e senza per ciò stesso potersi né volersi sostituire nei controlli e nelle responsabilità in carico alla committente principale per effetto dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, la Commissione ritiene che il proprio ruolo non possa esaurirsi nella sola verifica formale della correttezza del documento contrattuale. I documenti vengono valutati da parte dei membri della Commissione.

Le risposte di Flavia Pasquini alle domande di Carmelo G. Catanoso:

  1. Non ritiene che il legislatore sia andato oltre il proprio mandato quando, in aggiunta ai requisiti per la qualificazione delle imprese (viste le previsioni degli articoli 6, comma 8, lettera g), e 27 del D. Lgs. N. 81/2008), ha inserito l’art. 3 del DPR n° 177/2011 riguardante le procedure di sicurezza la cui vaghezza e imprecisione ha generato molta confusione e il proliferare di interpretazioni non certo univoche?

Flavia Pasquini: L’art. 3 in questione prevede la disciplina delle procedure di sicurezza in senso stretto all’interno del terzo comma. Tali procedure si riferiscono alle procedure di emergenza che, considerati la specificità dell’attività ed i rischi ad essa connessi, appaiono coerenti con la ratio della norma di realizzare un sistema di qualificazione delle imprese. Infatti, le procedure di emergenza costituiscono un elemento organizzativo fondamentale per potere operare nel settore.

  1. Cosa ne pensa dell’introduzione di un apposito “Albo” per le imprese e i lavoratori autonomi qualificati per operare negli ambienti confinati e negli ambienti sospetti d’inquinamento?

Flavia Pasquini: Potrebbe sicuramente trattarsi di un utile strumento, soprattutto in un’ottica di semplificazione degli oneri e degli adempimenti a carico delle imprese. In caso di affidamento di lavori, servizi e forniture, infatti, la normativa vigente (cfr. art. 26 d.lgs. 81/2008) pone in capo al datore di lavoro committente l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dei lavoratori autonomi e delle imprese appaltatrici. Posto che quest’obbligo riguarda anche l’affidamento di attività da eseguirsi all’interno di ambienti sospetti di inquinamento o confinati, l’istituzione di un apposito Albo presso il quale siano tenuti ad iscriversi i soggetti che intendano operare in quest’ultimo settore potrebbe incidere positivamente sull’efficienza del relativo mercato, riducendo gli oneri di verifica e di produzione documentale incombenti sulle imprese per ogni singolo appalto. Ciò, ovviamente, a condizione che l’iscrizione all’Albo sia subordinata alla verifica del possesso di tutti i requisiti prescritti dal D.P.R. n. 177/2011.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la prima parte dell’intervista…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la seconda parte dell’intervista…

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Problemi normativi 01: come verificare le interferenze negli spazi confinati?

 

Non c’è nulla da fare, malgrado abbiamo in Italia – a detta almeno dell’ex magistrato Raffaele Guariniello – ottime leggi,  in materia di salute e sicurezza, tuttavia non mancano le criticità, le oscurità, le difficoltà interpretative. Non mancano i dubbi negli operatori, non mancano le scappatoie per chi ha una visione solo formale della normativa, non sfuggono le differenze interpretative tra gli stessi ispettori e controllori, regionali o statali, del Testo Unico e dei testi correlati.

Probabilmente abbiamo effettivamente una buona legislazione, ma è doveroso non solo riconoscerne la complessità (aumentata dalle migliaia di proroghe e rimandi che rendono incomprensibile e inapplicate le norme), ma anche rilevare la tendenza italiana a normare con la pressione delle emergenze, degli equilibri di potere e delle convenienze. E in questo modo non sempre le norme arrivano da riflessioni motivate, verificate e comprovate da dati reali.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Miriadi di errori nelle normative. Ruscelli impetuosi di dubbi arginati a malapena dagli interpelli. Ritardi continui nei decreti attuativi che spesso ci costano messe in mora dall’Unione Europea e che comunque rendono la normativa incompleta e inefficace. Con Testi Unici che non riescono ad unificare e obiettivi che non vengono raggiunti, come nel caso dell’infinita proroga degli adempimenti antincendio per scuole e alberghi.

 

Un esempio delle cattive conseguenze di questo modo di legiferare mi è parso emblematico e mi ha spinto qualche settimana fa a realizzare e pubblicare su PuntoSicuro, attraverso un originale format comunicativo, una sorta di intervista interattiva a tre persone, rappresentanti di un modo diverso, per idee, competenze e mission, di interpretare e utilizzare la normativa in materia di sicurezza e salute.

