Spazi confinati 05: strumenti e formazione per ridurre gli infortuni

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Documenti Inail e strumenti per la formazione. Intervista a Luciano Di Donato, DIT Inail.

IndagineSicurezza”, blog di riflessione e di approfondimento sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro in Italia, ha ospitato in questi anni diversi materiali e interviste realizzate sul tema degli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un ambito, quello degli spazi confinati, che continua a mietere vittime, come recentemente avvenuto, a fine maggio 2021, per due operai che sono morti per esalazioni di vapori tossici all’interno di una vasca di lavorazione. E tutto questo malgrado anche normative ad hoc – come il Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 – che insieme al D.Lgs. 82/2008 dovrebbero garantire una adeguata tutela per i lavoratori che lavorano in questi ambienti.

Se l’ultimo post ha presentato uno studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludiamo questa piccola inchiesta, costruita con interviste da me realizzate per il giornale online PuntoSicuro, con le risposte dell’ing. Luciano Di Donato (Responsabile del Laboratorio II – macchine e attrezzature di lavoro Dipartimento DIT dell’Inail) riguardo ad alcune ricerche e alcuni documenti (tre factsheet) pubblicati dall’Istituto:

  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Aspetti legislativi e caratterizzazione”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Formazione in aula e addestramento in campo”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Prodotti di ricerca dell’Istituto”.

Questi tre factsheet possono offrire molti spunti per chi si occupa, anche dal punto di vista formativo, della prevenzione degli infortuni in questi ambienti. 

L’intervista, realizzata nel mese di maggio 2021, è stata pubblicata su PuntoSicuro nell’articolo “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”.

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In relazione ai tanti infortuni mortali che avvengono negli ambienti confinati il nostro giornale si è spesso soffermato sulle problematicità e carenze, anche a livello normativo. Cominciamo a parlare di questo nuovo progetto Inail partendo dalle norme. Quali sono quelle di riferimento e quali sono le principali criticità?

Luciano Di Donato: In merito a questo primo quesito voglio intendere il termine norma nel senso più ampio della parola e quindi includere in questo termine la legislazione applicabile che oggi è rappresentata dal D.lgs. 81/2008, norma sulla sicurezza del lavoro, e dal Dpr 177/2011, regolamento per la qualificazione delle imprese che operano in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento.

È invece, in corso di sviluppo, un progetto di norma tecnica (UNI) specifica per l’argomento con l’obiettivo di curare alcuni aspetti non completamente definiti dalla legislazione applicabile.

Le principali criticità della nostra legislazione sono:

  • Una mancanza di definizione di ambiente confinato e/o sospetto di inquinamento;
  • L’esistenza di un elenco non esaustivo di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento;
  • La mancata definizione di criteri, modalità, contenuti e durata per la formazione e l’addestramento dei lavoratori.         

I suggerimenti per risolvere le criticità di cui all’elenco possono evincersi da una lettura completa delle risposte a tutte le domande formulate oltre, per evitare ridondanze, dalla lettura dei factsheet prodotti.

Nei factsheet pubblicati sono presentati alcuni dati e si fa riferimento anche agli ambienti “assimilabili” e alla cosiddetta “catena della morte”. Cosa si intende e perché quest’ultima è spesso correlata agli infortuni che avvengono in questi ambienti?

LDD: I dati pubblicati derivano da una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro e non possono considerarsi dati statistici, rappresentano però una importante raccolta di casi che vogliono essere di indirizzo a chi lavora in questo campo. 

Con il termine assimilabili (anche questi riportati negli istogrammi), si intendono tutti quegli ambienti che hanno medesimi pericoli e conseguenti rischi di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento ma non inclusi in quelli descritti nei pertinenti articoli del DLgs. 81/2008

Il termine tragica catena di morte fu usato la prima volta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e pubblicato sulla cronaca della Repubblica dopo il grave infortunio con la morte di 5 lavoratori a Molfetta in una autocisterna. Viene ancora utilizzato perché per la tipologia degli ambienti dove questi infortuni accadono (ristretti, con difficoltà di ingresso e di uscita, inquinati e con una non facile applicazione delle fasi dell’emergenza) se fallisce la procedura di sicurezza (perché non adeguatamente realizzata o addirittura mancante), al primo lavoratore coinvolto seguono altri che nell’intento di soccorrere il compagno cadono vittima della stessa situazione pericolosa.

Se non è stata fatta una adeguata analisi e valutazione del rischio che tenga conto anche di una progettazione dell’emergenza questa catena si ripete. Non a caso parlo di progettazione dell’emergenza perché in alcuni casi si può arrivare a dover dissaldare parte di un serbatoio per salvare l’operatore che per qualsivoglia motivo è diventato non collaborante. 

Come si è sviluppato il vostro lavoro di ricerca e quali sono le criticità che avete riscontrato per la sicurezza in questi ambienti? Quanto è importante la formazione per prevenire efficacemente gli infortuni?

LDD: Le attività di ricerca hanno riguardato dapprima l’analisi dell’incidentalità e letalità correlate con le attività lavorative da svolgere in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e, successivamente, si sono concentrate nello studio di misure tecnico-organizzative per operare in sicurezza in tali ambienti. I risultati delle ricerche hanno permesso la progettazione di un simulatore fisico in grado di riprodurre diverse possibili condizioni di lavoro tipiche che caratterizzano gli ambienti in esame; il simulatore ha, poi, permesso di sperimentare specifici percorsi formativi e di addestramento da erogare agli operatori di settore.

La formazione, sia in aula che in campo, con enfasi all’apprendimento esperienziale consentito anche dall’uso del simulatore, diventa, quindi, un’attività fondamentale per accrescere la consapevolezza dell’operatore relativamente al corretto utilizzo della strumentazione, dei DPI e delle attrezzature di lavoro anche ai fini dell’emergenza. Tutto quanto sopra, col fine di realizzare una efficace applicazione della procedura di lavoro che, può crearsi anche a seconda della tipologia di ambiente per il quale viene richiesta la formazione e l’addestramento.

In cosa consiste la formazione esperienziale che avete messo a punto e come è stata applicata nei percorsi formativi nel 2020?

LDD: I lavoratori apprendono facendo: l’uso del simulatore fisico (passi d’uomo, tecnologia per il controllo delle azioni e per l’alterazione delle condizioni cognitive) nonché delle attrezzature a corredo (barella, fit test, sistema di sollevamento a sbraccio variabile, ecc) hanno consentito una esperienza realistica delle operazioni da compiere in emergenza.

Questa modalità, di fatto, forma le abilità richieste non solo attraverso l’addestramento diretto ma anche risolvendo le incertezze che possono sorgere in campo.

Proprio per questo, a valle dell’addestramento pratico, si è previsto un momento di confronto in aula dedicato a tutti dubbi (appositamente raccolti in forma anonima) insorti durante l’addestramento.

Questo iter aiuta anche i formatori a trovare insieme con i lavoratori e i datori di lavoro coinvolti nuove soluzioni operative, ancora una volta un apprendere facendo. Il percorso aiuta a risolvere gli inevitabili imprevisti che accadono e che, in un ambiente di simulazione protetto e sicuro, non portano ad incidenti (ma portano esperienza). Imprevisti che se accadessero nella realtà potrebbero essere mortali. 

Lei ha sottolineato l’importanza, per la formazione e l’addestramento, del simulatore fisico. Come è stato realizzato? Con quali criteri e risultati?

LDD: L’idea del simulatore, è nata diversi anni fa attraverso una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro che aveva, come obiettivo, la realizzazione di un serious game per innalzare le capacità di comprensione dei pericoli e conseguenti rischi dei lavoratori qualificati per operare in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento. La sua realizzazione è stata la risposta concreta ad un periodo di infortuni gravi e mortali che si ripetevano con grande frequenza e che coinvolgevano un numero, per incidente, molto elevato di lavoratori (un lavoratore e quattro colleghi/soccorritori morti in un solo caso – strage di Molfetta).

Il simulatore è stato realizzato utilizzando un container trasportabile dotato di strumentazione di controllo e con sistemi di alterazione della capacità cognitive dei lavoratori che possono manifestarsi anche durante l’esercitazione, simulando di fatto, una condizione critica in itinere. Molti casi di infortunio evolvono nelle fasi di lavorazione per il cambio nel tempo delle condizioni dell’ambiente o addirittura (vedi attività di saldatura o lavorazioni sul piano stradale) dove i fumi e/o gas invadono l’ambiente che era stato preventivamente bonificato.

L’idea del trasporto è stata vincente perché già alcune multinazionali (appena prima dell’avvio della pandemia) hanno portato presso la loro sede il simulatore formando, con la nostra assistenza, il personale operante e qualificato per quelle tipologie di lavoro.

I criteri che ne hanno guidato la progettazione sono stati quelli di avvicinarsi quanto più possibile, in un ambiente protetto, alle condizioni reali operative anche per il salvataggio in emergenza. I risultati, per ora – benchè i dati non siano sufficienti per poter parlare di statistica – sono davvero interessanti. Le interviste pre formazione/ addestramento e quelle in uscita hanno mostrato che il sistema funziona e si innalzano le capacità di attenzione ai pericoli e rischi dei lavoratori impiegati oltre ad un innalzamento della cultura della sicurezza perché praticata appunto in modo esperienziale. 

Nei factsheet si parla sia di simulazione fisica che di simulazione virtuale e di realtà aumentata. Quali sono le differenze e le specificità?

LDD: I vantaggi principali e rappresentativi della realtà virtuale ed aumentata sono essenzialmente quelli di poter ricreare un qualsivoglia ambiente anche molto complesso con l’obiettivo di: effettuare valutazioni e scelte appropriate, fare una panoramica della situazione, considerando le condizioni del momento e il rischio correlato, esercitarsi a stimare il rischio potenziale correlato all’evoluzione della situazione; allenarsi a reagire a contingenze e fallimenti generati stocasticamente (cioè guasti, incendi, esplosioni, ecc.).

Pur essendo una tecnologia di cui non dobbiamo fare a meno, ed il laboratorio ha già lavorato su questo aspetto e continua a produrre soluzioni, attualmente non risolvono in modo completo ed esaustivo la fase di addestramento dei lavoratori ma rappresentano un ottimo rinforzo delle attività in aula. 

Il simulatore fisico consente di replicare le sensazioni fisiche relative ad operazioni tipiche: uso delle imbragature, uso della barella con movimentazione dell’operatore, uso del sistema di sollevamento a sbraccio variabile per le operazioni di recupero e salvataggio, nonché le possibili alterazioni delle prestazioni cognitive. Una formazione specialistica per essere tale deve preparare efficacemente e in modo completo alle condizioni di rischio standard e meno prevedibili. L’uso della realtà aumentata e virtuale per la rappresentazione di ambienti diversi e, di un simulatore fisico per la riproduzione di sensazioni fisiche e alterazioni cognitive in contesti lavorativi differenti, sono complementari e di fatto rappresentano un efficace sistema per ottenere una formazione che sia la più completa possibile.

Nei documenti prodotti avete parlato anche del Fit Test. Ricordiamo innanzitutto cos’è e perché è importante…

LDD: Prima di dire che cosa è le rispondo sul perché è importante eseguire il Fit test: è importante perché serve a verificare che le maschere e i facciali monouso delle vie respiratorie forniscano la giusta protezione e cioè che aderiscano bene al volto di chi li indossa. Infatti, barba, baffi, eventuali cicatrici o piccole difformità faciali ne possono compromettere l’efficacia.

Il Fit Test determina appunto la capacità della maschera o del facciale di mantenere la tenuta quando il lavoratore è in movimento. Per questo motivo gli utenti sottoposti al test devono completare diversi esercizi. Un DPI che si sposta durante il movimento potrebbe non essere in grado di mantenere la tenuta.

Esistono due tipi di test: qualitativi e quantitativi: nel caso di un Fit Test quantitativo (QNFT), che può essere utilizzato per qualsiasi maschera e facciale monouso aderente, questo prevede l’utilizzo di uno strumento per misurare le perdite intorno al volto e produce un risultato numerico chiamato Fit Factor che ci fornisce l’idoneità o meno del dispositivo per l’operatore che indossa il dispositivo.

Nelle attività in cui è necessario accedere a spazi confinati con dispositivi di protezione delle vie respiratorie questi test sono eseguiti?

LDD: Non è semplice rispondere a questa domanda. Alcuni casi di infortunio grave e mortale hanno individuato la causa nella scelta sbagliata del DPI (facciale filtrante, piuttosto che facciale isolato in un ambiente dove non c’era un adeguato livello di ossigeno) ma questo, non denota appunto, un corretto uso se finalizzato al modo di indossare il facciale piuttosto una scorretta analisi del rischio. Il fit test non è ritenuto cogente dalla nostra legislazione, ma ritengo, sia una pratica importante da seguire dove possano esserci ambienti di lavoro inquinati e/o con carenza di ossigeno.

Tutto, comunque, deve essere inizialmente valutato nell’analisi del rischio da effettuare prima di qualunque intervento.    

Concludiamo ricordando gli strumenti che l’Inail ha predisposto, oltre al progetto di alta formazione, informazione e addestramento, per gli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili. Ci saranno sviluppi futuri per questa attività di ricerca? E cosa auspicarsi per un miglioramento reale della prevenzione degli infortuni in questi ambienti a rischio elevato?

LDD: In relazione agli sviluppi della ricerca, stiamo già lavorando alla integrazione nel simulatore di sistemi di AG (Augmented Reality) e VR (Virtual Reality) con tecnologie integrate per simulare, in un ambiente virtuale, lo sforzo fisico che oggi non è possibile provare.

Infine, il miglioramento della prevenzione degli infortuni in questo caso passa attraverso:

  • Una prevenzione assistita;
  • Una definizione di criteri certi di formazione informazione ed addestramento del personale;
  • Una continua attività di ricerca per trovare nuovi sistemi e tecniche sicure per operare in questi ambienti.

Per il primo punto, possiamo citare le attività INAIL nella direzione di sconti sui premi assicurativi, nello specifico, nell’ultimo modello OT 23 – prevenzione degli infortuni mortali (non stradali) – è stata inserita la sezione A1 orientata agli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento mettendo in evidenza, tra le possibilità per ottenere questi sconti, la dimostrazione di avere sia la strumentazione (compresi robot) che formazione anche con simulatori. Questa è prevenzione, perché consente ai fruitori, di innalzare il grado di sicurezza con cui affrontare queste attività lavorative.

Per il secondo punto dalle attività con il simulatore vorrebbero arrivare delle proposte concrete, basate sull’esperienza della ricerca sul campo con cui proporre nelle sedi opportune un percorso formativo addestrativo virtuoso e di eccellenza che possa diventare un riferimento legislativo da seguire.

Infine, ad integrazione di quanto già risposto nella prima parte della domanda, un aspetto importante è l’attività di ricerca nel campo della robotica che, dove possibile, deve sostituire l’ingresso dell’uomo in questi ambienti. Anche su questo obiettivo, per altro molto ambizioso, il laboratorio sta lavorando.   

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”

Link ai tre factsheet prodotti dall’Inail

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Responsabilità sociale 01: se le imprese fossero socialmente responsabili

Malgrado le percentuali, a volte sbandierate con eccessiva leggerezza, sugli errori umani alla base degli infortuni professionali, è indubbio che se le imprese fossero “socialmente responsabili” avremmo meno incidenti e malattie professionali.