Stiamo parlando dell’interpretazione del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Un DPR scandito dalle emergenze di una serie di infortuni mortali avvenuti in spazi confinati e inizialmente depositato, nella fretta, con un errore nel titolo: “confinanti” al posto di “confinati”.

 

Riguardo a questo DPR un articolo di PuntoSicuro ha presentato il 7 novembre 2016 un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”). L’intervento ricordava quanto richiesto dal DPR e si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”.

 

L’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Un’indicazione correlata alla ratio e agli obiettivi della normativa con riferimento specifico anche a quanto contenuto nella nota 11649 del 27 giugno 2013 del MLPS.

Tuttavia in risposta alle sue parole, su PuntoSicuro alcuni commenti  hanno successivamente ribadito che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista interpretativi e per cercare eventuali punti di contatto ho realizzato un’intervista a più voci: un’intervista in cui le domande non sono elaborate solo dal giornale, ma anche da ciascun interlocutore che ha avuto la possibilità di proporre a sua volta una o due domande per gli altri intervistati.

 

Continuiamo riprendendo le parole dell’articolo di PuntoSicuro e della prima parte dell’intervista. Nei prossimi giorni pubblicherò sul blog anche la seconda parte…


A questa inusuale forma di intervista hanno gentilmente partecipato:

Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza) che, come abbiamo mostrato, ha presentato l’intervento al convegno sugli spazi confinati;

Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza) che ha commentato criticamente l’intervento;

Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) che su queste tematiche relative alla certificazione ex 171/2011 si è confrontata in passato all’interno della propria Commissione di Certificazione.

 

Per chiarezza riportiamo anche un breve estratto della parte dell’articolo 2 del DPR 177/2011, il punto c) del comma 1, che fa riferimento alla certificazione dei contratti:

Art. 2 Qualificazione nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati

1. Qualsiasi attivita’ lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati puo’ essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti:

a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze;

b) integrale e vincolante applicazione anche del comma 2 dell’articolo 21 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nel caso di imprese familiari e lavoratori autonomi;

c) presenza di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione, in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale esperienza deve essere necessariamente in possesso dei lavoratori che svolgono le funzioni di preposto;

(…)

(…)

Partiamo oggi dalle risposte di Massimo Peca alle domande di Flavia Pasquini, Carmelo G. Catanoso e PuntoSicuro.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto?

Massimo Peca: Di entrambi.

Perchè?

Massimo Peca: Il termine “appalto” è riportato nell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011 ed è condizionato dalla frase “…in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati…”.

Chiaramente, l’impiego di lavoratori “appaltati” si riferisce a quelli aventi un rapporto di lavoro (di qualsiasi tipo) con le imprese a cui si appalta il lavoro da svolgere e la stessa definizione di “lavoratore” credo che vada intesa nel senso più ampio, quindi comprendendo quelli autonomi. Questa, in buona parte, è la stessa filosofia dell’articolo 2, comma 1, lettera a) del DLGS 81/2008 ed è una delle notevoli differenze tra la legislazione giuslavoristica (prevalentemente amministrativa) e quella che garantisce la salute e la sicurezza del lavoro (prevalentemente penale). Basti pensare, ad esempio, anche alla definizione di “datore di lavoro” contenuta nell’articolo 299 del medesimo decreto legislativo.

 

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati?

Massimo Peca: Sì.

Perchè?

Massimo Peca: Lo deduco dall’ampio contenuto della frase: “…ovvero con altre tipologie contrattuali…” dell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011. D’altra parte, se non fosse così, ci sarebbe una inspiegabile discriminazione tra lavoratori, con la conseguente diminuzione delle tutele imposte dal DPR, non certo da tutte le altre norme.

L’unica ed espressa esenzione di alcuni obblighi, sono quelli per il datore di lavoro che impiega direttamente i suoi lavoratori per svolgere attività negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui ha la “disponibilità giuridica”. 