Essere socialmente responsabili per un’azienda vuol dire essere consapevoli dell’impatto delle proprie decisioni e attività sulla società e sull’ambiente, significa tener conto non solo degli aspetti economici della gestione aziendale, ma anche dell’ambiente e del contesto sociale in cui l’azienda è inserita, con riferimento alle condizioni di lavoro e, dunque, in relazione anche alle tutele in materia di salute e sicurezza.

Cosa bisogna fare per essere socialmente responsabili? Ci sono normative e indicazioni sulla responsabilità sociale d’impresa?

Per parlarne e fornire qualche informazione utile riprendo una mia intervista fatta qualche mese fa a Lucina Mercadante della Consulenza Accertamento Rischi e Prevenzione dell’INAIL che si è lungamente occupata della responsabilità sociale d’impresa, con particolare riferimento alla norma UNI ISO 26000Guida alla responsabilità sociale”. Intervista che è stata pubblicata   su PuntoSicuro del 24 maggio 2019 nell’articolo “La responsabilità sociale riguarda anche la tutela della sicurezza?”.

Ne riportiamo oggi la prima parte, rimandando la seconda parte, che si sofferma in particolare su due prassi di riferimento UNI, ad un futuro post.

Prima di arrivare ad affrontare le novità in materia di Responsabilità Sociale d’Impresa vediamo di ricordare brevemente ai lettori non solo cosa sia la responsabilità sociale nel mondo del lavoro, ma anche l’importanza e le finalità della norma UNI ISO 26000…

Lucina Mercadante: Inizio stimolante. Cosa è la responsabilità sociale d’impresa, mi domanda…

Potremmo dire “La responsabilità di ciascuno di noi, che ciascuno di noi ha nei confronti della società”. Se però dovessimo attenerci ad una definizione tecnica e tecnicamente corretta, attingendo all’unica norma internazionale che ad oggi tratti il tema della responsabilità sociale – delle organizzazioni, allora dovremmo intendere la “Responsabilità da parte di un’organizzazione per gli impatti delle sue decisioni e delle sue attività sulla società e sull’ambiente, attraverso un comportamento etico e trasparente che:

  • contribuisce allo sviluppo sostenibile, inclusi la salute e il benessere della società;
  • tiene conto delle aspettative degli stakeholder
  • è in conformità con la legge applicabile e coerente con le norme internazionali di comportamento);
  • è integrata in tutta l’organizzazione e messa in pratica nelle sue relazioni”.

Definizione, questa, certamente complessa ed articolata, che estende la tematica alle organizzazioni, intese come “Entità, o raggruppamento di persone e strutture, con un assetto di responsabilità, autorità e relazioni e con obiettivi identificabili”.

In sostanza è la “Responsabilità che le organizzazioni hanno nel gestire le loro occupazioni e/o preoccupazioni di carattere economico tenendo conto degli altri, laddove gli altri sono gli stakeholder – tutti – avendo in considerazione anche gli impatti e le conseguenze (soprattutto quelle negative) che le loro attività esercitano, anche nei confronti della società e dell’ambiente, oltre che dell’economia, a seguito ed in conseguenza delle decisioni assunte e delle attività intraprese da un’organizzazione, siano queste passate o presenti”.

Tale approccio, e tale visione, trovano sistemazione, organicità, sistematicità, appunto nella UNI ISO 26000, pubblicata nel lontano 2010 e che ad oggi non ha avuto, a mio avviso, il dovuto risalto e, soprattutto, la giusta diffusione.

Quali le ragioni di ciò?

Svariate:

  • la prima, seguendo un ragionamento prosaico e materiale  – la norma non è certificabile, è una linea guida infatti, dunque poco appeal per il mercato e il mondo delle certificazioni;
  • la seconda – troppo avanti rispetto al momento culturale in cui è stata pubblicata – anno 2010. Il mondo commerciale non era allineato con il quadro culturale, economico, produttivo che la norma sin da allora ha tracciato. Parlare di etica, di due diligence, di catena del valore, di corrette prassi gestionali, dieci anni fa, ha rappresentato un approccio ed una narrazione antesignani del modo di fare impresa.

Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile, di sostenibilità – oggi totalmente inflazionato, alterato, sovrausato, che rappresenta la finalità ultima, l’obiettivo verso una visione responsabile che ciascuno di noi, impresa, organizzazione, soggetto privato, deve avere ed assumere – è apparso come fumoso, inutile, se non addirittura privo di consistenza.

Eppure se si studia e interpreta il quadro sinottico della UNI ISO 26000 si comprende immediatamente come ogni possibile costruzione o itinerario si segua per mettere in piedi un modello di RS, la RS stessa appare come un modo di vivere, un tempo di vita, o meglio un tempo, kaiρos direi, nel senso etimologico più stretto.

Tempo che si sviluppa e realizza basandosi su sette principi fondamentali, che costituiscono l’ossatura dell’agire, e che sono la responsabilità di rendere conto, la trasparenza, il comportamento etico, il rispetto degli interessi degli stakeholder, il rispetto del principio di legalità, il rispetto delle norme internazionali di comportamento, il rispetto dei diritti umani, come riportato al punto 4 del quadro su rappresentato.

Dove tale agire deve essere applicato è invece raffigurato nel punto 6, che riporta gli ambiti di applicazione, definiti temi fondamentali, o core subjects.

Ciascun tema fondamentale si connota poi per aspetti specifici, detti core issues, che rappresentano le aree, proprie di quel determinato tema fondamentale, ove possono realizzarsi le correlate azioni ed attività socialmente responsabili.

Volendo esemplificare, preso in considerazione il tema fondamentale “rapporti e condizioni di lavoro” troveremo come aspetti specifici in cui andare a mettere in piedi azioni ed attività socialmente responsabili:

  1. Occupazione e rapporti di lavoro
  2. Condizioni di lavoro e protezione sociale
  3. Dialogo sociale
  4. Salute e sicurezza sul lavoro
  5. Sviluppo delle risorse umane e formazione sul luogo di lavoro

Ed all’interno di ciascuno dei 5 aspetti specifici citati l’organizzazione secondo coerenza, finalità, affinità, può scegliere il proprio agire che si estrinsecherà, preso ancor ad esempio l’aspetto specifico 4 – Salute e sicurezza sul lavoro – attraverso le correlate azioni ed aspettative che una l’organizzazione stessa potrà realizzare.

La UNI ISO 26000 propone:

“Un’organizzazione dovrebbe:

  • sviluppare, attuare e mantenere una politica della salute e della sicurezza sul lavoro basata sul principio che norme severe sulla sicurezza e la salute e le prestazioni dell’organizzazione si sostengono e si rafforzano reciprocamente;
  • comprendere e applicare i principi di gestione della salute e della sicurezza, compresa la gerarchia dei controlli: eliminazione, sostituzione, controlli tecnici, controlli amministrativi, procedure di lavoro e dispositivi di protezione individuale;
  • analizzare e controllare i rischi per la salute e la sicurezza generati dalle sue attività;
  • formulare la richiesta che i lavoratori dovrebbero seguire tutte le pratiche sicure in ogni momento e assicurarsi che i lavoratori seguano le procedure corrette;
  • fornire l’attrezzatura di sicurezza necessaria, compresi i dispositivi di protezione individuale, per la prevenzione di lesioni, malattie e incidenti di lavoro e per la gestione delle emergenze;
  • registrare e investigare tutti gli incidenti e i problemi relativi alla salute e alla sicurezza per ridurli al minimo o eliminarli;
  • trattare i modi specifici in cui i rischi per la sicurezza e la salute sul lavoro (OHS) influiscono diversamente sulle donne (per esempio le donne in gravidanza, che hanno appena partorito o che stanno allattando) e sugli uomini o sui lavoratori in circostanze particolari quali, per esempio, persone con disabilità o lavoratori inesperti o più giovani;
  • fornire uguale protezione in materia di salute e sicurezza ai lavoratori part-time e temporanei, e ai lavoratori dei subappaltatori;
  • cercare in tutti i modi di eliminare i pericoli psicosociali nel luogo di lavoro, che contribuiscono o conducono a stress e malattia;
  • fornire formazione adeguata a tutto il personale su tutti gli argomenti pertinenti;
  • rispettare il principio che le misure di salute e di sicurezza sul luogo di lavoro non dovrebbero comportare alcun esborso economico da parte dei lavoratori;
  • basare i propri sistemi per la salute, la sicurezza e l’ambiente sulla partecipazione dei lavoratori coinvolti e riconoscere e rispettare i diritti dei lavoratori di:
    • ottenere informazioni tempestive, complete ed accurate sui rischi per la salute e la sicurezza e sulle migliori prassi utilizzate per affrontare tali rischi,
    • informarsi liberamente ed essere consultati su tutti gli aspetti della loro salute e sicurezza correlati al loro lavoro,
    • rifiutare un lavoro che possa ragionevolmente comportare un pericolo imminente o serio per la loro vita o salute o per la vita e la salute di altri,
    • chiedere consiglio ad organizzazioni esterne dei lavoratori e dei datori di lavoro e ad altri che hanno esperienza,
    • relazionare su questioni legate alla salute e alla sicurezza alle autorità competenti,
    • partecipare a decisioni e attività sulla salute e la sicurezza, compresa l’investigazione di incidenti e infortuni,
    • essere liberi da minacce di ritorsioni per aver agito in uno di questi modi”.

Beh, anche solo attraverso un unico esempio, questo, si può di certo affermare che la UNI ISO 26000 offre veramente una visione a tutto tondo; e questo sin dal 2010.

A questo punto mi permetto io di aggiungere un quesito e di proporre anche la risposta.

Come mai una norma di così ampia portata non è stata valorizzata come avrebbe dovuto? E non ha trovato diffusione ed applicazione come sarebbe naturale, considerato quanto offre?

Semplice: troppo avanti per le dinamiche del momento; troppo prematura per un contesto-mondiale non pronto. Adesso però, e da anni ormai, si parla continuamente di sostenibilità: ecco la sostenibilità è la parte di RSO (responsabilità sociale delle organizzazioni) che le organizzazioni perpetrano nel condurre le loro attività tenendo conto dell’impatto sulle generazioni future cui va garantito stesso benessere, dunque almeno stessa diponibilità di risorse offerte a noi se non migliori, anche in virtù delle nuove soluzioni che via via vengono rese disponibili.

Da quanto ci ha raccontato sembra che tra i temi rilevanti correlati alla responsabilità sociale delle imprese, si tenga dunque effettivamente conto anche delle condizioni di lavoro e la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori…

L.M.: Imprescindibilmente direi. Al punto tale che, oltre ad essere un aspetto specifico espressamente previsto all’interno di uno dei temi fondamentali – rapporti e condizioni di lavoro – di cui si compone il percorso di RS che ogni organizzazione deve intraprendere se vuole seguire un percorso secondo la UNI ISO 26000, l’ambito della salute e sicurezza sul lavoro rappresenta, come abbiamo già visto, un’area trasversale a tutti i temi fondamentali, cui vengono riconosciute una significatività ed una strategicità pari a quelle attribuite alla catena del valore ed agli aspetti economici.

Senza dover poi necessariamente richiamare standard di adozione volontaria, mi piace riportare il ragionamento nel contesto nazionale e nel panorama legislativo italiano.

Il legislatore ne prevede l’espressa articolazione nell’ambito del D.Lgs. 81/2008 e s.m.i., il nostro Testo unico, che ne inserisce la definizione (Articolo 2) come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate” e poi richiama le figure cardine, datore di lavoro, medico competente, lavoratori a seguire, nella estrinsecazione del ruolo, a mettere in atto comportamenti responsabili, ispirati ai criteri della RS.

Proprio come rappresentato in seno al D. Lgs. 81/2008 e s.m.i., ove la connessione profonda fra la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e la responsabilità sociale acquista valore e carattere quasi vincolanti, ed addirittura nell’orientare i comportamenti secondo i principi della responsabilità sociale, si ravvisano le peculiarità atte a migliorare i livelli di tutela definiti legislativamente.

Addirittura, nello stesso Testo si invita a (Articolo 6) “valorizzare sia gli accordi sindacali sia i codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria, che (…omissis) orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente”, e a rafforzare la connessione profonda fra la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e la responsabilità sociale che qui, assume ed acquista valore e carattere quasi vincolanti, se si ravvisano peculiarità atte a migliorare i livelli di tutela definiti legislativamente.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “La responsabilità sociale riguarda anche la tutela della sicurezza?”…

Intervista di Tiziano Menduto

Regolamento europeo DPI 03: le conseguenze della sua applicazione

Concludo con questo post il breve viaggio attorno alle novità del Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui dispositivi di protezione individuale, un regolamento che ha abrogato solo da qualche mese, dal 21 aprile 2018, la precedente Direttiva 89/686/CEE ‘concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative ai dispositivi di protezione individuale’.

Un viaggio che, attraverso le parole di Virginio Galimberti, presidente della Sottocommissione DPI dell’UNI, ha permesso di accennare alla necessità di futuri adeguamenti normativi, ad esempio per aggiornare le disposizioni del decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 o per abrogare eventuali disposizioni incompatibili con il Regolamento 2016/425.

 

Quali sono le principali novità del nuovo Regolamento europeo? Cosa cambia realmente per le aziende? Sono previste nuove normative tecniche sui DPI correlate al Regolamento? Ci saranno anche modifiche sulla direttiva sulle prescrizioni minime per l’uso dei DPI? Quali sono le criticità ancora presenti?

Quella che pubblico oggi è la seconda parte dell’intervista a Virginio Galimberti da me realizzata e pubblicata su PuntoSicuro (prima della scadenza del 21 aprile 2018) nell’articolo “Le conseguenze dell’applicazione del nuovo Regolamento DPI”.

La prima parte è stata invece pubblicata nel precedente post “Regolamento europeo DPI 02: le scadenze e le modifiche necessarie”.

Ce le ha già accennate in un recente articolo, ma ci ricordi quelle che ritiene essere le principali novità del Regolamento e le conseguenze dirette sulle aziende… Ci sono novità rilevanti in materia di RES?

Virginio Galimberti: Come già accennato in un precedente articolo e in parte nelle prime risposte a questa intervista, l’applicazione del Regolamento UE 2016/425 comporterà sicuramente parecchie modifiche alla legislazione nazionale in particolare in tutte quelle parti che fanno specifico riferimento alla abrogata D.E. 89/686/CEE.

Oltre ad alcuni passaggi già esplicitati nelle risposte nella prima parte dell’intervista, che non starei a ripetere (modifiche degli art 76 e 77 del D.Lgs. 81/2008 dovute all’abrogazione/aggiornamento del D.Lgs. 475/92) una ulteriore conseguenza dell’applicazione del regolamento UE 2016/425 nei confronti del D.Lgs. 81/2008 consiste nell’adeguamento della terminologia riportata nell’allegato VIII del decreto.

Ai fini invece del conferimento ai DPI da mettere sul mercato dei “nuovi” Requisiti Essenziali di Salute e di Sicurezza (RES), oltre ad inserire un capitolo “Osservazioni preliminari” con il quale si specifica cosa sono i RES che devono essere conferiti da parte del fabbricante al DPI e come ciò deve essere fatto, al punto 1 viene giustamente sostituito il termine “Assicurare” riportato nella D.E. con “Offrire”.

La maggior parte dei cambiamenti è rappresentato da un adeguamento più consono dei termini mantenendo inalterati i requisiti richiesti.

Come novità si possono evidenziare le seguenti aggiunte:

  • Punto 1.3.4 – relativo a “Indumenti protettivi contenenti dispositivi amovibili” (es.: giacche per motociclisti);
  • Punto 1.4 – Istruzioni e informazioni del fabbricante – i) [modificato rispetto alla versione degli allegati della 89/686/CEE] il riferimento al presente regolamento e, se del caso, i riferimenti ad altre normative di armonizzazione dell’Unione; – k) i riferimenti alla o alle pertinenti norme armonizzate utilizzate, compresa la data della o delle norme, o i riferimenti ad altre specifiche tecniche utilizzate; – l) l’indirizzo internet dove è possibile accedere alla dichiarazione di conformità UE – Le informazioni di cui alle lettere i), j), k) e l) non devono essere contenute nelle istruzioni fornite dal fabbricante, se la dichiarazione di conformità UE accompagna il DPI;
  • Punto 3.8.2 – Dispositivi conduttori (Lavori sotto tensione).

Con riferimento alla documentazione tecnica che il fabbricante deve produrre per la certificazione dei DPI il nuovo regolamento, a differenza della abrogata direttiva, non fa più distinzione di contenuti tra la prima categoria e le altre.

Una delle novità per i produttori di DPI di prima categoria consiste nel fatto che devono prevedere il “Controllo interno della produzione” (Modulo A) non richiesto dalla legislazione precedente.

Quali sono gli sviluppi futuri del Regolamento europeo? Sono previste anche nuove normative UNI sul tema DPI?

Virginio Galimberti: Non essendo ancora iniziata l’applicazione del Regolamento non sono in grado di prevedere quali possano essere i futuri sviluppi dello stesso e neppure i problemi che si potrebbero creare a livello gestionale che, secondo me, potrebbero essere nulli.

Posso invece essere più preciso, da normatore, a proposito dello sviluppo delle normative UNI sul tema dei DPI.

Come per quanto riguardava la D.E. 89/686/CEE la produzione delle norme “armonizzate” avveniva a seguito del mandato della UE al CEN (normazione a copertura di direttive specifiche), con l’applicazione del Nuovo Regolamento l’Unione Europea ha provveduto a cambiare la destinazione d’uso adeguandola al Regolamento stesso.

La presunzione di conformità prevista per le norme armonizzate dalla Direttiva viene riconfermata dal Regolamento che con l’art. 14 recita: “Un DPI conforme alle norme armonizzate o alle parti di esse i cui riferimenti sono stati pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea è considerato conforme ai requisiti essenziali di salute e di sicurezza di cui all’allegato II, contemplati da tali norme o parti di esse.”

Indipendentemente dalla parte legislativa la produzione delle norme UNI EN o UNI EN ISO sulla tematica dei DPI è sempre in evoluzione. Il problema italiano consiste nelle sparute forze disponibili nei Gruppi di lavoro UNI che per alcuni argomenti non è purtroppo in grado neanche di seguire i lavori.

Mi pare che siano previste anche delle future modifiche nella direttiva sociale 89/656/CE sulle prescrizioni minime per l’uso dei DPI….

Virginio Galimberti: A rigor di logica i contenuti del Regolamento UE 2016/425, per i quali, nelle risposte precedenti, ho accennato ad alcune modifiche conseguenti per il Titolo III del D.Lgs. 81/2008 (legge nazionale), dovrebbero comportare anche una riedizione aggiornata della Direttiva 89/656/CEE del 30 novembre 1989 (il cui recepimento costituisce il Titolo III capo II del D.Lgs. 81/2008) – direttiva relativa alle prescrizioni minime in materia di sicurezza e salute per l’uso da parte dei lavoratori di attrezzature di protezione individuale durante il lavoro – sia per quanto riguarda il testo e sia principalmente gli allegati (riportati nell’allegato 8 del D.Lgs. 81/2008).

Il motivo principale di questa riedizione, riferito ai tre allegati, è l’allineamento della terminologia con quella del Regolamento; l’ampliamento della lista dei rischi lavorativi (allegato I) inserendone di nuovi quali ad esempio CEM; necessità di rivedere la lista dei DPI (allegato II) alla luce di quanto oggi disponibile sul mercato considerando anche eventuali accessori e ampliare la lista delle lavorazioni che prevedono l’uso dei DPI (allegato III) proponendo di collegare le lavorazioni alla valutazione del rischio e di realizzare strumenti di supporto a tematiche specifiche (ad esempio adattabilità dei DPI alle differenze di genere come misure, pesantezza, ergonomia ecc.).

Secondo la mia opinione, l’argomento dovrebbe essere di competenza, in Italia, del Ministero del lavoro e mi era stato detto che eravamo in dirittura d’arrivo.

Malgrado i ripetuti tentativi di informarmi a livello Ministeriale le uniche indicazioni non ufficiali che sono riuscito ad ottenere riguardano lavori di modifica a livello Europeo della sola Direttiva.

I lavori sono iniziati a giugno 2017 nell’ambito dell’ACSH (Advisory Commettee on Safety and Health at Work) che si è avvalsa di un gruppo di esperti provenienti da 21 paesi europei (Italia purtroppo non presente).

Nell’ultimo incontro che si è tenuto il 16 gennaio 2018 sono state presentate le proposte dei singoli stati che in precedenza avevano formulato commenti sui tre allegati. Da parte dell’Italia dovrebbero essere formulate le nostre proposte da inviare ma non ho minimamente idea da chi. Per la modifica del D.Lgs. 81/2008 non sono a conoscenza di attività/iniziative…

In definitiva quale sarà l’impatto del nuovo regolamento sulla qualità dei DPI e sulla sicurezza nelle aziende? Quali sono le eventuali criticità ancora presenti? E quale è stata la risposta e l’attenzione delle aziende produttrici di DPI in relazione alle nuove scadenze?

Virginio Galimberti: Considerando le leggere differenze applicative che ci sono tra le due legislazioni, dal punto di vista della qualità dei DPI e, di conseguenza, della sicurezza delle aziende (naturalmente legata ai DPI) non ci dovrebbe essere alcuna differenza.

Per parlare di criticità dividerei l’argomento in due.

Criticità derivanti dalle procedure di certificazione imposte che sono spesso legate alle difficoltà di interpretazione delle norme armonizzate, quando ci sono, da parte sia dei fabbricanti e sia degli organismi notificati preposti.

Criticità, in particolare per gli utilizzatori, legate al nostro sistema di distribuzione sul mercato che è molto polverizzato e che non sempre è all’altezza di trasmettere competenze e informazioni necessarie per una corretta gestione e uso del DPI (nel nostro paese la percentuale di piccole/medie imprese che si rivolge alla grande distribuzione o a ferramenta/colorifici è altissima).

Negli interventi presso molte aziende è normale rilevare la mancanza di note informative o trovare DPI inadatti ai rischi evidenziati (quando vengono effettivamente riportati sul documento di valutazione dei rischi) ovvero di presenza di personale che usa DPI salvavita senza addestramento.

In conclusione, non avendo collegamenti direttamente con le associazioni di settore, non sono al corrente di risposte e attenzione delle aziende produttrici di DPI in relazione alle nuove scadenze se non per un singolo caso per il quale sono stato coinvolto direttamente come coordinatore di un Gruppo di lavoro UNI.

Purtroppo, dopo l’entrata in vigore del Regolamento, un fabbricante ha reagito, a tempo scaduto cercando di coinvolgere ministeri ed altro, lamentando una sorta di illegittimità ed illegalità dello stesso nelle Disposizioni Transitorie dell’Articolo 47 ritenendo non possibile avere un solo anno (fino al 21 aprile 2019) per mettere a disposizione sul Mercato i prodotti conformi alla Direttiva 89/686/CEE  del 21 dicembre 1989, e prodotti prima dell’entrata in vigore del Regolamento stesso.

Il Fabbricante segnala che è praticamente impossibile per qualsiasi Azienda smaltire centinaia (se non migliaia) di articoli dei vari DPI nel giro di un solo anno.

Tra altre motivazioni lo stesso fabbricante contesterebbe anche la scadenza quinquennale dei certificati di esame UE del tipo (considerazione iniziale n°27 ed Allegato V, paragrafo 6.1 del Regolamento Europeo) probabilmente senza essere informato che tale scadenza, proposta in fase di modifica della D.E. 89/686/CEE, è già attuata da anni da parecchi Organismi Notificati.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Le conseguenze dell’applicazione del nuovo Regolamento DPI”…

Link alla prima parte dell’intervista…

Intervista di Tiziano Menduto

Regolamento europeo DPI 02: le scadenze e le modifiche necessarie

Partendo dall’importanza dei dispositivi di protezione individuali (DPI) in ogni strategia di prevenzione degli infortuni, specialmente laddove i rischi non possano essere evitati o sufficientemente ridotti diversamente, torniamo a parlare del nuovo Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui dispositivi di protezione individuale, che abroga la Direttiva 89/686/CEE del 21 dicembre 1989 (dallo scorso 21 aprile 2018).

Nel precedente post ho ricordato che, come indicato dalla legge del 25 ottobre 2017, n. 163, saranno necessari futuri adeguamenti, ad esempio per aggiornare le disposizioni del decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 o per abrogare eventuali disposizioni incompatibili con il Regolamento 2016/425. E forse sarà prevista qualche modifica allo stesso D.Lgs. 81/2008, Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Riguardo ai DPI cosa è cambiato dal 21 aprile 2018 per le aziende? Sarà veramente necessario modificare il D.Lgs. 81/2008 o potrebbe essere sufficiente una revisione del D.Lgs. 475/92? Quali sono le problematiche lasciate aperte dal nuovo regolamento?

Per rispondere a queste domande è stata pubblicata su PuntoSicuro – prima della scadenza del 21 aprile 2018 e nell’articolo “Le criticità relative all’applicazione del nuovo Regolamento DPI” – un’intervista a Virginio Galimberti, presidente della Sottocommissione DPI dell’UNI.

Presento in questo post le risposte alle prime tre domande che gli abbiamo posto sul significato della scadenza del 21 aprile, sulle modifiche normative e su alcune problematiche correlate alle “disposizioni transitorie”.

Nella seconda parte dell’intervista – che pubblicherò in un prossimo post – Virginio Galimberti si soffermerà sulle novità del nuovo Regolamento DPI, sulla futura normativa tecnica e sulle conseguenze del Regolamento sulle aziende e sulla sicurezza dei DPI.

 


Partiamo dalla scadenza del prossimo 21 aprile 2018 in cui si dovrà applicare il nuovo Regolamento 2016/425 e cerchiamo di capirne meglio il significato. In realtà il Regolamento era già entrato in vigore circa due anni fa, cosa cambia realmente ora con la scadenza del 21 aprile?

Virginio Galimberti: Non si può parlare di alcun tipo di cambiamento in quanto, a tutti gli effetti, il Regolamento UE 2016/425, per sua stessa imposizione (art. 48 “Entrata in vigore e applicazione”) stabilisce che lo stesso “entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” (20 aprile 2016) ma “si applica a decorrere dal 21 aprile 2018”. Pertanto non ha ancora visto la sua “applicazione”.

Sono previste alcune eccezioni le cui scadenze, passate e future, sono state fissate in:

  • 21 ottobre 2016 relativa agli articoli da 20 a 36 (Capo V Notifica degli Organismi di Valutazione della Conformità – 20 Notifica; 21 Autorità di notifica; Requisiti relativi alle autorità di notifica; 23 Obbligo di informazione a carico delle autorità di notifica; 24 Requisiti relativi agli organismi notificati; 25 Presunzione di conformità degli organismi notificati; 26 Affiliate e subappaltatori degli organismi notificati; 27 Domanda di notifica; 28 Procedura di notifica; 29 Numeri di identificazione ed elenchi degli organismi notificati; 30 Modifiche delle notifiche; 31 Contestazione della competenza degli organismi notificati; 32 Obblighi operativi degli organismi notificati; 33 Ricorso contro le decisioni degli organismi notificati; 34 Obbligo di informazione a carico degli organismi notificati; 35 Scambio di esperienze; 36 Coordinamento degli organismi notificati) e dell’articolo 44 (Capo VII Atti delegati e atti di esecuzione –  Procedura di comitato) della quale non sono aggiornato ma penso che siano stati definiti tutti gli articoli (anche con Accredia) in quanto necessari per permettere agli Organismi Notificati di procedere nelle fasi di certificazione CE previste dallo stesso regolamento;
  • 21 marzo 2018 relativa all’articolo 45, paragrafo 1 (Capo VIII Disposizioni transitorie finali – Sanzioni – Gli Stati membri stabiliscono norme sulle sanzioni da imporre in caso di violazione, da parte degli operatori economici, delle disposizioni del presente regolamento. Tali norme possono includere sanzioni penali in caso di violazioni gravi. Le sanzioni previste devono essere effettive, proporzionate e dissuasive. Gli Stati membri comunicano tali norme alla Commissione al più tardi entro il 21 marzo 2018, e notificano immediatamente qualsiasi modifica successiva che le riguardi) per la quale, anche in questo caso non sono aggiornato ma penso che si sia fatto ricorso alla legge 24 dicembre 2012 n° 234 che all’art . 33 stabilisce la “Delega al Governo per la disciplina sanzionatoria di violazioni di atti normativi dell’Unione europea”.

 

Immagino che il decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, malgrado l’abrogazione della direttiva recepita, sia ancora formalmente in vigore. È necessario e urgente, a suo parere, che il legislatore lo aggiorni con le novità del Regolamento? E sarà necessario anche modificare il D.Lgs. 81/2008 o potrebbe essere sufficiente una revisione del D.Lgs. 475/92?

Virginio Galimberti: Da quanto mi risulta il decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 (essendo una legge nazionale italiana di recepimento di una direttiva europea) non viene annullato automaticamente dall’abrogazione della direttiva europea 89/686/CEE che l’ha generata e, pertanto, è formalmente in vigore fino a quando verranno prese decisioni in merito.

Oltre alla attuazione della citata direttiva il D.Lgs 475/92 interessa direttamente anche il D.Lgs. 81/2008 in quanto viene specificatamente citato all’art. 76 comma 1 (Requisiti dei DPI) che recita “I DPI devono essere conformi alle norme di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, e sue successive modificazioni”.

Secondo il mio punto di vista non sono della opinione che sia necessario un aggiornamento del D.Lgs. 475/92 perché le regole di applicazione dei Regolamenti, contrariamente alla vecchia legislazione europea riferita alle Direttive, non prevedono decreti attuativi per la loro attuazione. Mi risulta, però che ci esista una legge italiana (legge 25 ottobre 2017, n.163 – Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017) che all’art. 6 (Delega al Governo per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sui dispositivi di protezione) delega il Governo ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con le procedure …..omissis…, uno o più decreti legislativi per l’adeguamento della normativa nazionale al regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sui dispositivi di protezione individuale e che abroga la direttiva 89/686/CEE del Consiglio.

Nello specifico il comma 3 stabilisce: “Nell’esercizio della delega di cui al comma 1 il Governo è tenuto a seguire, oltre ai principi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, anche i seguenti principi e criteri direttivi specifici:

  1. a) aggiornamento delle disposizioni del decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, per l’adeguamento alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/425 e alle altre innovazioni intervenute nella normativa nazionale, con abrogazione espressa delle disposizioni incompatibili con il medesimo regolamento (UE) 2016/425 e coordinamento delle residue disposizioni.

Per quanto riguarda la modifica del D.Lgs. 81/2008 ritengo possa essere sufficiente una eventuale revisione del D.Lgs. 475/92, sempre che avvenga, qualora la stessa tenga in considerazione tutti gli aspetti di adeguamento previsti dal regolamento (ad esempio l’adeguamento dell’art. 77 comma 5 dove si richiama lo specifico addestramento dei DPI per la protezione dell’udito allocati ora dal regolamento nella terza categoria).

 

Lei su PuntoSicuro ha accennato al problema della gestione del periodo di interregno di un anno tra il regolamento e la direttiva che viene abrogata dal 21 Aprile 2018 ma per alcuni aspetti resta in vigore fino al 21 Aprile 2019…

Virginio Galimberti: Il Regolamento UE 2016/425 abroga la Direttiva 89/686/CEE  del 21 dicembre 1989 (art. 4) a decorrere dal 21 aprile 2018 però, con l’art 47 (Disposizioni transitorie) stabilisce che “gli Stati membri non ostacolano la messa a disposizione sul mercato dei prodotti contemplati dalla direttiva 89/686/CEE conformi a tale direttiva e immessi sul mercato anteriormente al 21 aprile 2019”.

Quindi si tratta solo di Dispositivi di Protezione Individuale già coperti da regolare certificazione CE di tipo (attestati) effettuata antecedentemente al 21 aprile 2018 e già prodotti. Per messa a disposizione sul mercato si intende (vedi definizioni riportate nello stesso regolamento): “la fornitura di DPI per la distribuzione o l’uso sul mercato dell’Unione nell’ambito di un’attività commerciale, a titolo oneroso o gratuito”.

Ai fini del regolamento possono essere messi a disposizione sul mercato (Art. 4) solo DPI che, laddove debitamente mantenuti in efficienza e usati ai fini cui sono destinati, soddisfano il presente regolamento e non mettono a rischio la salute o la sicurezza delle persone, gli animali domestici o i beni.

Gli attestati di certificazione CE e le approvazioni rilasciati a norma della direttiva 89/686/CEE rimangono validi fino al 21 aprile 2023, salvo che non scadano prima di tale data”.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

 

Intervista di Tiziano Menduto

Regolamento europeo DPI 01: criticità e applicazione

Benché i dispositivi di protezione individuale (DPI) debbano essere impiegati (come indicato nel D.Lgs. 81/2008) solo “quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro”, è indubbio che i DPI siano un importante risorsa, anche se non la prima, per la prevenzione e riduzione degli infortuni sul lavoro.

Per questo motivo mi pare interessante riportare, in questo e in prossimi articoli del blog, alcune informazioni sul nuovo Regolamento (UE) 2016/425 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sui dispositivi di protezione individuale, che abroga la Direttiva 89/686/CEE del 21 dicembre 1989 e che si applica già dal 21 aprile 2018 (in questa data è abrogata la Direttiva 89/686/CEE).

Alcune brevi informazioni correlate da alcune interviste e approfondimenti realizzate, come si vedrà, prima del 21 aprile, ma ancora in grado di fornire utili indicazioni agli operatori sulle novità in atto.

Ricordiamo innanzitutto che Regolamento, rispetto anche a quanto contenuto nel decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 475 (Attuazione della direttiva 89/686/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi di protezione individuale), ha leggermente modificato la divisione in categorie dei DPI.

Una nuova divisione in categorie – contenuta nell’allegato I del Regolamento 2016/425 – che non può che avere conseguenze sullo stesso D. Lgs. 81/2008 e sugli allegati.

E, come ricordato nell’articolo “L’applicazione del nuovo regolamento europeo sui DPI” pubblicato su PuntoSicuro il 23 marzo 2018, le categorie di rischio da cui i dispositivi di protezione individuale sono destinati a proteggere gli utilizzatori secondo il nuovo Regolamento sono tre:

  • la categoria I “comprende esclusivamente i seguenti rischi minimi:
    • lesioni meccaniche superficiali;
    • contatto con prodotti per la pulizia poco aggressivi o contatto prolungato con l’acqua;
    • contatto con superfici calde che non superino i 50 °C;
    • lesioni oculari dovute all’esposizione alla luce del sole (diverse dalle lesioni dovute all’osservazione del sole);
    • condizioni atmosferiche di natura non estrema”.
  • la categoria III comprende “esclusivamente i rischi che possono causare conseguenze molto gravi quali morte o danni alla salute irreversibili con riguardo a quanto segue:
    • sostanze e miscele pericolose per la salute;
    • atmosfere con carenza di ossigeno;
    • agenti biologici nocivi;
    • radiazioni ionizzanti;
    • ambienti ad alta temperatura aventi effetti comparabili a quelli di una temperatura dell’aria di almeno 100 °C;
    • ambienti a bassa temperatura aventi effetti comparabili a quelli di una temperatura dell’aria di – 50 °C o inferiore;
    • cadute dall’alto;
    • scosse elettriche e lavoro sotto tensione;
    • annegamento;
    • tagli da seghe a catena portatili;
    • getti ad alta pressione;
    • ferite da proiettile o da coltello;
    • rumore nocivo”.

La categoria II “comprende i rischi diversi da quelli elencati nelle categorie I e III”.

E se la categoria di rischio dei DPI è importante per le procedure di valutazione della conformità dei DPI (la dichiarazione di conformità UE attesta il rispetto dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza), altre piccole modifiche riguardano poi proprio gli stessi requisiti essenziali di salute e di sicurezza dei DPI, come riportati nell’allegato II del nuovo regolamento.

Se, di fronte ad un Regolamento, manca la necessità di un decreto di recepimento specifico, la necessità di normative applicative specifiche è avvertita anche dal legislatore che nella legge 25 ottobre 2017, n. 163Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2016-2017” ha previsto un aggiornamento, un adeguamento della normativa in essere, anche con riferimento al tema delle sanzioni e delle notifiche, che dovrebbe avvenire indicativamente (se le nostre leggi non fossero purtroppo spesso in perenne ritardo) entro il 21 novembre 2018.

Rimandando all’articolo di Puntosicuro riguardo al testo della legge 25 ottobre 2017, n. 163, concludo ora con una prima breve intervista a Virginio Galimberti che ricopre vari ruoli in UNI (Ente italiano di normazione) ed è, in particolare, Presidente della Sottocommissione DPI.

Ricordiamo ancora che l’intervista è stata realizzata qualche settimana prima della data di applicazione del Regolamento (21 aprile 2018).


Quali sono le conseguenze più rilevanti della prossima applicazione del regolamento UE 2016/425?

Virginio Galimberti: “La prossima applicazione del regolamento UE 2016/425 prevista per il 21 Aprile 2018 comporterà sicuramente parecchie modifiche alla legislazione nazionale in particolare in tutte quelle parti che fanno specifico riferimento alla abrogata D.E. 89/686/CEE.

Di fatto il Regolamento va a sostituire (o modificare, come sembra di capire dall’art 6 comma 3 lettera a) della legge 163/2017) il D.Lgs. 475/92 emanato per il recepimento a livello nazionale della sopra citata direttiva.

L’eventuale abrogazione o modifica del D.Lgs. 475/92 dovrebbe comportare a sua volta la modifica dell’articolo 76 comma 1 del D.Lgs. 81/2008 (Requisiti dei DPI) nel quale, come unico requisito base, si dice che il DPI deve essere conforme alle norme di cui al D.Lgs. 475/92.

Altro punto del regolamento che dovrebbe causare la modifica del D.Lgs. 81/2008 (art 77 comma 5 obbligo di addestramento) sta nel fatto che inserisce in terza categoria (grandi rischi o “salvavita” per la vecchia direttiva o D.Lgs. 475/92) i dispositivi di protezione dell’udito che prima erano allocati nella seconda categoria.

L’attuale art 77 comma 5 richiede che: l’addestramento è indispensabile per ogni DPI che ai sensi del decreto legislativo  4 dicembre 1992, n. 475, appartenga alla terza categoria e per i dispositivi di protezione dell’udito.

Ulteriore conseguenza dell’applicazione del regolamento UE 2016/425 nei confronti del D.Lgs. 81/2008 consiste nell’adeguamento della terminologia riportata nell’allegato VIII del decreto.

Ai fini dell’applicazione dei nuovi Requisiti Essenziali di Salute e di Sicurezza (RES), oltre ad inserire un capitolo “Osservazioni preliminari” con il quale si specifica cosa sono i RES che devono essere conferiti da parte del fabbricante al DPI e come ciò deve essere fatto, al punto 1 viene giustamente sostituito il termine “Assicurare” riportato nella DE con “Offrire”.

La maggior parte dei cambiamenti è rappresentato da un adeguamento più consono dei termini mantenendo inalterati i requisiti richiesti.

Come novità si possono evidenziare le seguenti aggiunte:

– Punto 1.3.4 – relativo a “Indumenti protettivi contenenti dispositivi amovibili” (es.: giacche per motociclisti)

– Punto 1.4 – Istruzioni e informazioni del fabbricante – i) il riferimento al presente regolamento e, se del caso, i riferimenti ad altre normative di armonizzazione dell’Unione; – k) i riferimenti alla o alle pertinenti norme armonizzate utilizzate, compresa la data della o delle norme, o i riferimenti ad altre specifiche tecniche utilizzate; – l) l’indirizzo internet dove è possibile accedere alla dichiarazione di conformità UE – Le informazioni di cui alle lettere i), j), k) e l) non devono essere contenute nelle istruzioni fornite dal fabbricante, se la dichiarazione di conformità UE accompagna il DPI

– Punto 3.8.2 – Dispositivi conduttori (Lavori sotto tensione)

Con riferimento alla documentazione tecnica che il fabbricante deve produrre per la certificazione dei DPI il nuovo regolamento, a differenza della abrogata direttiva, non fa più distinzione di contenuti tra la prima categoria e le altre.

Una delle novità per i produttori di DPI di prima categoria consiste nel fatto che devono prevedere il “Controllo interno della produzione” (Modulo A) non richiesto dalla legislazione precedente.

Altro grosso problema per il quale al momento non si riesce a recuperare indicazione è rappresentato dalla gestione del periodo di interregno di un anno tra il regolamento e la direttiva che viene abrogata dal 21 Aprile 2018 ma per alcuni aspetti resta in vigore fino al 21 Aprile 2019”.

 

In alcuni prossimi post, sempre dedicati a questo Regolamento, riporterò ulteriori approfondimenti e commenti sulle novità in materia di sicurezza per i lavoratori, gli operatori e le aziende.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

Problemi normativi 03: interferenze, DUVRI e PSC

Per ricordare come le nostre leggi in materia di sicurezza sul lavoro a volte non solo siano complicate da un punto di vista lessicale, ma contengano veri e propri aspetti oscuri, che lasciano troppo spazio all’interpretazione e all’arbitraria applicazione, pubblico oggi un’intervista, realizzata per PuntoSicuro, su un tema delicato: la gestione delle interferenze nei luoghi di lavoro.

Come devono essere gestite? Con quali documenti? Con il Documento unico per la valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI) e/o il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC)?

Che non ci sia chiarezza nella norma e convergenza nelle opinioni degli operatori ho potuto rendermene conto partecipando – come conduttore della Tavola Rotonda finale – al workshop “Articolo 26 e titolo IV del D.Lgs 81/08 a confronto nella gestione degli appalti” organizzato il 14 luglio 2016 a Modena, nell’ambito del progetto “A Modena la sicurezza sul lavoro, in pratica”. Un workshop cui si affrontava proprio il tema della gestione di appalti e interferenze con riferimento alla normativa e alla stesura di DUVRI e PSC.

Benché si volesse fare chiarezza su questi temi, si sono evidenziate durante il workshop alcune differenze interpretative della normativa. Differenze che mostrano come questo tema necessiti di ulteriori approfondimenti o, secondo alcuni relatori al workshop, di futuri interventi interpretativi/normativi che individuino, senza ombre o dubbi, ambiti e soluzioni idonee da utilizzare per gestire le interferenze. Intervento normativo che, a distanza di un anno, non è ancora avvenuto.

E proprio per cercare di fare chiarezza su questi temi ho intervistato, per PuntoSicuro,  Fabrizio Lovato, presidente di Federcoordinatori, un sindacato dei coordinatori per la sicurezza del lavoro che era rappresentato a Modena da un consigliere nazionale del sindacato (Nicola Nicolini).

Nell’articolo apparso su PuntoSicuro, dal titolo “Gestione delle interferenze: quando elaborare il DUVRI e il PSC?”, riporto anche alcune utili tratte dal documento Inail “L’elaborazione del DUVRI – Valutazione dei rischi da interferenze”, curato da Raffaele Sabatino con la collaborazione di Andrea Cordisco.

Il documento, che vuole chiarire la differenza esistente tra il DUVRI e il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) e sulle eventuali problematiche che possono insorgere da “un’eventuale sovrapposizione dei due documenti”, indica che:

– “il PSC si applica esclusivamente ai lavori edili e di genio civile nei quali sia prevista la presenza, anche non contemporanea, di più Imprese esecutrici. Il DUVRI e il PSC non sono quindi, assolutamente, lo stesso documento; essi, pur riferendosi ad aspetti analoghi afferenti alla sicurezza sul luogo di lavoro sono riferiti, il primo, a qualsiasi ambiente di lavoro, mentre il secondo, esclusivamente al cantiere edile”;

– in alcuni casi “la stesura del PSC esonera da quella del DUVRI, pur tuttavia occorre precisare che anche nel cantiere edile, il PSC non sempre costituisce il documento unico per la pianificazione della sicurezza, dovendo essere comunque necessaria l’elaborazione del DUVRI. Esistono infatti molti casi in cui i documenti vanno redatti entrambi, occupandosi ciascuno della prevenzione e protezione dai rischi da interferenze nel cantiere”.

Veniamo ora all’articolo di PuntoSicuro e alla parte  relativa all’intervista a Fabrizio Lovato.

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto


 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Sappiamo che il DUVRI e il PSC sono documenti differenti che operano in contesti diversi. Secondo la sua esperienza di coordinatore ci sono dubbi sul fatto che un’attività possa o meno essere considerata un lavoro edile e di ingegneria civile con applicazione del Titolo IV del D.Lgs. 81/2008?

 Fabrizio Lovato: “No, nessun dubbio, la norma quando definisce un cantiere è chiara. È un cantiere temporaneo o mobile qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile”.

 Nel workshop si è parlato di DUVRI e PSC ricordando quando è necessario elaborare un documento o l’altro. Tuttavia ci sono casi in cui i due documenti potrebbero essere compresenti e, in qualche modo, sovrapporsi… In quali casi può succedere? E questa sovrapposizione è un errore normativo o ha una qualche effettiva funzione di prevenzione dei rischi?

FL: “È possibile che in determinate situazioni, si abbia la compresenza (non sovrapposizione) di entrambe i documenti: DUVRI e PSC. Basti pensare a lavori relativi ad interventi di manutenzione edile da eseguirsi all’interno di una struttura industriale che deve comunque continuare ad essere operativa. Per gestire la sicurezza all’interno del cantiere verrà elaborato il PSC mentre per gestire e coordinare la sicurezza tra l’azienda e il cantiere (il cantiere, non le singole aziende) verrà elaborato il DUVRI.

In nessun modo comunque i due documenti potranno essere sovrapposti in quanto il DUVRI è il documento iniziale che il Coordinatore tiene in considerazione mentre sta elaborando il PSC, e gli fornisce informazioni in merito allo stato dei luoghi e ai rischi presenti in cui il cantiere si dovrà insediare. Mentre nella fase esecutiva è lo strumento che consente al CSE il dialogo con il datore di lavoro committente ospitante. I due documenti non sono dunque sovrapponibili quanto piuttosto complementari!”.

 Per chiarire le cose faccio riferimento ad un esempio riportato nell’articolo “ Gestione delle interferenze: normativa, dubbi e difficoltà delle imprese”, uscito su PuntoSicuro il 14 settembre scorso. Nell’articolo, riportando il contenuto di una relazione, si indica, ad esempio, che “quando il cantiere è ubicato presso una ditta che svolge l’attività lavorativa anche durante le opere del cantiere stesso, si ritiene che il PSC debba prendere in considerazione anche questo tipo di interazione rendendo, di fatto, inutile il DUVRI (il documento di valutazione dei rischi da interferenza che il datore di lavoro committente è tenuto a redigere in tutti gli altri casi di interferenza con altre attività). In questo caso, quindi, sarà il Coordinatore per la Progettazione che dovrà tenerne conto in fase di redazione del PSC, sarà quello incaricato della Esecuzione a verificare nel tempo, durante lo svolgimento dei lavori, che il piano venga rispettato, che sia adeguato all´effettiva situazione di rischio, che tutte le ditte presenti (e che influiscono sul cantiere) siano rispettose del piano stesso”.

Tuttavia l’esempio riportato a mio parere è fuorviante in quanto caso “limite”, ossia l’unica attività interferente nella mia azienda è il cantiere … possibile, ma improbabile. Mi domando: l’azienda dell’esempio, non ha fornitori, manutentori o ospiti per la normale gestione della sua attività? Non ha imprese di pulizie, o aziende che fanno manutenzione agli impianti fissi (elettrico o idraulico), o il gestore del distributore delle bevande?

Riporto anche alcune indicazioni tratte da una Linea guida INAIL:

– “Il DUVRI è redatto dal DLC, e non dalle Imprese o lavoratori autonomi, affidatarie del/dei contratto/i d’appalto, d’opera o di somministrazione (o “ordini d’acquisto” utilizzati per aggirare l’indicazione normativa, nda); questi ultimi dovranno in ogni caso cooperare onde permettere al DLC di evidenziare tutti i possibili rischi da interferenza e fornendo tutti i documenti attestanti l’idoneità tecnico professionale richiesti dall’art. 26;

– Il DUVRI deve essere redatto o aggiornato ogniqualvolta siano posti in essere dei contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione, anche non formalizzati, che implichino la presenza di Imprese operanti all’interno dell’Azienda, anche se non si ravvisano particolari rischi da interferenza: in questo caso il documento dovrà evidenziare l’assenza di rischio (contratto cosiddetto non rischioso);

– Il DUVRI è un documento UNICO per tutti gli appalti e per questo DINAMICO, in quanto deve essere aggiornato in caso si ravvisino nuovi rischi da interferenza, all’ingresso di nuove Imprese, ove si presentino variazioni nella struttura e nella tecnologia delle varie Imprese, in caso di acquisto ed utilizzo di nuove attrezzature da parte dell’Azienda, ecc.”.

Come dicevo: è improbabile che l’esempio portato corrisponda alla realtà, e quindi se la gestione della prevenzione è vera, TUTTE le aziende hanno la necessità di gestire le interferenze. Certo il risultato di questa attività (il DUVRI) sarà piccolo o grande in relazione alla complessità della valutazione, ma la sua esistenza a mio giudizio è indubbia.  Come è indubbio che tale documento diventi un documento d’ingresso del PSC che ad esso dovrà dedicare una parte specifica che riguarda il fondamentale scambio d’informazioni tra il datore di lavoro committente (con il DUVRI) e il coordinatore prima in progetto (con il PSC) e poi durante l’esecuzione per gli aggiornamenti.

 Nel workshop modenese sono state sollevate infatti alcune perplessità riguardo alla possibile compresenza/sovrapposizione tra i due documenti. Lei cosa ne pensa? Dietro queste differenze di opinioni c’è una diversa interpretazione della normativa? Qual è la corretta lettura del secondo comma dell’articolo 96 del TU, comma che qualcuno potrebbe leggere come esonero dal DUVRI tutte le volte in cui esiste un PSC?

FL: “Ribadisco che i documenti non sono sovrapponibili in quanto ognuno ha la propria area di azione.

Nello specifico l’art. 96 (e siamo in Titolo IV – cantieri temporanei o mobili) vuole chiarire i confini di operatività dell’uno e dell’altro documento. Se stiamo parlando di Cantiere avremo il PSC e i POS come documenti di riferimento, ed è con le loro regole che ci si ‘parla’ all’interno del cantiere, non con il DUVRI. Se parliamo dell’esempio precedente (intervento edile all’interno di un sito industriale), in questo caso avremo il DUVRI (azienda-cantiere) quale documento di riferimento che interesserà le attività e le aree esterne al cantiere, ma limitrofe a questo e che possono avere un’interazione con esso”.

Accade spesso nei cantieri in cui lavorate che si debbano elaborare due diversi documenti, il DUVRI e il PSC? E laddove siano necessari entrambi ma, ad esempio, manca il DUVRI, cosa fa un coordinatore?

FL: “Sovente, e soprattutto in caso di ristrutturazioni o ampliamenti industriali e condominiali (quando c’è la presenza del custode dipendente), capita di avere entrambi i documenti.

Il DUVRI per il coordinatore è il documento iniziale che prende in considerazione per l’elaborazione del PSC e nel caso in cui non sia presente lo richiede al datore di lavoro committente”.

 All’opposto nel caso di mere forniture di materiale ed attrezzature potrebbe non necessitare né DUVRI né POS. Anche in questo caso lei ritiene che sia corretto o siamo di fronte a una lacuna normativa? E come può essere garantita, in questo caso, una informazione reciproca sulle possibili interferenze? 

FL: “La normativa non può (e non deve) regolamentare tutto, ma deve fissare i principi. Laddove non vi sia una norma specifica per la gestione in sicurezza di un’attività, quale può essere per esempio la fornitura di materiale in cantiere o la realizzazione delle campionature, il Coordinatore avendo chiari i principi di prevenzione può definire una, o più procedure che le imprese e i fornitori dovranno rispettare”.

 Lasciamo da parte la norma e torniamo alle vostre esperienze. In alcuni commenti sul nostro giornale si indica che il DUVRI passa “sopra la testa” degli interessati, è un “monumento di carta” del tutto inutile, volto solo a cercare di ridurre le responsabilità aziendali. Cosa potrebbe rendere questo monumento meno formale e più effettivo ed efficace?

 FL: “Anzitutto occorre distinguere l’attività di ‘valutazione dei rischi interferenti’ dalla redazione del ‘Documento di valutazione dei rischi interferenti’. Nella prima viene fatta la valutazione dei rischi ma non viene registrata da nessuna parte. Ciò non significa che il datore di lavoro non abbia adottato misure di sicurezza tali per i cui i lavoratori non risultino tutelati.

Nel secondo caso viene elaborato un documento che riporti la valutazione dei rischi interferenti con indicate tutte le misure di sicurezza da attuare ma ciò non implica che il datore di lavoro li abbia valutati o che attui quanto indicato.

Il fatto di produrre un ‘monumento di carta’, o un documento fine a se stesso, serve a dimostrare agli organismi di vigilanza che tale attività è stata effettuata. Se ci limitassimo a fare vedere il nostro buon operato, le modalità operative, gli apprestamenti messi a disposizione ma non presentassimo alcun documento scritto tutta la nostra ‘buona condotta’ non verrebbe presa in considerazione e non ci salverebbe da una sanzione.

La cultura della sicurezza deve essere le fondamenta del ‘monumento’ che ogni datore di lavoro deve predisporre e realizzare”.

So che lei ha partecipato, come esperto, alla stesura dei nuovi modelli standardizzati/semplificati di POS/PSC e PSS. Non si è pensato a modelli standardizzati/semplificati di DUVRI?

 FL: “C’è da dire che a differenza del PSC, POS e PSS per i quali l’All. XV del D.Lgs. 81/2008 e smi ne definisce i contenuti minimi, per il DUVRI non vi è questa precisazione.

Diversi enti, tra cui ricordiamo Regione Lombardia e Inail, hanno elaborato delle linee guida relative la redazione del DUVRI lasciando comunque al datore di lavoro committente la possibilità di elaborare il documento come meglio riteneva.

In fine, ma come si dice non per ultimo, dobbiamo ricordare che l’art.26 per la parte relativa al DUVRI è stata ‘semplificata’ dall’art. 32 del DL n.69 del 21.06.2013 recante ‘disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia’, infatti per i lavori a basso rischio in sostituzione del DUVRI è stata introdotta la figura dell’incaricato che però deve essere in possesso di formazione aggiornata, di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, di esperienza e competenza professionale, adeguata e specifica in relazione all’incarico … un genio ! Che però per dare evidenza di assolvimento dell’incarico al suo datore di lavoro … dovrà redigere un DUVRI! E se non lo fa spontaneamente glielo chiederà il datore di lavoro al fine di verificare il suo operato … perché nel nostro paese (di apparenze) i fatti non sono sufficienti, ci voglio i documenti a provarlo”.

Concludiamo infine con qualche considerazione. Qual è l’attenzione, nelle aziende e tra i committenti, per adempimenti come DUVRI e PSC?  I documenti vengono realizzati solo quando è un obbligo di legge o anche quando è necessario?

FL: “Capita, talvolta, che i datori di lavoro/committenti non siano a conoscenza degli obblighi di predisposizione del DUVRI e del PSC, non per disinteresse nel riguardo del tema sicurezza, ma semplicemente per ignoranza nei confronti della materia.

Occorre una maggiore informazione che come Federcoordinatori abbiamo cercato di fornire tramite l’istituzione dello “Sportello del committente” – attività di consulenza specialistica gratuita alla cittadinanza, ma che non ha trovato il supporto delle pubbliche amministrazioni”.

E, infine, ritiene che sia utile un intervento interpretativo/normativo per togliere dubbi in merito a quali documenti elaborare per affrontare il rischio di interferenze?

FL: “No, tutt’altro! Ritengo che il legislatore debba fermarsi e non continuare ad emettere decreti attuativi e di specifica che fanno perdere il riferimento ai principi regolamentari di partenza.

Infine smettiamo di abusare della parola ‘semplificazione’ al fine di una ricerca utopistica della perfezione legislativa, perché: ‘La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere’ (Antoine de Saint-Exupéry).

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011

Torniamo a parlare in questo blog delle criticità e oscurità della nostra normativa sulla tutela della salute e sicurezza in Italia e lo facciamo affrontando alcune differenze interpretative del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un articolo di PuntoSicuro del 7 novembre 2016, con riferimento ad un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”), si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”. E l’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Tuttavia sempre sul quotidiano online PuntoSicuro altri hanno segnalato che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista ho realizzato un’intervista a più voci con domande elaborate anche dai vari intervistati:

– Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza);

– Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza);

– Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia).

Nei giorni scorsi ho presentato la prima parte dell’intervista, pubblicata su PuntoSicuro il 18 gennaio 2017, con le risposte di Massimo Peca, oggi riporto la seconda parte dell’intervista con le risposte di Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini

Anche in questo caso l’intervista è stata pubblicata su PuntoSicuro, con il titolo “Ambienti confinati e DPR 177/2011: si certificano i contratti d’appalto?”.

Buona lettura.

Tiziano Menduto

 


Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto


La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Massimo Peca:

 

  1. Come può incidere la sola verifica della regolarità del rapporto di lavoro, da lei sostenuta, accertata mediante la procedura di certificazione, sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (obiettivo del DPR 177/2011) non considerando l’obbligo previsto dal comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 (DUVRI/PSC/POS/contratto di appalto e tutto quello che ne consegue nel merito dei contenuti) e la valutazione da effettuare, in particolare, dell'”organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio” richiesta dalla circolare 48/2004 del MLPS?

 Carmelo G. Catanoso: Va premesso che per la gestione della sicurezza nei lavori in appalto all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, il datore di lavoro committente è gravato (art. 26 comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008), nei confronti degli appaltatori o dei lavoratori autonomi, dagli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale e di informazione riguardo i rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate. Inoltre, il successivo comma 2 richiede al datore di lavoro committente, agli appaltatori ed ai subappaltatori di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi nonché di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. La cooperazione e il coordinamento devono essere promossi elaborando il DUVRI.

Naturalmente, visto che si sta parlando di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, quanto appena detto dovrà essere specificatamente modellato sulla particolare e pericolosa tipologia di lavori da eseguire attraverso una contestualizzazione “spinta” del DUVRI.

Pertanto, visto che l’art. 26 si applica ai contratti d’appalto di lavori, servizi e forniture ed ai contratti d’opera, appare evidente che, ad esempio, un appalto per l’esecuzione della sostituzione di un galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio, possa ritenersi “coperto” dalla citata norma, sempre che il datore di lavoro committente, gli appaltatori e/o i subappaltatori intendano adempiere concretamente ad essa, tenendo conto delle specificità del lavoro da eseguire.

Quindi, il vero problema non è far certificare un contratto d’appalto ma adempiere concretamente ad obblighi che la legislazione vigente già prevede.

Quindi, un datore di lavoro committente deve scegliere con oculatezza il proprio appaltatore verificando preventivamente l’idoneità tecnico professionale, dove la sussistenza documentata di tutti i requisiti fissati dal D.P.R. n° 177/2011 occupa, visto il lavoro da effettuare, una parte fondamentale, e poi attuare quanto operativamente richiesto dall’art. 26 comma 1, lett. b) e comma 2. Il tutto deve poi essere consolidato all’interno del DUVRI che dovrà prevedere anche quanto previsto all’art. 3 del D.P.R. n° 177/2011 e dovrà essere contestualizzato in funzione della specifica operazione da eseguire nell’ambiente sospetto d’inquinamento o confinato. La contestualizzazione del DUVRI potrà avvenire con il Permesso di Lavoro che se, ben strutturato e concretamente applicato, prevedrà quanto necessario per eseguire i lavori in sicurezza, ivi compresa la gestione di eventuali emergenze.

Analogo discorso se i lavori che espongono i lavoratori al rischio derivante da attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati si debbano svolgere in un cantiere edile o d’ingegneria civile dove, le regole da applicare per il principio di specialità sono quelle del Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008. Qui sarà il CSP a prevedere ed integrare nel PSC le regole previste dal D.P.R. n° 177/2011 mentre toccherà al committente verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa che eseguirà i lavori anche in riferimento ai requisiti previsti per operare negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Sarà poi il CSE a verificarne, sul campo, la concreta applicazione.