Le tutele/obblighi del DPR 177/2011 sono estesi perfino ai lavoratori autonomi e, in parte, alle imprese familiari. Difformemente dal DLGS 81/2008. Penso che anche questo decreto legislativo non dovrebbe fare nessuna differenza tra lavoratori, se non altro perché i costi sociali della mancata prevenzione sono a carico di tutta la collettività nazionale. Quindi, mi sembra chiara la portata generale del DPR relativamente alle attività preventive che devono essere garantite, sebbene, tale regolamento, non innova quasi per nulla quanto già previsto dal DLGS 81/2008. Anzi. Lo stesso concetto di “qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi” non serve ad altro se non a stabilire una qualità del lavoro che deve servire a tutelare chi lo svolge. Chiunque sia. Questo lo condivido, ma, come ho detto: “… è un problema generale per tutti gli ambienti di lavoro…”. 

—–

 

Domande di Carmelo Catanoso:

Dal suo intervento presentato su PuntoSicuro, lascia intendere che una eventuale certificazione anche dei contratti d’appalto, sia auspicabile in quanto in grado di apportare dei benefici nella gestione delle attività negli “spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento”. Può spiegare quali siano i benefici concreti che tale adempimento può produrre nella gestione operativa della sicurezza?

Massimo Peca: Come ho già avuto modo di dire, l’obbligo di certificazione dei contratti di appalto mi sembra chiaro.

Un beneficio concreto è quello relativo alla verifica dell’organizzazione della sicurezza, sia della sua progettazione che della gestione del lavoro da svolgere, che si può attuare attraverso l’iter della certificazione da parte di un organismo esterno, presumibilmente esperto nella materia, altrimenti assente, senza considerare le figure preposte a tali funzioni dal DLGS 81/2008.

La prova di quanto affermo sono le incredibili e numerose tipologie di criticità rilevate durante la mia esperienza (anche di chi le dovrebbe controllare), risolte proprio con questa analisi dei requisiti necessari. Tutti previsti dall’articolo 2, comma 1 del DPR 177/2011.

Questa “analisi critica”, trasparente e prestabilita anche nei contenuti, l’ho sempre adottata come fase pre-istruttoria alla presentazione formale della domanda di certificazione ed ha risolto moltissimi problemi, elevando il grado di sicurezza delle ditte affidatarie o subappaltatrici, nonché creando una maggior consapevolezza e conoscenza dei problemi da parte dei committenti. Con questo sistema, la certificazione si ottiene in pochi giorni, mentre la durata del lavoro preparatorio e inversamente proporzionale alla quantità degli inadempimenti riscontrati e corretti “in corso d’opera”.

Questa attività di consulenza, assistenza, promozione e prevenzione è quella prevista e mutuata dall’articolo 4 del DM 21 luglio 2004, dall’articolo 81 del DLGS 276/2003 e dal DLGS 124/2004. Quindi, nulla di improvvisato o innovativo, ma cogente.

Nei casi di lavori urgenti, indifferibili a mio avviso e tramite una modifica legislativa, si dovrebbe utilizzare la procedura già prevista per le rimozioni urgenti dell’amianto (articolo 256, comma 5). In tal caso, la certificazione avverrebbe in un secondo tempo e le contravvenzioni riscontrate dovrebbero impedire a chi ha effettuato i lavori di poterne fare degli altri, oltre che essere contestate dall’organo di vigilanza. In poche parole: libertà e responsabilità.

Forse è questo il metodo apprezzato da molti ed è stata la ragione della partecipazione al V convegno nazionale sugli ambienti confinati.

Se questi non sono “benefici concreti” per la tutela dei lavoratori, non so quali possano essere: conciliare le esigenze normative con le necessità delle aziende.

Nella relazione che ho presentato al convegno, sintetizzata dalla redazione di Puntosicuro nell’articolo citato, ho elencato le maggiori criticità rilevate. Mi pare che parlino da sole. Certo, sono solo il frutto della mia esperienza locale, quindi non generalizzabili. Ma non credo siano rare.

Inoltre, nella relazione ho affermato chiaramente di sapere che il DPR 177/2011 non prevede espressamente la valutazione delle condizioni in cui sono chiamati ad operare i lavoratori, ma si giunge a questa salutare “ingerenza” sia perché il comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 prevede la necessità di allegare il DURC al contratto di appalto, e questo documento costituisce già una prima fonte di verifica da parte del certificatore, ma anche perché è necessario valutare in concreto la qualificazione delle imprese che operano in tali ambienti mediante, almeno, l’analisi degli aspetti principali previsti dal già citato articolo 2, comma 1: in sostanza tutto il DLGS 81/2008.   