Quindi, se le norme oggi vigenti (art. 26 e Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) sono applicate correttamente e compiutamente, l’eventuale certificazione dei contratti di appalto da parte degli organi abilitati alla certificazione (art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003), risulta inutile e costituisce solo un aggravio burocratico. Infatti, se per sostituire il galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio citata nell’esempio, un appaltatore impiega meno di un’ora, rispettando quanto previsto nel Permesso di Lavoro, altrettanto non può dirsi per la certificazione di questo appalto, visto che l’istruttoria ha solo l’obbligo di concludersi e comunicarne l’esito entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta e ciò con le conseguenze facilmente immaginabili.

Inutile, poi, segnalare che la maggior parte degli organi abilitati, indicati all’art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003, non hanno neanche lontanamente le competenze per effettuare una verifica tecnica su documenti presentati e ciò senza neanche dimenticare che, ad oggi, non esiste uno standard unico che indichi quali debbano essere i documenti tecnici da presentare con la richiesta di certificazione.

In conclusione, si reputa che le norme di legge oggi vigenti, se correttamente e compiutamente applicate, sono ampiamente in grado di rendere superflua la certificazione dei contratti d’appalto, fermo restando, visto quanto oggi previsto dal D.P.R. n° 177/2011, l’obbligo di certificazione del contratto di lavoro se diverso da quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infine, non sarebbe una cattiva idea creare un apposito Albo delle imprese che operano negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, alla stregua di quanto fatto per l’amianto e la bonifica da ordigni bellici e “normare” seriamente questa tipologia di lavori modificando il D. Lgs. n° 81/2008 con l’introduzione di uno specifico Titolo.

Le risposte di Carmelo G. Catanoso alle domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto? Perché?

Carmelo G. Catanoso: Il D.P.R. n° 177/2011 richiede la certificazione solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia stato costituito con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; in questo caso, il regolamento prevede che i relativi contratti di lavoro siano certificati ai sensi del D. Lgs. n° 276/2003. L’oggetto della certificazione è il rapporto di lavoro mentre è solo al comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n° 177/2011, che viene ribadito il divieto, per le attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, del ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del D. Lgs. n° 276/2003. Su questo argomento è chiara anche la Nota del MLPS n. 37/0011649 del 27/06/2013.

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati? Perché?

Carmelo G. Catanoso: La certificazione, richiesta dal D.P.R. n° 177/2011, riguarda solo i contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato e non altro (ad eccezione dei subappalti). L’obiettivo è chiaro ed è quello di evitare di avere personale “reclutato all’occasione” per operare all’interno di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, non in possesso di adeguate competenze (conoscenze e capacità documentate) e requisiti psicofisici adeguati. Analoga logica c’è dietro la previsione della certificazione del subappalto; si vuole evitare che un’impresa appaltatrice dopo aver acquisito i lavori da svolgersi in ambienti confinati o sospetti d’inquinamento, subappalti gli stessi ad un’altra impresa senza che questa sia in possesso dei requisiti minimi indicati dal D.P.R. n° 177/2011 nonché mezzi, organizzazione, personale per operare in questi particolari e pericolosi ambienti. Ricordo, infine, che per quanto riguarda la verifica dell’idoneità tecnico professionale, esiste una norma di rango superiore (art. 26 comma 1, lett. a) del D. Lgs. n° 81/2008) che già individua precisi obblighi a carico del datore di lavoro committente che appalta lavori all’interno della propria azienda o unità produttiva. Stesso discorso se i lavori in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati sono eseguiti all’interno di un cantiere edile o d’ingegneria civile (Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) non solo da un committente che è anche datore di lavoro ma anche da un committente che datore di lavoro non è (art. 90 comma 9 del D. Lgs. n° 81/2008). Infine, vale la pena di ricordare che in questo caso, l’allegato XVII renderebbe superflua anche la certificazione del subappalto, visto che al p. 3 viene chiesto al datore di lavoro dell’impresa affidataria di verificare l’idoneità tecnico professionale del subappaltatore con gli stessi criteri che sono stati utilizzati dal committente nei suoi confronti (p. 1 dell’allegato XVII). In conclusione, le norme esistono già e basterebbe applicarle concretamente e seriamente senza bisogno di aggiungerne altre che, sovrapponendosi alle esistenti creano confusione e forniscono, a chi non ha mai voluto far nulla, un ennesimo alibi per continuare a non fare nulla.

La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011?

Carmelo G. Catanoso: In questo caso non c’è differenza di opinione o d’interpretazione, perché oggi ciò che è soggetto a certificazione è il rapporto di lavoro e l’eventuale subappalto. Niente altro. Altrimenti, il rischio che si corre è quello di far passare per obbligo di legge ciò che obbligo di legge non è.

In merito all’applicabilità ed alle interpretazioni delle leggi in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in Italia, in generale, va detto che il nostro sistema prevenzionale è un sistema da “manutenzione a guasto”: dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.

Sia il D. Lgs. n° 81/2008 (pubblicato dopo i tragici fatti di Torino nel dicembre 2007)  che lo stesso D.P.R. n°177/2011 (pubblicato dopo i tragici fatti di Molfetta, Cagliari, Mineo, Capua, ecc.), sono la prova che in Italia si legifera solo sotto spinte emozionali ed emergenziali (molo probabilmente, il prossimo intervento riguarderà, dopo i 10 morti di Modugno (BA), le fabbriche di fuochi artificiali).

Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il “prodotto” non è mai granché per almeno un paio di motivi:

– si lavora di fretta, dopo fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;

– non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole “normare” e che, quindi, hanno conoscenza approfondita “dal di dentro” delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.

E quando parlo di “attori” che operano sul campo, non mi riferisco ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc.. Parlo di soggetti “indipendenti” in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.

Comunque, vista l’attuale situazione, quel che ne viene fuori, con questi presupposti, sono “regole” frutto di visioni che risentono sia del poco tempo disponibile che, soprattutto, delle conoscenze esperienziali dei soggetti coinvolti nella redazione ma che, pur indubbiamente pregevoli, essendo maturate in campi particolari (in genere in attività ispettive), non possono che risentirne nella percezione e visione delle dimensioni e complessità effettive del problema.

Pertanto, ciò che ne scaturisce, è quasi sempre un prodotto frutto di una visione particolare che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise con gli attori che saranno chiamate ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.

Esempio emblematico è proprio quello degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati dove il “mandato” per il legislatore era relativo alla definizione di un Regolamento per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ma che invece si è esteso, con l’art. 3 (procedure di sicurezza), in un ambito che evidentemente non padroneggiava a sufficienza, visto, ad esempio, quanto scritto a proposito delle attività informative di cui al comma 1. Eppure sarebbe bastato dare un’occhiata alla tanta letteratura tecnica ed alla tanta esperienza operativa soprattutto in chi, il problema Spazi Confinati, lo vive “dal di dentro”.

 

La risposta di Flavia Pasquini(Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

  1. Secondo la vostra Commissione e in relazione alla normativa vigente è corretto ritenere obbligatoria, ai sensi del DPR n. 177/2011, la certificazione dei contratti di appalto e subappalto? Ci sono casi in cui, a vostro parere, non è mai da ritenere obbligatoria? E in questi casi è comunque opportuna?

Flavia Pasquini: In mancanza, per quanto consta, di pronunce giurisdizionali e chiarimenti Ministeriali sul punto, ad avviso della Commissione una interpretazione sistematica del DPR n. 177/2011 dovrebbe condurre a ritenere obbligatoria la certificazione, oltre che di tutti i subappalti in luoghi confinati, anche degli appalti laddove siano possibili e/o rintracciabili interferenze (temporali o spaziali). In ogni caso, anche considerando possibili difformità di interpretazione da parte degli organi ispettivi e nell’ottica di un ulteriore controllo sulla qualificazione dell’impresa esecutrice, anche in mancanza di interferenze può comunque risultare cautelativo ed opportuno procedere alla certificazione del contratto di appalto. Inoltre, nel caso di appalto a un consorzio (è simile l’ipotesi della A.T.I. negli appalti pubblici), laddove l’appaltatore proceda ad affidare l’attività in luogo confinato ad una consorziata, sebbene quest’ultimo negozio di affidamento non sia tecnicamente un subappalto, ad avviso della Commissione è comunque opportuna la certificazione, in considerazione della sostanziale vicinanza tra il negozio di affidamento e il subappalto.

La risposta di Flavia Pasquini alla domanda di Massimo Peca:

  1. Qual è la ragione per cui la vostra Commissione, tra i vari documenti, chiede alle aziende che intendono ottenere la certificazione (sia del rapporto di lavoro che per gli appalti), quelli inerenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; come e da chi vengono valutati?

Flavia Pasquini: Benché non tenutavi ai sensi dell’interpretazione letterale del citato DPR n. 177/2011 e senza per ciò stesso potersi né volersi sostituire nei controlli e nelle responsabilità in carico alla committente principale per effetto dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, la Commissione ritiene che il proprio ruolo non possa esaurirsi nella sola verifica formale della correttezza del documento contrattuale. I documenti vengono valutati da parte dei membri della Commissione.

Le risposte di Flavia Pasquini alle domande di Carmelo G. Catanoso:

  1. Non ritiene che il legislatore sia andato oltre il proprio mandato quando, in aggiunta ai requisiti per la qualificazione delle imprese (viste le previsioni degli articoli 6, comma 8, lettera g), e 27 del D. Lgs. N. 81/2008), ha inserito l’art. 3 del DPR n° 177/2011 riguardante le procedure di sicurezza la cui vaghezza e imprecisione ha generato molta confusione e il proliferare di interpretazioni non certo univoche?

Flavia Pasquini: L’art. 3 in questione prevede la disciplina delle procedure di sicurezza in senso stretto all’interno del terzo comma. Tali procedure si riferiscono alle procedure di emergenza che, considerati la specificità dell’attività ed i rischi ad essa connessi, appaiono coerenti con la ratio della norma di realizzare un sistema di qualificazione delle imprese. Infatti, le procedure di emergenza costituiscono un elemento organizzativo fondamentale per potere operare nel settore.

  1. Cosa ne pensa dell’introduzione di un apposito “Albo” per le imprese e i lavoratori autonomi qualificati per operare negli ambienti confinati e negli ambienti sospetti d’inquinamento?

Flavia Pasquini: Potrebbe sicuramente trattarsi di un utile strumento, soprattutto in un’ottica di semplificazione degli oneri e degli adempimenti a carico delle imprese. In caso di affidamento di lavori, servizi e forniture, infatti, la normativa vigente (cfr. art. 26 d.lgs. 81/2008) pone in capo al datore di lavoro committente l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dei lavoratori autonomi e delle imprese appaltatrici. Posto che quest’obbligo riguarda anche l’affidamento di attività da eseguirsi all’interno di ambienti sospetti di inquinamento o confinati, l’istituzione di un apposito Albo presso il quale siano tenuti ad iscriversi i soggetti che intendano operare in quest’ultimo settore potrebbe incidere positivamente sull’efficienza del relativo mercato, riducendo gli oneri di verifica e di produzione documentale incombenti sulle imprese per ogni singolo appalto. Ciò, ovviamente, a condizione che l’iscrizione all’Albo sia subordinata alla verifica del possesso di tutti i requisiti prescritti dal D.P.R. n. 177/2011.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la prima parte dell’intervista…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la seconda parte dell’intervista…

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Problemi normativi 01: come verificare le interferenze negli spazi confinati?

 

Non c’è nulla da fare, malgrado abbiamo in Italia – a detta almeno dell’ex magistrato Raffaele Guariniello – ottime leggi,  in materia di salute e sicurezza, tuttavia non mancano le criticità, le oscurità, le difficoltà interpretative. Non mancano i dubbi negli operatori, non mancano le scappatoie per chi ha una visione solo formale della normativa, non sfuggono le differenze interpretative tra gli stessi ispettori e controllori, regionali o statali, del Testo Unico e dei testi correlati.

Probabilmente abbiamo effettivamente una buona legislazione, ma è doveroso non solo riconoscerne la complessità (aumentata dalle migliaia di proroghe e rimandi che rendono incomprensibile e inapplicate le norme), ma anche rilevare la tendenza italiana a normare con la pressione delle emergenze, degli equilibri di potere e delle convenienze. E in questo modo non sempre le norme arrivano da riflessioni motivate, verificate e comprovate da dati reali.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Miriadi di errori nelle normative. Ruscelli impetuosi di dubbi arginati a malapena dagli interpelli. Ritardi continui nei decreti attuativi che spesso ci costano messe in mora dall’Unione Europea e che comunque rendono la normativa incompleta e inefficace. Con Testi Unici che non riescono ad unificare e obiettivi che non vengono raggiunti, come nel caso dell’infinita proroga degli adempimenti antincendio per scuole e alberghi.

 

Un esempio delle cattive conseguenze di questo modo di legiferare mi è parso emblematico e mi ha spinto qualche settimana fa a realizzare e pubblicare su PuntoSicuro, attraverso un originale format comunicativo, una sorta di intervista interattiva a tre persone, rappresentanti di un modo diverso, per idee, competenze e mission, di interpretare e utilizzare la normativa in materia di sicurezza e salute.

Stiamo parlando dell’interpretazione del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Un DPR scandito dalle emergenze di una serie di infortuni mortali avvenuti in spazi confinati e inizialmente depositato, nella fretta, con un errore nel titolo: “confinanti” al posto di “confinati”.

 

Riguardo a questo DPR un articolo di PuntoSicuro ha presentato il 7 novembre 2016 un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”). L’intervento ricordava quanto richiesto dal DPR e si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”.

 

L’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Un’indicazione correlata alla ratio e agli obiettivi della normativa con riferimento specifico anche a quanto contenuto nella nota 11649 del 27 giugno 2013 del MLPS.

Tuttavia in risposta alle sue parole, su PuntoSicuro alcuni commenti  hanno successivamente ribadito che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista interpretativi e per cercare eventuali punti di contatto ho realizzato un’intervista a più voci: un’intervista in cui le domande non sono elaborate solo dal giornale, ma anche da ciascun interlocutore che ha avuto la possibilità di proporre a sua volta una o due domande per gli altri intervistati.

 

Continuiamo riprendendo le parole dell’articolo di PuntoSicuro e della prima parte dell’intervista. Nei prossimi giorni pubblicherò sul blog anche la seconda parte…


A questa inusuale forma di intervista hanno gentilmente partecipato:

Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza) che, come abbiamo mostrato, ha presentato l’intervento al convegno sugli spazi confinati;

Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza) che ha commentato criticamente l’intervento;

Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) che su queste tematiche relative alla certificazione ex 171/2011 si è confrontata in passato all’interno della propria Commissione di Certificazione.

 

Per chiarezza riportiamo anche un breve estratto della parte dell’articolo 2 del DPR 177/2011, il punto c) del comma 1, che fa riferimento alla certificazione dei contratti:

Art. 2 Qualificazione nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati

1. Qualsiasi attivita’ lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati puo’ essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti:

a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze;

b) integrale e vincolante applicazione anche del comma 2 dell’articolo 21 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nel caso di imprese familiari e lavoratori autonomi;

c) presenza di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione, in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale esperienza deve essere necessariamente in possesso dei lavoratori che svolgono le funzioni di preposto;

(…)

(…)

Partiamo oggi dalle risposte di Massimo Peca alle domande di Flavia Pasquini, Carmelo G. Catanoso e PuntoSicuro.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto?

Massimo Peca: Di entrambi.

Perchè?

Massimo Peca: Il termine “appalto” è riportato nell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011 ed è condizionato dalla frase “…in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati…”.

Chiaramente, l’impiego di lavoratori “appaltati” si riferisce a quelli aventi un rapporto di lavoro (di qualsiasi tipo) con le imprese a cui si appalta il lavoro da svolgere e la stessa definizione di “lavoratore” credo che vada intesa nel senso più ampio, quindi comprendendo quelli autonomi. Questa, in buona parte, è la stessa filosofia dell’articolo 2, comma 1, lettera a) del DLGS 81/2008 ed è una delle notevoli differenze tra la legislazione giuslavoristica (prevalentemente amministrativa) e quella che garantisce la salute e la sicurezza del lavoro (prevalentemente penale). Basti pensare, ad esempio, anche alla definizione di “datore di lavoro” contenuta nell’articolo 299 del medesimo decreto legislativo.

 

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati?

Massimo Peca: Sì.

Perchè?

Massimo Peca: Lo deduco dall’ampio contenuto della frase: “…ovvero con altre tipologie contrattuali…” dell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011. D’altra parte, se non fosse così, ci sarebbe una inspiegabile discriminazione tra lavoratori, con la conseguente diminuzione delle tutele imposte dal DPR, non certo da tutte le altre norme.

L’unica ed espressa esenzione di alcuni obblighi, sono quelli per il datore di lavoro che impiega direttamente i suoi lavoratori per svolgere attività negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui ha la “disponibilità giuridica”. 

Le tutele/obblighi del DPR 177/2011 sono estesi perfino ai lavoratori autonomi e, in parte, alle imprese familiari. Difformemente dal DLGS 81/2008. Penso che anche questo decreto legislativo non dovrebbe fare nessuna differenza tra lavoratori, se non altro perché i costi sociali della mancata prevenzione sono a carico di tutta la collettività nazionale. Quindi, mi sembra chiara la portata generale del DPR relativamente alle attività preventive che devono essere garantite, sebbene, tale regolamento, non innova quasi per nulla quanto già previsto dal DLGS 81/2008. Anzi. Lo stesso concetto di “qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi” non serve ad altro se non a stabilire una qualità del lavoro che deve servire a tutelare chi lo svolge. Chiunque sia. Questo lo condivido, ma, come ho detto: “… è un problema generale per tutti gli ambienti di lavoro…”. 

—–

 

Domande di Carmelo Catanoso:

Dal suo intervento presentato su PuntoSicuro, lascia intendere che una eventuale certificazione anche dei contratti d’appalto, sia auspicabile in quanto in grado di apportare dei benefici nella gestione delle attività negli “spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento”. Può spiegare quali siano i benefici concreti che tale adempimento può produrre nella gestione operativa della sicurezza?

Massimo Peca: Come ho già avuto modo di dire, l’obbligo di certificazione dei contratti di appalto mi sembra chiaro.

Un beneficio concreto è quello relativo alla verifica dell’organizzazione della sicurezza, sia della sua progettazione che della gestione del lavoro da svolgere, che si può attuare attraverso l’iter della certificazione da parte di un organismo esterno, presumibilmente esperto nella materia, altrimenti assente, senza considerare le figure preposte a tali funzioni dal DLGS 81/2008.

La prova di quanto affermo sono le incredibili e numerose tipologie di criticità rilevate durante la mia esperienza (anche di chi le dovrebbe controllare), risolte proprio con questa analisi dei requisiti necessari. Tutti previsti dall’articolo 2, comma 1 del DPR 177/2011.

Questa “analisi critica”, trasparente e prestabilita anche nei contenuti, l’ho sempre adottata come fase pre-istruttoria alla presentazione formale della domanda di certificazione ed ha risolto moltissimi problemi, elevando il grado di sicurezza delle ditte affidatarie o subappaltatrici, nonché creando una maggior consapevolezza e conoscenza dei problemi da parte dei committenti. Con questo sistema, la certificazione si ottiene in pochi giorni, mentre la durata del lavoro preparatorio e inversamente proporzionale alla quantità degli inadempimenti riscontrati e corretti “in corso d’opera”.

Questa attività di consulenza, assistenza, promozione e prevenzione è quella prevista e mutuata dall’articolo 4 del DM 21 luglio 2004, dall’articolo 81 del DLGS 276/2003 e dal DLGS 124/2004. Quindi, nulla di improvvisato o innovativo, ma cogente.

Nei casi di lavori urgenti, indifferibili a mio avviso e tramite una modifica legislativa, si dovrebbe utilizzare la procedura già prevista per le rimozioni urgenti dell’amianto (articolo 256, comma 5). In tal caso, la certificazione avverrebbe in un secondo tempo e le contravvenzioni riscontrate dovrebbero impedire a chi ha effettuato i lavori di poterne fare degli altri, oltre che essere contestate dall’organo di vigilanza. In poche parole: libertà e responsabilità.

Forse è questo il metodo apprezzato da molti ed è stata la ragione della partecipazione al V convegno nazionale sugli ambienti confinati.

Se questi non sono “benefici concreti” per la tutela dei lavoratori, non so quali possano essere: conciliare le esigenze normative con le necessità delle aziende.

Nella relazione che ho presentato al convegno, sintetizzata dalla redazione di Puntosicuro nell’articolo citato, ho elencato le maggiori criticità rilevate. Mi pare che parlino da sole. Certo, sono solo il frutto della mia esperienza locale, quindi non generalizzabili. Ma non credo siano rare.

Inoltre, nella relazione ho affermato chiaramente di sapere che il DPR 177/2011 non prevede espressamente la valutazione delle condizioni in cui sono chiamati ad operare i lavoratori, ma si giunge a questa salutare “ingerenza” sia perché il comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 prevede la necessità di allegare il DURC al contratto di appalto, e questo documento costituisce già una prima fonte di verifica da parte del certificatore, ma anche perché è necessario valutare in concreto la qualificazione delle imprese che operano in tali ambienti mediante, almeno, l’analisi degli aspetti principali previsti dal già citato articolo 2, comma 1: in sostanza tutto il DLGS 81/2008.   

Su questo punto, concorda perfino un esperto e critico della materia come Adriano Paolo Bacchetta. A tale proposito si veda quanto riportato nel suo articolo su PuntoSicuro: “…è necessario andare oltre a quanto strettamente previsto dal D.Lgs. 276/2003; ovvero ogni Commissione di certificazione, a prescindere dal soggetto giuridico che ne ha disposto la costituzione, deve quindi avere adeguate competenze per verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti di natura strettamente giuslavoristica sopraelencati, anche altri aspetti peculiari richiesti dal D.P.R. 177/2011 per la qualificazione delle imprese, quali l’effettiva presenza dei requisiti previsti dall’art. 2 c1..”.

Quindi, presumendo la presenza di un componente qualificato nella commissione di certificazione (non previsto), se vogliamo concretamente fare prevenzione questa è una strada offerta da questo DPR.

Se, invece, si vuole disquisire fra teorici del diritto (ed io non lo sono) possiamo appellarci alle definizioni del codice civile e di tutte le altre leggi che regolano i rapporti economici del lavoro. Nella mia relazione ho espresso inequivocabilmente la mia contrarietà a questo DPR ed ho evidenziato i difetti che contiene, proponendo un’alternativa. Ho in mente altre modifiche che potrei evidenziare, se ne avrò l’opportunità.

Ma, attualmente, questa è la legge. Cerco di usarla nel miglior modo possibile per il fine che essa si pone: la tutela della vita dei lavoratori. 

 

Cosa ne pensa della decisione del legislatore di limitare ai soli committenti che sono anche datori di lavoro, gli obblighi previsti dal DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Mi pare di capire che intende riferirsi, in sostanza, all’esclusione dell’obbligo di certificazione e della nomina di un incaricato per la supervisione dei lavori svolti presso aziende in cui il datore di lavoro impiega i propri lavoratori per effettuare attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui abbia la disponibilità giuridica. 

Se è così, e seguendo la logica del DPR, penso che sia un errore, dovuto all’equivalenza che si fa in questo DPR tra certificazione del contratto di lavoro e garanzia, che questa offre, della presenza di condizioni ottimali inerenti la sicurezza/salute.

Nel caso delle prerogative concesse a questi datori di lavoro, presumere che sia superfluo certificare un contratto di lavoro, solo perché è già instaurato stabilmente e questa “stabilità” garantisca un lavoro svolto in sicurezza, ed inoltre, il datore di lavoro abbia tutte le necessarie conoscenze per controllare l’esecuzione delle attività da svolgere, è quantomeno poco reale in moltissimi casi. In altri è plausibile. Ad esempio, penso al settore chimico e dei servizi pubblici di fornitura di acqua, metano o telefonia.

In generale, mi sembra una pericolosa presunzione dell’effettiva presenza della prevenzione legata solo all’astratto obbligo del rispetto della legge. Secondo me, la regolarità del rapporto di lavoro non garantisce affatto che questo si svolga in modo sicuro e salutare, tutt’al più può rappresentare un indizio positivo.

Basti pensare che perfino nelle aziende con certificazioni OHSAS 18001 (e simili) o in quelle a rischio di incidenti rilevati (DLGS 105/2015) si verificano infortuni e malattie professionali, gravi e gravissimi.

Con questo non voglio dire che bisogna certificare tutto e sempre, come sarebbe logico aspettarsi da questo DPR, che segue la logica nostrana di prevedere inizialmente obblighi generali e poi introdurre distinzioni e deroghe.

Al contrario, come ho già detto nella mia presentazione al Convegno, bisognerebbe usare in sua vece la qualità della vigilanza e non la quantità, molto più efficace. Anche perché, durante lo svolgimento di questa funzione, si hanno tutti i poteri di polizia giudiziaria che, invece, mancano nell’iter della certificazione: una miscela mal riuscita di tutele giuslavoristiche e della salute/sicurezza dei lavoratori. 

—–

Domanda di Tiziano Menduto (PuntoSicuro): 

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Sicuramente dall’ambiguità del DPR, dalla sua incompletezza a cui si devono aggiungere le naturali predisposizioni dovute alle diverse attività professionali svolte.

Auspico delle modifiche sostanziali che rendano efficace un provvedimento normativo scritto con una fretta relativa, sebbene condivisibile nello scopo, ma molto discutibile nella sua applicazione quotidiana, di cui la certificazione è senz’altro il tratto caratteristico e sicuramente quello più inapplicato perché eluso, che ripropone un vecchio schema burocratico, pressoché medioevale: un atto di garanzia concesso da terzi, senza il quale si è interdetti ad operare.   

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

 

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Formazione alla sicurezza 5: si può valutarne la qualità?

Concludo con questo post la pubblicazione dell’intervista che ho realizzato qualche mese fa per il giornale PuntoSicuro a tre degli estensori di un documento della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP): Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).

È stata una lunga intervista divisa in tre parti – questa di oggi è la terza parte – che affronta una delle probabili cause che rendono spesso vana qualunque strategia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: la scarsa qualità di alcuni dei percorsi formativi, in materia di sicurezza, proposti nelle aziende ai lavoratori.

Una scarsa qualità che potrebbe essere alla base del ritorno di fiamma degli infortuni mortali denunciati all’Inail che nel 2015, secondo alcuni dati recentemente forniti dall’Inail, sarebbero aumentati del 16% rispetto al 2014.

E le aziende? Non sono le aziende che dovrebbero cogliere, al di là dei concetti di qualità – in parte raccontati nella terza parte dell’intervista – l’efficacia o meno di quanto erogato?

Non sono loro a poter confrontare gli indici infortunistici? Non sono loro a verificare il gradimento o l’opinione dei lavoratori? Non sarebbero proprio loro – dirigenti e datori di lavoro – ad avere il vero interesse che quanto si è speso per formare abbia un effettivo ritorno?

Purtroppo spesso questo non accade.

 

Veniamo dunque alla terza e ultima parte dell’intervista che si sofferma in particolare su due temi: la valutazione di efficacia della formazione alla sicurezza con gli “indicatori di performance” (KPI – Key Performance Indicator) e la qualificazione dei formatori.

Riporto, come sempre, una parziale trascrizione dell’intervista, come pubblicata su PuntoSicuro lo scorso 29 gennaio con l’articolo “Formatori: indicatori di performance e qualificazione”.

Link alla prima parte dell’intervista.

Link alla seconda parte dell’intervista.

 

Una vostra proposta riguarda gli “Indicatori di performance” dei processi di formazione professionale con cui misurare confrontare i percorsi formativi erogati. Cosa sono questi indicatori?

Arnaldo Zaffanella: Bisogna misurare. Se c’è qualcosa da valutare, occorre un sistema di misura. (…). La formazione è un processo di crescita e quindi necessariamente parte da un livello. E dunque, prima di far formazione, bisogna misurare a che livello siamo e poi misurare di nuovo dopo la formazione. Si dovrebbe trovare una differenza tra prima e dopo l’erogazione della formazione…. Ma non basta. Perché un conto è quello che uno ha appreso e un conto è quello che poi uno fa nella realtà. E quindi ci deve essere una misura anche una volta che il lavoratore rientra nel proprio luogo di lavoro. Sono tanti i lavoratori che ritengono di aver fatto un bel corso di formazione, ma poi, tornati in azienda, tornano alle vecchie abitudini. Ed è questo che dicono, le norme, gli schemi internazionali,… È chiaro che parlando di sicurezza e di prevenzione, un tema che riguarda tutte le professioni e tutte le attività umane, che non ci possono essere pochi indicatori che vadano bene per tutto. Bisogna vedere di cosa parliamo. Siamo su una nave? Siamo in un cantiere? Siamo in un ospedale? Siamo in un campo?

È logico che gli indicatori di performance, gli indicatori di qualità, devono essere definiti caso per caso. E gli strumenti di misura devono essere indicati subito, all’inizio del processo. Io progetto un percorso formativo. Bene, ma come lo misuro? Lo diciamo subito, così da saper cosa misurare e vedere se è stato raggiunto il risultato. (…)

Riguardo a tali indicatori ci sono già esperienze, indicazioni e esempi? E non ci sono difficoltà valutative anche con gli indicatori di performance? Quali sono le criticità di questi indicatori? Come applicarli?

Arnaldo Zaffanella: (…) Io direi innanzitutto che prima bisogna vedere da che punto si parte. Quali sono le conoscenze… Poi c’è anche il livello di esperienza. Siamo di fronte ad una persona che ha già svolto delle esperienze, magari incomplete, o non ne ha? Qual è la sua sua capacità di mettere insieme, di coniugare le esperienze acquisite?

Insomma ci sono dei processi di valutazione iniziali che ci consentono di avere in quadro della situazione di partenza. (…) Dunque i KPI (i Key Performance Indicators, indicatori di performance, ndr) li definiamo in sede di progetto, in sede di analisi del fabbisogno… (…). Questo modo di procedere, che potrebbe essere definito caso per caso, è un modo che sottolinea l’importanza della progettazione del percorso formativo, un percorso formativo che nasca da un’analisi dei bisogni.

La formazione non è un processo generale, è personale. Quando, ad esempio, si valuta la formazione da parte del giudice, non si guarda alla formazione generale, si guarda alla formazione della persona. Se era adeguata o meno.

La formazione dell’adulto, non è come quella dei bambini che a scuola hanno tutti la stessa età, magari fanno lo stesso percorso e arrivano da una stessa classe.

Quando si va in un’azienda e si mettono insieme più operatori, il contesto è estremamente vario e i fabbisogni sono estremamente diversi. E i percorsi possono essere sufficienti per qualcuno e non per altri. (…)

Nel vostro documento voi chiedete anche di migliorare i criteri di verifica della “Qualificazione dei Formatori”. Cosa non va oggi nella normativa sulla qualificazione dei formatori? I criteri proposti a vostro parere come potrebbero essere cambiati? Quali sono i riferimenti europei?

Giancarlo Bianchi: Per fare una formazione efficace bisogna avere formatori qualificati. Ma in che senso qualificati? Utilizziamo, da questo punto di vista, le nuove direttive europee che incominciano a precisare innanzitutto il linguaggio comune. Perché se non distinguiamo con precisione cosa vuol dire “conoscenza”, “abilità” e “competenza” in un ambito armonizzato europeo, poi quando parliamo o andiamo a far lezione, non ci capiamo.

Quindi la prima cosa è l’uniformità di linguaggio con definizioni europee portate a livello italiano. Sapendo con precisione che conoscenze, che competenze e che abilità deve avere un formatore, gli si fa fare un percorso di qualificazione formale, con esami finali, in modo che si riesca a creare  un elenco di formatori qualificati. (…) E poi i formatori devono essere valutati dagli allievi sulle capacità reale di tenere l’aula, di utilizzare una didattica attiva con strumenti attivi, diversi dal passato. Sto parlando ad esempio del BIM (Building Information Modeling, ndr), dell’uso dei personal computer e dei tablet, …

L’aula può essere tenuta in modo molto più proattivo e molto più attivo, utilizzando le nuove tecniche e metodologie. Si può arrivare ad un elenco di soggetti qualificati e verificati costantemente, che poi vengono inseriti – secondo il decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13 – in un associazione professionale dei formatori, la quale ha l’obbligo, nei confronti dei committenti, di garantire che i formatori siano soggetti qualificati secondi e terzi (qualificati da soggetti secondi e soggetti terzi, secondo quanto contenuto nella Legge 4/2013, ndr) e non autocertificati. E in più i formatori devono fare una formazione permanente. In questo modo si danno garanzie agli utenti e committenti che questi siano soggetti in grado di fare una formazione efficace.

Nel passato la CIIP è riuscita a incidere sulle scelte del legislatore in materia di tutela della salute e sicurezza? Ad Come far conoscere e presentare le proposte in materia di prevenzione?

Norberto Canciani: (…) La CIIP in questi anni ha avuto una buona capacità propositiva agendo indirettamente, cioè agendo sui soggetti decisionali. Ad esempio siamo stati utili bloccando alcune situazioni, come nel caso della modifica dell’Accordo Stato-Regioni sulla formazione degli RSPP. Su questo decreto noi abbiamo premuto affinché la Commissione Consultiva non approvasse un documento che, secondo noi, era carente sotto tanti punti di vista. Però la CIIP riesce a incidere indirettamente nel momento in cui ha degli interlocutori che stanno ad ascoltare quello che dice. (…) Forse è arrivato il momento di esserci. (…)

E’ stata riformulata la composizione della Commissione Consultiva, che ha un ruolo importante, (…) e forse è arrivato il momento che ci siano anche delle competenze tecnico-scientifiche. Noi abbiamo chiesto di esserci. Abbiamo chiesto che ci sia una rappresentanza delle associazioni tecnico-scientifiche, culturali e professionali. E’ arrivato il momento di aver un luogo dove andare a presentare delle proposte in modo ufficiale. (…)

Insomma in definitiva potremmo dire che non solo è necessario un miglioramento della qualità dell’offerta formativa in Italia, ma anche che necessitano strumenti per conoscere, al di là del modello formativo scelto, l’efficacia della formazione erogata…

Arnaldo Zaffanella: Queste conclusioni sono giuste. Non c’è una formazione buona e una formazione cattiva. La formazione è un processo di evoluzione individuale, è quasi un “prodotto artigianale (…). Ci vuole un processo di personalizzazione e ci vuole poi un processo di verifica…

Link all’articolo di PuntoSicuro “Formatori: indicatori di performance e qualificazione” 

Link alla prima parte dell’intervista.

Link alla seconda parte dell’intervista.

Formazione alla sicurezza 4: andiamo a controllare?

Non c’è dubbio – come già raccontato in diversi post precedenti, sia in riferimento a un documento sindacale che ad un documento della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP) – che il sistema formativo per migliorare la prevenzione di infortuni e malattie professionali nei luoghi di lavoro non sia esente da falle. Da carenze, da deviazioni, da non conformità, in alcuni casi, da truffe vere e proprie, che rovinano uno dei momenti più importanti per la gestione della salute e sicurezza aziendale.

Non bisogna poi dimenticare che la responsabilità di questi inefficaci percorsi formativi ricadono non solo su chi eroga la formazione, ma anche sulle aziende che volendo risparmiare sui costi della sicurezza non si preoccupano della qualità dei percorsi proposti per i propri lavoratori.

E ci sarebbe una gran necessità di poter controllare, di poter verificare la qualità e l’efficacia della formazione erogata nelle aziende in Italia. Servirebbe un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati.

Per approfondire queste problematiche ho realizzato per il giornale PuntoSicuro un’intervista a tre degli estensori del documento CIIP: Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).

Una lunga intervista divisa in tre parti.

Nel post precedente ho presentato la prima parte che si soffermava in particolare sul “mercato della sicurezza” in Italia e continuiamo oggi con la seconda parte che entra nel merito delle proposte del documento.

Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ad erogare formazione alla sicurezza.

Queste le proposte CIIP:

– individuazione di soggetti autorizzati “ex lege” solamente tra enti, istituzioni o strutture private che svolgono attività di formazione in modo istituzionale (Regioni/ASL, INAIL, Università, Scuole Superiori di Formazione, ecc.), dotati di specifica conoscenza e competenza nel settore;

– tutti gli altri soggetti che svolgono attività di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sia autonomamente che in collaborazione con soggetti legittimati, devono dimostrare/certificare la competenza (accreditamento regionale con certificazione competenze e/o sistema di gestione, secondo standard riconosciuti in Italia e negli altri Paesi);

– tutti i soggetti accreditati/certificati possono operare sull’intero territorio nazionale (riconoscimento reciproco accreditamenti regionali).

Un’altra proposta chiede di programmare un Piano Nazionale dei Controlli (per gli organismi di vigilanza ASL) mirato alla “formazione efficace” con controlli sistematici nelle aziende e presso i soggetti formatori accreditati/certificati e la definizione di metodi per la verifica dell’efficacia della “funzione educativa” della formazione erogata.

Inoltre le proposte CIIP affrontano anche il tema dell’istituzione del libretto formativo individuale elettronico e l’efficacia della formazione e-learning.

 

Riportiamo una parziale trascrizione della seconda parte dell’intervista, come pubblicata su PuntoSicuro lo scorso 21 gennaio con l’articolo “Le criticità della formazione: la carenza dei controlli sull’efficacia”.

 

Parliamo delle proposte, della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, in materia di formazione. Le prime proposte riguardano l’individuazione dei soggetti autorizzati ex lege ad erogare la formazione e la possibilità di certificazione/validazione di altri soggetti…

Norberto Canciani: Per legge, per una serie di percorsi legislativi degli anni passati, sono individuati, come soggetti autorizzati ad erogare la formazione, soggetti istituzionali quali le Regioni, le Asl, le Università, l’Inail, i Vigili del Fuoco, …

Oltre a questi soggetti istituzionali sono individuate anche le associazioni datoriali e sindacali. Per la verità in origine, già con riferimento al D.Lgs. 626/94, venivano individuati questi soggetti in quanto componenti di quelli che erano gli organismi che avevano la funzione specifica della formazione, gli organismi paritetici. Soggetti che, come individuati dalla norma di allora, erano costituiti attraverso la pariteticità dell’associazione datoriale e sindacale ed erano costituiti proprio per fare formazione con organizzazione, competenze e abilità adeguate.

Questo passaggio negli anni si è un po’ perso. Così invece di parlare di organismi paritetici si è cominciato a parlare di organismi paritetici e enti bilaterali, confondendo così ruoli anche diversi. Fino ad arrivare a consentire a soggetti datoriali e sindacali di poter erogare la formazione. Nessuno mette in discussione questa scelta, ma il vero è problema è che se questi soggetti non ne hanno la capacità succede quanto già raccontato (nella prima parte dell’intervista, con riferimento alle deleghe date per la formazione ad altri soggetti formativi più o meno abilitati e competenti, ndr).

La proposta CIIP dice: evitiamo di consentire a tutti di erogare formazione, a parte i soggetti istituzionali che lo fanno già per definizione e per competenze (vedi, ad esempio, le Università).

Questi sono gli unici legittimati: tutti gli altri soggetti che non hanno nella loro mission l’erogazione della formazione, per poterlo fare devono essere in qualche modo validati attraverso procedure. Le procedure attualmente vigenti sono essenzialmente le procedure dell’accreditamento regionale. Noi abbiamo proposto qualcosa di più: che si arrivi ad una certificazione che abbia anche una valenza internazionale.

E che abbia anche una valenza nazionale, perché ancora oggi l’accreditamento è regionale. Quindi un soggetto che è accreditato a svolgere formazione in una regione non può andare a farla nelle altre. O meglio, per svolgere formazione nelle altre regioni, deve farsi accreditare di volta in volta nelle diverse regioni.

Questo è un meccanismo molto farraginoso che porta a diverse distorsioni (vedi la prima parte dell’intervista, ndr).

Per cui è opportuno semplificare lasciando la legittimazione soltanto ai soggetti istituzionalmente legittimati e prevedendo una procedura di “autorizzazione” per i soggetti che vogliono erogare formazione, una autorizzazione che abbia una valenza più ampia, per lo meno sull’intero territorio nazionale…

 

Ci potrebbero essere variazioni riguardo al tema dell’accreditamento regionale con la probabile futura approvazione della riforma costituzionale che riporta le competenze in materia di sicurezza sul lavoro allo Stato?

Norberto Canciani: (…) In realtà la formazione professionale rimane di competenza regionale. Bisogna capire se ci sarà una ridefinizione della formazione in materia di sicurezza sul lavoro. È una formazione specifica e particolare che sfugge alla legislazione delle competenza regionale in materia di formazione professionale? Oppure no?

La complessità della questione è data dal fatto che noi parliamo di due piani di formazione diversi. Un conto è la formazione che la normativa prevede di base e specifica per tutti i lavoratori, un conto è la formazione professionale che deve essere erogata agli specialisti, pensiamo ad esempio ai corsi di formazione per gli RSPP. E’ chiaro che qui parliamo di un livello di formazione più elevata. Pensare che questo tipo di formazione sfugga al controllo regionale è al momento non così scontato.

E’ dunque possibile che permanga ancora una competenza regionale in tal senso anche a modifica legislativa avvenuta….

 

Giancarlo Bianchi: (…) Ricordo inoltre che a partire dalla Legge n. 4 del 14 gennaio 2013 e dal decreto legislativo 13/2013, (…)per la prima volta si parla di conoscenze, abilità e competenze professionali. E quindi si identifica con precisione, a seconda della professione, quali sono le differenze di conoscenze, abilità e competenze. Quindi ci sono strumenti, unificati a livello europeo, che per la prima volta permettono di fare una formazione (…) unificata a livello italiano e che può permettere (…) ai professionisti di andare nei 28 paesi dell’Unione Europea… Il processo è un processo molto articolato che esige diverse soluzioni di carattere legislativo generale, ma anche di applicazione puntuale e concreta delle due normative… (…)

 

 

In un’altra vostra proposta richiedete un Piano Nazionale dei Controlli mirato alla “formazione efficace”… Ci sono esperienze di controlli di questo tipo? Come avvengono questi controlli?

Norberto Canciani: (…) Come avviene? Per esperienza passata ci sono controlli che passano da momenti formali, ad esempio verificare la coincidenza della data in cui è stata erogata la formazione con l’effettività della formazione, attraverso controlli incrociati su badge di timbratura,… Poi vengono acquisiti i fascicoli formativi che ogni soggetto formatore deve avere, in cui deve esserci l’analisi dei bisogni formativi… Tutte cose peraltro scritti nell’Accordo Stato-Regioni… (…)

Dopo di che spesso si entra nel merito dell’efficacia della formazione andando a vedere i comportamenti reali di chi sta lavorando… E’ chiaro che si entra in un aspetto molto delicato. Ci possono certo essere a volte comportamenti incongruenti rispetto anche ad una formazione efficace, ma se la totalità dei lavoratori si comporta non coerentemente con la formazione erogata, questo è un problema diverso…

Su questi aspetti sono state fatte delle sperimentazioni, sono in corso di elaborazione dei modelli, per vedere, acquisire indicazioni sull’efficacia della formazione.

Negli ultimi tempi questi controlli degli organi di vigilanza aumentano, sicuramente in occasione degli incidenti. E, posso dire, per mia esperienza passata, che quando ci sono infortuni nella quasi totalità dei casi viene contestata tra le cause una carente, una mancata formazione. E pure in presenza di attestati…

(…)

 

Se l’efficacia formativa non è legata alla modalità formativa, ma alla qualità della formazione erogata, che strumenti ha il datore di lavoro per comprendere, conoscere questa qualità prima di scegliere che formazione erogare ai propri lavoratori? Quali controlli dovrebbero essere messi in atto per verificare l’efficacia della formazione?

Arnaldo Zaffanella: (…) Io ho avuto modo di vedere, essendo un centro convenzionato con strutture straniere per fare formazione, che in questi paesi, contrariamente a noi, l’elemento fondamentale è il controllo finale, l’esame di merito. Bisogna andare a vedere che cosa il lavoratore ha imparato. Si pensi che in molti centri di formazione stranieri addirittura viene allontanato il docente e l’esame viene fatto da una commissione indipendente. (…)

Questo è un elemento critico che si voleva sottolineare… (…)

Questo vale per l’e-learning e vale anche per gli altri modelli di formazione. Bisogna fare in modo tale di avere la certezza che questo addestramento (…) raggiunga l’obiettivo…

(…)

 

Arriviamo poi a parlare di crediti formativi…

Giancarlo Bianchi: Pavanello aveva messo in evidenza come il rilascio di crediti formativi privi di valore svilisse la formazione efficace.

E anche noi abbiamo ripreso un indirizzo condiviso nella CIIP con Pavanello e lo stiamo portando avanti. Lo portiamo avanti nell’ambito delle strutture formative che ci seguono rispettando i criteri legali relativi al rilascio di crediti. Quindi distinguiamo fra i corsi e la partecipazione a convegni: i convegni non possono essere visti come strumento normale di superamento di una formazione efficace di un professionista. Perché se no sviliamo il concetto di formazione. Un convegno prevalentemente è qualcosa in cui si dà una informazione, mentre un corso è invece qualcosa che porta ad un cambiamento comportamentale e di conoscenze.

 

Link all’articolo di PuntoSicuro “Le criticità della formazione: la carenza dei controlli sull’efficacia”

Link alla prima parte dell’intervista.