Su questo punto, concorda perfino un esperto e critico della materia come Adriano Paolo Bacchetta. A tale proposito si veda quanto riportato nel suo articolo su PuntoSicuro: “…è necessario andare oltre a quanto strettamente previsto dal D.Lgs. 276/2003; ovvero ogni Commissione di certificazione, a prescindere dal soggetto giuridico che ne ha disposto la costituzione, deve quindi avere adeguate competenze per verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti di natura strettamente giuslavoristica sopraelencati, anche altri aspetti peculiari richiesti dal D.P.R. 177/2011 per la qualificazione delle imprese, quali l’effettiva presenza dei requisiti previsti dall’art. 2 c1..”.

Quindi, presumendo la presenza di un componente qualificato nella commissione di certificazione (non previsto), se vogliamo concretamente fare prevenzione questa è una strada offerta da questo DPR.

Se, invece, si vuole disquisire fra teorici del diritto (ed io non lo sono) possiamo appellarci alle definizioni del codice civile e di tutte le altre leggi che regolano i rapporti economici del lavoro. Nella mia relazione ho espresso inequivocabilmente la mia contrarietà a questo DPR ed ho evidenziato i difetti che contiene, proponendo un’alternativa. Ho in mente altre modifiche che potrei evidenziare, se ne avrò l’opportunità.

Ma, attualmente, questa è la legge. Cerco di usarla nel miglior modo possibile per il fine che essa si pone: la tutela della vita dei lavoratori. 

 

Cosa ne pensa della decisione del legislatore di limitare ai soli committenti che sono anche datori di lavoro, gli obblighi previsti dal DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Mi pare di capire che intende riferirsi, in sostanza, all’esclusione dell’obbligo di certificazione e della nomina di un incaricato per la supervisione dei lavori svolti presso aziende in cui il datore di lavoro impiega i propri lavoratori per effettuare attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui abbia la disponibilità giuridica. 

Se è così, e seguendo la logica del DPR, penso che sia un errore, dovuto all’equivalenza che si fa in questo DPR tra certificazione del contratto di lavoro e garanzia, che questa offre, della presenza di condizioni ottimali inerenti la sicurezza/salute.

Nel caso delle prerogative concesse a questi datori di lavoro, presumere che sia superfluo certificare un contratto di lavoro, solo perché è già instaurato stabilmente e questa “stabilità” garantisca un lavoro svolto in sicurezza, ed inoltre, il datore di lavoro abbia tutte le necessarie conoscenze per controllare l’esecuzione delle attività da svolgere, è quantomeno poco reale in moltissimi casi. In altri è plausibile. Ad esempio, penso al settore chimico e dei servizi pubblici di fornitura di acqua, metano o telefonia.

In generale, mi sembra una pericolosa presunzione dell’effettiva presenza della prevenzione legata solo all’astratto obbligo del rispetto della legge. Secondo me, la regolarità del rapporto di lavoro non garantisce affatto che questo si svolga in modo sicuro e salutare, tutt’al più può rappresentare un indizio positivo.

Basti pensare che perfino nelle aziende con certificazioni OHSAS 18001 (e simili) o in quelle a rischio di incidenti rilevati (DLGS 105/2015) si verificano infortuni e malattie professionali, gravi e gravissimi.

Con questo non voglio dire che bisogna certificare tutto e sempre, come sarebbe logico aspettarsi da questo DPR, che segue la logica nostrana di prevedere inizialmente obblighi generali e poi introdurre distinzioni e deroghe.

Al contrario, come ho già detto nella mia presentazione al Convegno, bisognerebbe usare in sua vece la qualità della vigilanza e non la quantità, molto più efficace. Anche perché, durante lo svolgimento di questa funzione, si hanno tutti i poteri di polizia giudiziaria che, invece, mancano nell’iter della certificazione: una miscela mal riuscita di tutele giuslavoristiche e della salute/sicurezza dei lavoratori. 

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Domanda di Tiziano Menduto (PuntoSicuro): 

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Sicuramente dall’ambiguità del DPR, dalla sua incompletezza a cui si devono aggiungere le naturali predisposizioni dovute alle diverse attività professionali svolte.

Auspico delle modifiche sostanziali che rendano efficace un provvedimento normativo scritto con una fretta relativa, sebbene condivisibile nello scopo, ma molto discutibile nella sua applicazione quotidiana, di cui la certificazione è senz’altro il tratto caratteristico e sicuramente quello più inapplicato perché eluso, che ripropone un vecchio schema burocratico, pressoché medioevale: un atto di garanzia concesso da terzi, senza il quale si è interdetti ad operare.   

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

 

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati