Formazione alla sicurezza 3: le criticità e le soluzioni

Dopo aver presentato alcune criticità della formazione alla sicurezza in Italia, attraverso un documento di Sebastiano Calleri(Responsabile Salute e Sicurezza della Cgil), dopo aver raccolto le interessanti proposte della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP), una associazione che raccoglie alcune tra le più rappresentative associazioni professionali e scientifiche in materia di salute e sicurezza, è venuto il momento di fare alcune riflessioni.

E interessanti riflessioni e analisi sono gli ingredienti di un’intervista – della durata quasi di un convegno (circa un’ora e trenta minuti) – che ho realizzato per il giornale PuntoSicuro a tre degli estensori del documento CIIP: Giancarlo Bianchi (Presidente della Consulta CIIP e dell’associazione AIAS), Norberto Canciani (Vice Presidente di CIIP e Segretario dell’associazione Ambiente e Lavoro) e Arnaldo Zaffanella (Vice Presidente di AIAS e coordinatore del gruppo di lavoro della CIIP sulla formazione).

L’intervista, inizia delineando quel “mercato e business della formazione” e affrontando quella carenza di attenzione ai “bisogni formativi” a cui la CIIP vuole porre urgente rimedio attraverso le sue proposte. Si sofferma anche sulle “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti” (estratto del documento CIIP).

 

In questo post presento la prima parte dell’intervista che è stata pubblicata su PuntoSicuro lo scorso 14 gennaio con l’articolo “Il discount della formazione e l’assenza di efficacia e qualità” e che risponde a diverse domande:

– Perché in questi anni il mercato della formazione ha visto l’emergere anche di realtà carenti a livello di qualità ed efficacia?

– Chi sono i soggetti accreditati ad erogare la formazione? E perché si è diffusa l’abitudine della delega? Con che risultati?

– Cosa può servire per migliorare i controlli sulla formazione alla sicurezza?

– Ci sono le capacità, le competenze, le risorse, le linee guida per poter effettivamente vigilare sulla formazione?

– Si valutano correttamente i bisogni formativi?

– Ci sono norme tecniche che possono supportare le aziende, i formatori, i percorsi formativi?

L’intervista su YouTube:

Questa è una breve trascrizione parziale dell’intervista pubblicata e presentata su PuntoSicuro:

Con riferimento al documento prodotto il 10 dicembre dalla Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione, affrontiamo il tema delle criticità della proposta formativa in Italia. Cerchiamo di comprendere la situazione attuale…

Giancarlo Bianchi : (…)Oggi l’80% dei problemi che nascono dagli incidenti o dagli infortuni dipendono da non corretti comportamenti degli operatori. Comportamenti che possono dipendere anche da carenze organizzative progettuali.

La formazione è lo strumento essenziale per cambiare i comportamenti. Tuttavia attualmente la formazione viene gestita prevalentemente per cambiare le conoscenze iniziali rispetto alle conoscenze finali, ma non nell’ottica di un cambiamento comportamentale. (…)

Affrontiamo più nel dettaglio il tema delle criticità, anche in riferimento alla normativa italiana e, in specifico, agli Accordi Stato-Regioni in materia di formazione…

Norberto Canciani: (…)Il problema è questi Accordi Stato-Regioni si sono verificati inefficaci per gli obiettivi per cui erano nati. Probabilmente questo eccesso di definizione – di normazione, direbbe qualcuno – ha portato a stravolgere il senso stesso e gli obiettivi. Cosa è successo?

Intanto probabilmente c’è una scorretta individuazione dei soggetti abilitati ad erogare la formazione. E’ stata fatta una individuazione solamente sulla base di criteri generali senza entrare nel merito delle competenze specifiche. Per fare un esempio, sono stati individuati come soggetti erogatori della formazione anche enti e soggetti che non sono nati per erogare formazione. Mi riferisco, ad esempio, ad alcune associazioni datoriali o sindacali che nascono con un obiettivo diverso, una mission diversa e che però per definizione, per legge, sono abilitati ad erogare formazione.

Cosa è successo dunque in questo periodo?

E’ successo che proprio per l’incapacità di alcuni di questi soggetti ad essere soggetti formatori si è assistito alla delega di funzioni. Per cui molti di questi soggetti che avevano l’autorizzazione per legge a fare formazione, non avendone le competenze, si sono avventurati in una serie di deleghe ad altri soggetti formativi più o meno abilitati. Addirittura, in alcuni casi, arrogandosi anche il diritto di abilitare altri soggetti formativi. Non dimentichiamo che in Italia i soggetti formatori o sono legittimati, autorizzati a monte dalla legge stessa (sono essenzialmente i soggetti istituzionali) o sono accreditati a livello regionale.

In questi anni è successo che molti soggetti che non erano né legittimati né accreditati, si sono avventurati nell’erogare formazione a tutti i livelli. Con le conseguenze del caso. Perché tra tanti soggetti anche competenti si sono annidati personaggi più o meno competenti, più o meno onesti e si è assistito ad un proliferare di attestati, di corsi. E anche di corsi malfatti, fatti da docenti non qualificati, fatti non seguendo i criteri stabiliti dalla norma e, specialmente, fatti senza tener conto dell’efficacia della formazione.

La situazione verificata al momento è abbastanza drammatica, perché la formazione è diventata un business, ma i risultati di questa formazione, in termini di prevenzione,  non si vedono assolutamente. Per questo motivo come CIIP abbiamo definito, a monte, cosa vuol dire formazione, seguendo i canoni della norma… Ma non solo, facendo riferimento anche alle buone prassi relative alla formazione. E quindi abbiamo ritenuto, oltre a definire in un documento più corposo questi aspetti, di cercare di sollecitare i controlli e di presentare un istanza e le proposte che di cui più avanti parliamo…

Quali sono altre conseguenze di questa situazione della formazione in Italia?

Arnaldo Zaffanella: (…) Bisogna tener conto anche dei problemi che ha chi fa formazione seriamente, perché chi la fa seriamente si trova in concorrenza delle proposte molto molto veloci e molto poco costose, una sorta di discount della formazione. È chiaro che vendere attestati è qualcosa di diverso dal fare una formazione come si deve. Una formazione che, dobbiamo ricordarci, è di tipo specifico, operativo, comporta anche un addestramento. Non è semplicemente far vedere la normativa. (…)

Quanto diceva Norberto è legato al fatto che la normativa vigente è prevalentemente portata ad avere i crediti, ad avere l’attestato. Ma chi entra però nei contenuti della formazione? Probabilmente c’è qui un aspetto da mettere a fuoco…

Come misurare l’efficacia della formazione?

Si sa che ogni processo – ingegneristico, medico, …di qualsiasi tipo – ha bisogno di essere erogato, ma poi è necessario misurarne l’efficacia. Come la misuriamo? Con l’attestato? (…)

Cosa serve per migliorare i controlli sulla formazione alla sicurezza? Ci sono le capacità, le competenze, le risorse, le linee guida per poter effettivamente vigilare sulla formazione?

Norberto Canciani: (…) Che tipo di controlli chiediamo? Intanto che venga messo in atto un Piano Nazionale dei Controlli sulla formazione. Sono stati fatti Piani nazionali su alcune tipologie di controlli, in materia di sicurezza sul lavoro, e sarebbe opportuno che venga organizzato un piano nazionale sulla formazione. Quando si organizzano questi piani nazionali dei controlli vengono stabiliti delle procedure, dei protocolli operativi, …

E’ chiaro che il controllo sull’efficacia della formazione non è una cosa semplice. Proprio per questo come CIIP ci stiamo lavorando e abbiamo prodotto un documento. In sostanza si chiede che i controlli innanzitutto vengano fatti in maniera sistematica. Che vengano fatti non attenendosi solo all’acquisizione dei certificati, degli attestati, di cui abbiamo appena parlato. E chiediamo che i controlli siano fatti entrando nel merito dei progetti formativi organizzati dalle singole aziende, dai singoli enti formatori. Possibilmente facendo controlli anche presso gli enti formatori autorizzati, accreditati, certificati, … La terminologia varia perché noi nelle nostre proposte siamo un po’ più articolati, come vedremo dopo. La sostanza è: controlli che puntino non alla verifica dell’esistenza dell’attestato, ma ai contenuti e alle modalità con cui è stata erogata l’attività di formazione. E anche ai risultati.

La partita sui risultati e sull’efficacia è una partita molto complessa. Ma ci sono delle esperienze. Io ho lavorato presso l’Asl di Milano e, per un periodo ho anche coordinato l’attività di controllo. E ho seguito un progetto che doveva ridefinire dei metodi per andare a controllare i risultati della formazione. Ricordo sempre che la norma non dice che il datore di lavoro deve erogare un corso di formazione ai propri lavoratori, ma la norma dice che il datore di lavoro deve realizzare e garantire una formazione adeguata e sufficiente. La norma definisce cosa si intende per formazione. La formazione non è trasferire delle informazioni. E’ un processo educativo che quindi deve portare ad una modifica dei comportamenti. Se questo non avviene, la formazione non si è verificata, la formazione non è avvenuta e il datore di lavoro non ha ottemperato a quanto previsto dall’articolo 37 del decreto 81/2008.

Nella lettera e nell’intervista si parla di un “mercato della formazione” che rincorre il minor costo senza alcun riferimento a criteri di qualità ed efficacia… Non c’è anche una responsabilità delle aziende? Secondo voi in Italia ci si rende conto di quanto si potrebbe risparmiare facendo buona formazione?

Arnaldo Zaffanella: No, non ci si rende abbastanza conto di questo. Sul tema della formazione c’è un comportamento molto difforme e disomogeneo tra grandi imprese, piccole/medie imprese e professionisti. E qui si apre un dibattito molto ampio… Sicuramente la domanda di formazione è diversa. Qual è quella giusta? Dipende dal tipo di sensibilità, dalla tipologia del lavoro, … Noi non dobbiamo metterci a inventare il modello giusto.

Esistono a livello internazionale, ne ha accennato il presidente Giancarlo Bianchi, delle normative che stabiliscono come si fa formazione professionale, non solo nel campo della prevenzione. Formazione che è distinta dalla formazione che viene chiamata formale. E quando si parla di formazione professionale  si parla di training, non di learning. Training vuol dire anche addestramento, vuol dire preparare le persone a operare in modo diverso.

Ci sono, approvate da anni, dall’UNI, norme che hanno recepito in Italia questo modo di procedere. Ad esempio la norma 29990:2011, che sostanzialmente dice come deve essere fatta la formazione e parla anche di organizzazione dei centri di formazione… Che sia interno o esterno, ci deve essere un’organizzazione, un’analisi dei fabbisogni formativi… (…)

Si parla anche della preparazione del docente, il profilo del docente. Come misurarlo? Sono cose già scritte, che sono da applicare… Chiaramente non c’è un modello solo, ma bisogna cominciare… Ultimamente tra l’altro, a livello internazionale, in campo normativo c’è un nuovo approccio. Non è che io sono a posto perché compilo un modulo e sono tutti “si” (…). Occorre valutare caso per caso cosa serve, soprattutto nel caso della formazione professionale perché è agente correttivo di situazioni critiche…” (…).

Link all’articolo di PuntoSicuro “Il discount della formazione e l’assenza di efficacia e qualità”

 

 

 

 

Formazione alla sicurezza: il diritto dei lavoratori ad una formazione efficace

È indubbio che la formazione dei lavoratori e di tutti gli attori della sicurezza nelle aziende sia uno dei principali strumenti di tutela della salute e sicurezza nelle aziende. È indubbio che solo una formazione efficace possa contribuire a modificare realmente i comportamenti pericolosi e a migliorare le buone prassi e la prevenzione nei luoghi di lavoro. È indubbio anche che una buona formazione non dipenda solo dalla conformità alla legge, ma anche dalla qualità dei contenuti erogati, dalla modalità con cui sono comunicati, dalle competenze dei formatori.

Malgrado tutte queste certezze, la situazione della formazione alla sicurezza nel nostro paese non gode di buona salute.

Certo esistono ottime proposte formative (in aula, in e-learning, …), ma queste proposte rischiano di annegare in un mercato della formazione in cui le aziende rincorrono il minor prezzo senza preoccuparsi della qualità di quanto si propone ai lavoratori. Una situazione che nasce dalla miopia degli imprenditori che non vedono come solo una buona formazione possa diminuire gli alti costi della non sicurezza e che rischia di creare grossi problemi economici a chi propone alle aziende formazioni qualitativamente valide (e inevitabilmente più costose).

In questo mercato della formazione, come racconta un documento della CIIP che presenterò nei prossimi giorni, sono presenti “ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla formazione, con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non qualificati e la vendita di corsi in ‘formazione a distanza’ privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti”.

Proprio di fronte alle necessità di denunciare queste zone di elusione, di superare il tema delle conformità di legge per arrivare ai veri obiettivi della formazione, ho deciso di dedicare alcuni dei prossimi post del mio blog informativo, ad una sorta di reportage, di breve indagine sulla situazione della formazione alla sicurezza nel nostro paese.

E iniziamo oggi presentando un documento elaborato da Sebastiano Calleri, Responsabile Salute e Sicurezza del principale sindacato italiano, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil).

Un contributo che speriamo possa essere utile per chiarire la situazione della formazione in Italia e per ribadire come il diritto alla formazione dei lavoratori debba essere inteso solo come diritto ad una formazione valida ed efficace.

Buona lettura.

Tiziano Menduto


Il diritto alla formazione dei lavoratori (e non solo): un problema ancora aperto

di Sebastiano Calleri, Responsabile nazionale salute e sicurezza nei luoghi di lavoro-CGIL

 

Si è appena chiusa la annuale fiera “Ambiente e lavoro”, che si tiene ogni anno a Bologna, e il tema della formazione in SSL anche quest’anno è stato al centro di molte (troppe) iniziative e discussioni. E molto bene ha fatto la CIIP, con una lettera documentata e circostanziata, a denunciare gli abusi o le semplici scorrettezze o addirittura le vere e proprie illegalità che si perpetrano in questo campo ad opera di operatori scorretti e fin troppo tollerati.

Il fatto è, come sempre, che nonostante ci sia stato un evidente miglioramento ed avanzamento delle prescrizioni normative (ovviamente non ancora perfetto, ma si sa che la perfezione è rara avis in questo mondo) attraverso l’81/08 e i famosi accordi Stato-Regioni c’è ancora molto cammino da fare. Questo non tanto perché le norme non siano chiare ma perché esiste una diffusa mentalità imprenditoriale e non solo che cerca in qualche modo di eludere i costi e gli obblighi che comporta un godimento pieno del diritto stesso da parte di tutti i lavoratori e lavoratrici (NB: intendo come tali anche i dirigenti, i preposti e le altre figure del SPP aziendale).

Pensiamo anche alle problematiche tuttora irrisolte (nonostante l’attività legislativa) della formazione in caso di somministrazione di lavoro o di contratti precari, nel caso di lavoratori autonomi che prestino la propria opera in contesti produttivi complessi, o alla ultima previsione del Jobs Act riguardante il non esplicito obbligo di formazione e addestramento alla mansione in caso di demansionamento da parte del DL. E perfino al mancato aggiornamento dell’accordo Sato-Regioni riguardante gli RSPP, che registra ancora nella sua bozza attuale molte critiche sia da parte imprenditoriale che da parte sindacale che istituzionale.

Eppure assistiamo ad un fiorire incredibile di iniziative formative e di corsi di tutti i livelli, e a stanziamenti robusti dal punto di vista economico da parte ad esempio dell’Inail. Ma sono molti i problemi che si riscontrano riguardo a questa tematica: nei relativamente pochi anni che ci separano dalla novella del corpus normativo si è potuto constatare che si sono sviluppate ampie zone di elusione ed evasione degli obblighi, con il quasi generalizzato ricorso a soluzioni di pura apparenza.

Un caso frequentissimo è il rilascio di attestati formativi di comodo a valle di iniziative meramente burocratiche e prive di contenuti utili o fianco realistici, con docenze affidate a formatori non accreditati né accreditabili alla funzione e la vendita di corsi in “formazione a distanza” privi dei requisiti di legge, spesso anche di contenuti non pertinenti, tali da configurare vere fattispecie di truffa ai danni degli utenti e delle aziende italiane. Bisogna dire anche per completezza ed obiettività che tali non conformità hanno potuto svilupparsi proprio a causa della mancanza o della inadeguatezza dei controlli che hanno consentito il dilagare di situazioni illegali, e della forza lobbistica potentissima di alcune associazioni o aziende.

Ovviamente, questa situazione ha agito a scapito della qualità dei corsi stessi e ha impedito agli operatori qualificati, non competitivi in termini di tempi, criteri e modalità di erogazione della formazione stessa di poter essere presenti ed apprezzati dal mercato. Inoltre, alcune pratiche difformi dalla normativa come l’acquisizione di crediti formativi attraverso la partecipazione a convegni, anche poco rilevanti e ancor meno partecipati o di buona qualità, sono diventate sempre più frequenti fino al punto che, in alcune bozze di revisione degli Accordi Stato-Regioni che regolano la materia, tale modalità viene ritenuta accettabile.

Bisogna dire che la scorsa consiliatura della Commissione consultiva ex art.6 D.Lgs.81 ha raggiunto un avanzamento importante: si sono infatti sanciti (dopo un percorso durato anni) i requisiti minimi del formatore abilitato a tenere i corsi in oggetto. Proprio durante quel processo assistemmo al tentativo da parte delle piccole imprese di provare ad introdurre il principio che in questi contesti la formazione potesse essere erogata direttamente dal datore o dal Rspp, senza alcuna esigenza di verifica e certificazione (che ovviamente, penserà qualcuno, non sono garanzie assolute di effettivo svolgimento o di qualità). Questo avrebbe però a nostro avviso determinato una ancora più vasta elusione dell’obbligo, anche perché è facile comprendere che i tempi della produzione e le esigenze organizzative avrebbero facilmente sopravanzato una sottovalutata efficacia prevenzionistica delle attività in questione.

Eppure non ci sarebbe bisogno di ribadire a persone avvedute e ai cultori della cosiddetta “cultura della sicurezza” che, come gli studi effettuati al riguardo mostrano chiaramente, una corretta ed efficace formazione (generale e specifica) è una delle prime fonti di diminuzione degli infortuni e delle malattie professionali. Ma evidentemente l’esigibilità del diritto e la correttezza di svolgimento dello stessa formazione non è tenuta in debito conto neanche dalle istituzioni statali e regionali preposte alla vigilanza, se moltissime denuncia a questo riguardo rimangono inascoltate. C’è da dire anche, però, che alcune previsioni della regolamentazione non rendono la sorveglianza e la sanzione conseguente molto facile. Mi riferisco ad esempio alla poco regolata ma diffusissima forma della modalità on-line di svolgimento dei corsi, che nelle sue pieghe lascia troppa possibilità di elusione da parte delle aziende.

In conclusione, ci sembra di poter affermare che sono opportune e accoglibili tutte le iniziative di finanziamento e di supporto ai processi formativi, ma bisognerebbe mettere in campo qualche sforzo in più per reprimere i diffusissimi comportamenti non corretti o peggio, e poi sfruttare in maniera forse migliore la possibilità della arcifamosa e arcifamigerata “collaborazione” con gli Organismi paritetici e gli Enti bilaterali. Prima che qualcuno smetta di leggere questo articolo a seguito di queste ultime righe, individuando una qualche “captatio benevolentiæ” a favore delle organizzazioni sindacali, provo a motivare questa affermazione. Gli organismi paritetici e gli enti bilaterali con competenze in materia di SSL sono enti formati dalle associazioni imprenditoriali e sindacali maggiormente rappresentative, che firmano i CCNL, e che quindi conoscono bene i contesti produttivi ed organizzativi nei quali questa formazione si deve svolgere. La previsione legislativa che assegnava la possibilità alle aziende di poter avvalersi della collaborazione di questi per l’elaborazione dei piani e per il loro svolgimento, non era una norma vessatoria (come impropriamente affermato da qualcuno) visto il fatto che non è neanche originaria di sanzione, ma una possibilità di sviluppare appunto iniziative in favore della famosa e sbandierata e troppo spesso citata “cultura della sicurezza”.

Credo che proprio a questo aspetto dovremmo porre attenzione in favore di un maggiore sviluppo delle attività di formazione di qualità ed aderenti ai bisogni educativi dei settori specifici. E’ una esigenza dei lavoratori e delle aziende, è un concreto campo di lavoro fruttuoso. Ed è anche un contributo “bilaterale” e “bipartisan” che sarebbe ora che fosse compreso, sviluppato ed implementato tenendo nel giusto e corretto conto le esigenze di produttività e di competitività generali.

Sebastiano Calleri

Lo stress dimenticato 2: il malessere lavorativo nelle aziende italiane

Nelle scorse settimane ho parlato dello stress, dello stress dimenticato, nascosto nelle aziende. Di quello stress solo blandito da valutazioni e misure di prevenzione non sempre in grado di modificare i problemi organizzativi che, in molti casi, sono alla radice dello stress lavoro correlato.

Oggi non mi soffermo, come nel precedente post, su indagini e su dati, ma provo a monitorare il malessere nelle aziende attraverso un’intervista a Rosanna Gallo, psicologa del lavoro, specializzata in benessere organizzativo, già docente di “Promozione del benessere organizzativo” all’Università di Parma e componente del Comitato Scientifico Asicus.

Non è un intervista recente, è stata pubblicata su PuntoSicuro il 16 aprile 2013. Ma permette di rilevare ancora oggi una situazione di malessere che, specialmente a causa della crisi persistente delle aziende, continua ad essere elevata.

I lavoratori “si ammalano” e le malattie psicosomatiche sono in aumento; “lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni” e si ricorre ad “abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione”…

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

Tiziano Menduto

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

 


Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

Un’intervista di PuntoSicuro alla psicologa del lavoro Rosanna Gallo, specializzata in benessere organizzativo. Come affrontare l’aumento dello stress, della depressione, delle malattie psicosomatiche, degli errori umani nei luoghi di lavoro.

Oggi si sta male nei luoghi di lavoro”, i lavoratori “si ammalano e le malattie psicosomatiche sono in aumento; lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni” e si ricorre ad “abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione”.

Queste alcune frasi tratte da una intervista di PuntoSicuro a Rosanna Gallo, psicologa del lavoro, specializzata in benessere organizzativo, già docente di “Promozione del benessere organizzativo” all’Università di Parma e componente del Comitato Scientifico Asicus.

L’abbiamo intervistata in relazione al convegno “Benessere Organizzativo & Produttività Aziendale” che si è tenuto a Milano l’11 marzo 2013 – organizzato da TEC, la scuola di formazione del Gruppo Bosch in Italia, in collaborazione con Ranstad, Technogym e Virgin – di cui Rosanna Gallo era moderatrice.

Convinti che la prevenzione dei rischi psicosociali, anche in conseguenza delle ripercussioni sul mondo del lavoro della crisi economica, sia sempre più la “nuova frontiera” della tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, le abbiamo dunque posto alcune domande sul tema del benessere e malessere nei luoghi di lavoro.

Partiamo da alcuni dati: nell’Unione Europea la condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori, mentre in Italia siamo al 27% con un evidente criticità rispetto agli altri paesi europei. E la depressione, secondo l’Agenzia Europea per la sicurezza e salute sul lavoro, diverrà ben presto la principale causa di congedo per malattia in Europa. Cosa sta succedendo nei luoghi di lavoro? E ha senso parlare di benessere in questo periodo di crisi occupazionale?

Rosanna Gallo: Oggi si sta male nei luoghi di lavoro. L’incertezza e la paura di perdere il lavoro portano a comportamenti difensivi, per cui le persone non si espongono, non decidono e si rendono invisibili; purtroppo si ammalano e le malattie psicosomatiche sono in aumento; lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni, riduce la memoria e la flessibilità. Le persone e ricorrono ad abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione. Nel 2000 scrissi un articolo proprio sulla depressione organizzativa, non da attribuire alle singole persone, ma al clima organizzativo.

Ecco, oggi la situazione si è estremizzata e amplificata: oggi ci sono i suicidi veri o tentati, anche inconsapevolmente, che mettono a rischi persone e organizzazione. Avrei preferito fare prevenzione dei rischi psicosociali nei luoghi di lavoro, ma oggi è diventato indispensabile agire con interventi per la promozione del benessere organizzativo. Oggi è diventata un’emergenza, perché dopo la depressione sta emergendo la rabbia che può essere molto distruttiva.

Definiamo il benessere organizzativo. Quali sono i vantaggi pratici per i lavoratori e per i datori di lavoro? E quale è il rapporto tra benessere organizzativo e produttività aziendale?

RG: Il benessere organizzativo (b.o.) si riferisce alle politiche di prevenzione e promozione della salute e sicurezza intese in senso ampio. Ad esempio parliamo di sicurezza fisica (prevenzione infortuni) e sicurezza psicologica (prevenzione stress), ma anche di processi e comportamenti che promuovono il benessere organizzativo: la formazione, la meritocrazia, politiche di equità e di pari opportunità, la valorizzazione delle diversità (di età, di genere e culturali) e soprattutto il lavoro in team; infatti il gruppo di lavoro è un forte ancoraggio per le politiche di sicurezza, perché protegge e sviluppa le persone e l’organizzazione allo stesso tempo.

I vantaggi del benessere organizzativo sono numerosi: le persone, se non devono dedicare energie nel nascondere il proprio stress/malessere, ne hanno da investire per innovare e produrre con maggiore qualità. Le persone che si sentono riconosciute nel contribuire allo sviluppo dell’organizzazione sono più coinvolte e appartenenti e più soddisfatte e solidali; dimostrano una maggior resilienza allo stress e minori possibilità di malattia e assenteismo. Il datore di lavoro trae il vantaggio del minor assenteismo e maggior produttività.

Le ricerche più recenti evidenziano che il denaro investito per il b.o. ha un ritorno medio di 4 volte tanto.

Se, come indicato da alcune ricerche del 2012, il lavoratore felice ha performance più elevate, ha un tasso di logoramento inferiore, ha minore assenteismo e minore necessità di assistenza sanitaria, come è possibile che solo oggi si pensi benessere organizzativo? Cosa impedisce che questa diventi una strategia condivisa dalle aziende?

RG: Se ne parla da anni, ma è sempre stato vissuto come un argomento “snob”, per poche aziende che avevano già fatto tutto. E non avevamo tutte le ricerche, di cui disponiamo oggi, a supporto. In questi giorni, alcune aziende milanesi più illuminate si stanno organizzando per condividere una strategia comune, ma altre continuano a mantenere un clima ricattatorio per cui quando un lavoratore non è più al massimo della propria efficienza viene …sostituito da un altro…

Abbiamo a suo parere in Italia un management, dei datori di lavoro, delle società all’altezza di questi difficili compiti? C’è più attenzione al benessere organizzativo in altri paesi?

RG: Purtroppo in questi ultimi anni la crisi ha “paralizzato” molte aziende che, nel dubbio, non hanno fatto nulla ed hanno perso anni. Il management italiano non ha goduto di formazione e sviluppo necessari ad affrontare le sfide con maggior coraggio, indipendenza e spirito critico e si adegua alle richieste dell’imprenditore con uno spirito poco orientato a promuovere cambiamento.

Affrontare la crisi aumentando le ore di presenza in ufficio non migliora la situazione, mentre i colleghi stranieri traggono vantaggio dall’uscire dal lavoro in tempo per fare sport, bere qualcosa con gli amici e occuparsi dei familiari prima di essere troppo stanchi.

Spesso quando si parla sia di malessere che di benessere nel mondo del lavoro si fa riferimento alla flessibilità lavorativa. Secondo lei la flessibilità è da intendere come un fattore positivo o negativo per il benessere del lavoratore?

RG: La flessibilità dovrebbe essere positiva per tutti, perché dovrebbe incontrare le esigenze della persona e dell’organizzazione; in realtà assistiamo spesso a flessibilità a senso unico e spesso solo in funzione delle esigenze organizzative.

Quali sono i principali indicatori di malessere nelle organizzazioni? E come questo malessere si trasforma in depressione, in rassegnazione, in rabbia? Mi pare che lei si sia occupata in passato anche di alcuni casi di suicidio…

RG: Quando si entra nelle organizzazioni si comprende subito il clima, se c’è fiducia e rispetto, se il merito è riconosciuto, se le persone sentono di poter crescere e contribuire, se si può imparare da un errore, chiedere aiuto o se non si è capaci di affrontare diversità e gestire i conflitti. Lo stile di leadership definisce molto le relazioni di collaborazione o competizione interna.

Il suicidio è un caso estremo di malessere in cui si è persa la speranza e ci segnala il senso di grande solitudine del lavoratore: l’impossibilità di potersi esprimere con gli altri di poter chiedere aiuto, di condividere un sentimento di depressione.

Mi pare che in alcune proposte di intervento per migliorare il benessere organizzativo ci sia la proposta di portare a galla il dolore affettivo – ad es. legato ai demansionamenti – in azienda. Quale è il ruolo dell’emozione nei luoghi di lavoro? E cos’è l’intelligenza emozionale?

RG: Il ruolo delle emozioni è fortemente comunicativo e produttore o sabotatore di energia per le persone e per i team. Le emozioni positive costituiscono la base di quella fiducia necessaria alla collaborazione e alla creatività che promuove innovazione. Il senso di perdita che le persone provano, ad es. durante riorganizzazioni, è dato dalla perdita del ruolo e del team di appartenenza. Anche se si mantiene il posto di lavoro si vive la perdita dell’identità lavorativa (quasi totalizzante per gli uomini) e si sperimenta la sindrome dei sopravvissuti (alla prima ondata di uscite di personale) col pensiero che la volta successiva non si avrà la stessa fortuna.

L’intelligenza emozionale è l’emozione compresa mentre la si prova. Ad es. se l’emozione della paura (di perdere il lavoro) fosse espressa da qualcuno del gruppo di lavoro tutti i suoi membri se ne avvantaggerebbero nel sentirsi meno soli. Inoltre, la condivisione della paura ne abbasserebbe l’ intensità per tutti, mettendo a disposizione maggior energia da destinare alla costruttività, anzichè alla difesa.

In conclusione per spingere le aziende a considerare e a attuare strategie che portino al benessere organizzativo, cosa è necessario che accada? Bisogna sensibilizzare i lavoratori? O i datori di lavoro? O addirittura si deve arrivare a qualche nuova legge?

RG: Abbiamo abbastanza leggi, ma poca informazione sui vantaggi sociali ed economici del benessere organizzativo. Ogni anno ci sono premi per le aziende che promuovono benessere, ma per alcuni è ancora un argomento frivolo. Oggi abbiamo molti dati e best practice a supporto e dobbiamo solo aumentarne la diffusione sia per i datori di lavori che per le organizzazioni sindacali, perché la sostenibilità del lavoro andrà in questa direzione.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

Lo stress dimenticato: breve inchiesta attraverso le carenze della valutazione del rischio stress lavoro correlato

Parlare del rischio stress è come parlare di un illustre sconosciuto. Tutti lo conoscono, ne discutono, tutti concordano sulla sua onnipresenza nel mondo del lavoro. Ma poi molte aziende evitano la valutazione o ne sfiorano soltanto i rischi con contromisure all’acqua di rose, convinti che in realtà lo stress sia qualcosa di altri, sia un “clima aziendale” da cambiare solo con una finestra aperta.

Il problema è che lo stress correlato all’attività lavorativo è un reale pericolo per i lavoratori e per l’azienda.

Per l’azienda è come un tarlo che rode da dentro. Non è solo la causa di assenteismo/malattia, è anche un forte freno alla produttività, specialmente se gonfiata da una faticosa rincorsa alla produttività dei competitors. Un freno che, senza prevenzione, prima o poi si farà sentire e non sarà più disinseribile senza grandi e dolorosi cambiamenti.

E per il lavoratore il rischio stress è un cattivo compagno che – in condizioni snervanti dal punto di vista organizzativo e/o relazionale – danneggia il fisico e la psiche. A volte lo stress si insinua nel lavoratore come una sconfitta da nascondere, una battaglia persa.

In un’azienda in cui la valutazione non c’è o le misure di prevenzione sono solo apparenti, questo tarlo si rinforza diffondendosi sempre più. Diventa sempre più un modus vivendi. E quando una malattia non può più essere riconosciuta perché vissuta come normalità, non c’è più niente da fare.

Proprio per alzare l’attenzione sulla falsa prevenzione dello stress nel mondo del lavoro, ho deciso di dedicare un po’ di spazio di questo blog a questo tema. Magari parlando di valutazioni da fare o fatte male, di indagini della magistratura, delle conseguenze reali su lavoratori e aziende e delle ricerche che hanno messo in questi anni, dopo che il D.Lgs. 81/2008 ha aumentato l’attenzione sui rischi psicosociali nel mondo del lavoro, il “dito nella piaga”.

La prima ricerca di cui vorrei parlare è un’indagine condotta dall’Associazione Bruno Trentin in stretta collaborazione con le organizzazioni sindacali e promossa dalla CGIL Nazionale e dalla FIOM CGIL – con il finanziamento del FAPI (Fondo Formazione Piccole e Medie Imprese) – per comprendere come è affrontato il rischio stress lavoro correlato nelle aziende metalmeccaniche. I risultati dell’indagine, raccolti nel volume “Il rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico” sono stati presentati il 31 marzo 2015 a Roma durante la giornata di studio e confronto dal titolo “ Rischi psicosociali in Italia ed in Europa: quali percorsi per la tutela dei lavoratori?”.

Per comprendere i risultati di questa interessante ricerca e avere un quadro realistico di come si affronta lo stress lavorativo nelle aziende del comparto metalmeccanico, ho realizzato un intervista – pubblicata sul quotidiano online PuntoSicuro del 9 giugno 2015 – al ricercatore Daniele Di Nunzio (Associazione Bruno Trentin – IRES – Istituto di Ricerche Economiche e Sociali– Osservatorio Salute e Sicurezza).

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto

 

 


 

 

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Partiamo dalla storia di questa ricerca sul rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico. Da quali esigenze e problematiche è nata? Chi ha coinvolto?

Daniele Di Nunzio: Negli ultimi dieci anni le leggi e gli accordi tra le parti sociali hanno rafforzato gli obblighi per la tutela della salute dei lavoratori dando sempre maggiore importanza all’integrità della salute psico-fisica e, di conseguenza, alla prevenzione dei rischi psicosociali. In particolare, il decreto legislativo 81/2008 impone a tutte le imprese l’obbligo di effettuare la valutazione del rischio stress correlato al lavoro, secondo quanto previsto dalle indicazioni della Commissione consultiva permanente emanate alla fine del 2010.

L’Associazione Bruno Trentin, in collaborazione con la CGIL nazionale e la FIOM CGIL, con un finanziamento del Fapi, ha condotto una ricerca per capire lo stato della valutazione del rischio stress: se è effettuata, come è effettuata, quali sono i risultati.

La ricerca è stata condotta nelle aziende metalmeccaniche, ascoltando il parere dei Rappresentanti dei Lavoratori per Sicurezza, attraverso un questionario.

Perché ha riguardato in particolare il settore metalmeccanico? Quanto è presente in questo settore il rischio stress lavoro correlato?

DDN: Nel settore industriale i rischi per la salute dei lavoratori sono molti. I  rischi più noti sono quelli di tipo fisico, come i danni muscolo-scheletrici, o di tipo chimico, così come il rischio di subire un incidente.  Però esistono anche dei rischi che sono propri dell’organizzazione del lavoro, molto diffusi, meno visibili, rispetto ai quali l’attenzione è minore. I fattori che mettono una forte pressione sul lavoratore sono tanti, come i ritmi serrati, la catena di montaggio, il lavoro ripetitivo, i turni e la tendenza alla produzione continua. Questi fattori possono comportare dei danni alla salute psicologica e anche un maggiore rischio di incidenti, quindi mettono in pericolo la salute del singolo ma anche quella di una comunità di lavoratori e lavoratrici.

Veniamo ai risultati partendo innanzitutto dai ritardi delle aziende nel valutare i rischi stress lavoro correlati. Qual è la situazione nel comparto metalmeccanico? In quante aziende la valutazione è stata effettivamente fatta?

DDN: La ricerca mostra l’esistenza di numerose difficoltà per la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Le criticità maggiori e più diffuse sono: il fatto che la valutazione non viene effettuata, le mancanze nell’applicazione delle norme, lo scarso coinvolgimento degli Rls, la scarsa efficacia nell’individuazione dei rischi, la scarsa capacità di programmare delle adeguate misure di intervento per migliorare le condizioni di lavoro.

Dei 185 casi analizzati, solo in 59 la valutazione è stata conclusa al momento della rilevazione. Dall’analisi di questi 59 casi sappiamo che solo in 8 aziende sono stati evidenziati dei rischi “medi” o “alti” dall’analisi degli eventi sentinella (ossia fattori quali l’indice infortunistico o l’assenza per malattia). In 22 casi i fattori di contesto o contenuto (come l’ambiente di lavoro, l’orario e i turni) hanno indicato un rischio “medio” o “alto”. Solo in 14 casi è stata indicata la necessità di misure di intervento per contrastare il rischio stress lavoro-correlato e migliorare le condizioni di lavoro.

Dunque, in un contesto con così tanti pericoli, come quello metalmeccanico, nella maggioranza dei casi la valutazione dei rischi non è riuscita a fare emergere i problemi reali per la salute psicologica dei lavoratori. E’ dunque utile fermarsi a riflettere su qual è il funzionamento del sistema di gestione dei rischi e della valutazione dei rischi, per comprenderne le criticità e migliorarne l’efficacia.

Se vogliamo approfondire l’analisi, i dati della ricerca ci mostrano che a tre anni dall’emanazione delle indicazioni della Commissione Consultiva ancora un’azienda su tre non ha iniziato a valutare il rischio stress lavoro-correlato secondo quanto previsto dalla nuova regolamentazione. Se consideriamo un periodo di tempo più lungo, un’azienda su cinque non ha mai svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato a partire almeno dal 2008, per cui numerosi lavoratori sono stati esclusi dalla prevenzione obbligatoria su questo rischio.

Che differenza c’è nei dati in relazione alla grandezza delle aziende?

DDN: Nelle piccole aziende sono molte le difficoltà per la tutela della salute dei lavoratori, tra cui: le difficoltà economiche che ostacolano la messa in atto di interventi preventivi e migliorativi delle condizioni di lavoro, la minore presenza di figure specializzate sui temi della salute e sicurezza, il fatto che le aziende più piccole lavorano più spesso in appalto o comunque sono più facilmente in balia del mercato e delle commesse esterne, una minore opportunità di  programmazione a lungo termine del lavoro.

Però dalla ricerca emerge un dato interessante: per quanto riguarda la valutazione specifica del rischio stress lavoro-correlato, il coinvolgimento degli Rls è avvenuto in misura maggiore nelle aziende più piccole (con meno di 50 addetti). In ipotesi, nei contesti più piccoli gli Rls hanno un rapporto più diretto con la dirigenza e possono assumere un ruolo più operativo mentre nei contesti più grandi si impone uno stile più tecnocratico e formale che ostacola la partecipazione.

La ricerca ha coinvolto in particolare i Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza delle varie aziende… Qual è il livello di coinvolgimento riscontrato, laddove la valutazione del rischio è stata fatta? In che percentuale sono stati formati sul rischio stress?

DDN: Il sindacato ha un ruolo fondamentale nel sistema di gestione dei rischi. La ricerca mostra che quando gli Rls sono coinvolti nella gestione del rischio stress emergono meglio i problemi e le soluzioni. È scarsa anche l’attenzione verso la percezione “soggettiva” dei lavoratori e questo dimostra come ci sia ancora troppa confusione rispetto ai temi della salute psicologica. I lavoratori dovrebbero essere i primi a essere coinvolti nei percorsi di tutela delle loro condizioni di salute, visto che l’analisi dei rischi legati allo stress non può certo prescindere dall’ascolto del loro punto di vista. Certamente i fattori oggettivi sono importanti ma non possono riuscire a individuare tutti i problemi presenti per la salute psicologica, perché questa non può essere ridotta a un calcolo matematico, perché l’articolazione dei fattori di rischio è complessa e perché, di certo, il primo fattore di benessere è quello di sentirsi partecipi della vita aziendale.

Riguardo al ruolo degli Rls, la ricerca mostra che il rispetto formale della normativa ha portato le aziende a osservare alcuni obblighi minimi, come la visione del Dvr per gli Rls e la loro formazione, ma nella sostanza non ha favorito un ruolo attivo e partecipativo degli Rls.

L’analisi evidenzia alcuni problemi: un Rls su quattro non è stato consultato su come impostare la valutazione preliminare; nella metà dei casi gli Rls non sono stati coinvolti o lo sono stati in maniera marginale; si afferma il ricorso a consulenze esterne private, mentre il coinvolgimento di  esperti delle istituzioni pubbliche e di quelli delle organizzazioni sindacali e datoriali è scarsissimo se non nullo.

Da cosa nasce la carenza di coinvolgimento degli RLS nelle valutazioni dei rischi? Perché in Italia è ancora carente l’idea che la partecipazione di tutti alla cultura della sicurezza possa essere un elemento vincente  per l’efficacia delle attività di prevenzione?

DDN: Negli ultimi anni in Italia, non solo nel settore metalmeccanico, la competizione delle aziende è stata fondata soprattutto sull’abbassamento del costo del lavoro, con una scarsa attenzione ai fattori propri dell’innovazione e della valorizzazione del personale. Così, si è affermata una spirale di dequalificazione dei processi produttivi che si traduce in una minore competitività sui mercati globali e, anche, in peggiori condizioni per i lavoratori. In molte imprese italiane manca la capacità di puntare davvero sulla qualità della produzione, di valorizzare ogni singolo aspetto del ciclo produttivo, a partire dall’innovazione dei processi, dal lavoro quotidiano delle persone, dalla facoltà di creare un clima cooperativo. Ad esempio, la ricerca mostra che Il coinvolgimento degli Rls è avvenuto nella maggior parte dei casi nei contesti aziendali con uno stile di gestione del rischio più collaborativo, mentre laddove lo stile è più conflittuale ci sono degli ostacoli al coinvolgimento degli Rls. La cultura della sicurezza è indissolubilmente legata al valore che si da alle persone e al loro lavoro, così come è in stretto rapporto alla democrazia interna di un contesto aziendale.

Qual è il giudizio generale che è stato riscontrato sulla presenza e sulla gestione del rischio stress nelle aziende metalmeccaniche?

DDN: Solo il 30,8% degli Rls ritiene che la valutazione abbia fatto emergere i problemi principali legati al rischio stress in azienda e addirittura solo il 9% di loro ritiene che siano state affrontate delle problematiche ritenute importanti per la valutazione dello stress.

Non stupisce dunque che la maggioranza degli Rls (il 61,2%) non sia soddisfatta di come è stata condotta la valutazione nelle aziende e la valutazione del rischio sarebbe stata più efficace nell’individuare le problematiche realmente presenti nei luoghi di lavoro se il coinvolgimento degli Rls e dei lavoratori fosse stato maggiore, al contrario di quanto è accaduto.

Quali sono le possibili soluzioni per arrivare ad un’adeguata valutazione e gestione del rischio?

DDN: La soluzione migliore è certamente quella di rispettare le leggi e, anche, lo spirito che è alla base delle normative, partendo da quanto previsto dagli orientamenti europei in materia che prevedono la creazioni di sistemi di gestione del rischio fondati sulla cooperazione tra tutti gli attori. Per questo, è molto utile la creazioni di gruppi specifici di lavoro su questi temi a livello aziendale, capaci di favorire il coinvolgimento e la partecipazione degli Rls, dei lavoratori e anche dei medici, delle Asl, di esperti. In particolare, dalla ricerca emerge che le aziende in cui i fattori di contenuto e di contesto hanno portato all’individuazione di un rischio «medio» o «alto» sono quelle in cui c’è stato il coinvolgimento maggiore dell’RLS. Allo stesso modo la necessità del ricorso a misure correttive o interventi migliorativi emerge con maggiore frequenza nelle in cui è stata indagata la percezione dei lavoratori e l’RLS è stato coinvolto nel processo di valutazione.

Al di là delle scelte aziendali, tra gli RLS c’è sufficiente attenzione al tema dello stress e dei rischio psicosociali?

DDN: Negli ultimi anni l’attenzione a questi temi è andata crescendo. Lo stress correlato al lavoro è un problema che permea ogni aspetto della vita aziendale, di conseguenza per gli Rls occuparsi di questi temi significa occuparsi dell’organizzazione complessiva e delle condizioni generali del lavoro. Sicuramente i problemi per la salute psicologica nelle aziende sono meno considerati rispetto ad altri, però questo non significa che non siano importanti per i lavoratori che, ogni giorno, si confrontano con i problemi dovuti ai ritmi, agli orari, al carico di lavoro e di responsabilità che possono avere. E gli Rls dunque si confrontano necessariamente con questi problemi che riguardano la vita quotidiana dei lavoratori e lo fanno con una consapevolezza sempre crescente che deve essere alimentata con una formazione continua. Certamente sono problemi complessi e per questo gli Rls necessitano di avere degli strumenti adeguati, in termini di formazione ma anche di supporto da parte dell’azienda e, anche, delle organizzazioni sindacali, che devono riuscire a valorizzare il loro ruolo e a coordinare il loro lavoro in maniera sempre più efficace.

Quali sono in definitiva le principali conclusioni a cui arriva la ricerca?

DDN: Secondo i risultati della nostra ricerca, successivamente all’entrata in vigore delle indicazioni della Commissione Consultiva permanente è aumentato il numero di aziende che hanno svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato, per cui le indicazioni potrebbero avere contribuito ad aumentare l’attenzione a questi rischi. Quindi qualche passo in avanti è stato fatto ma la strada è ancora lunga. È necessario migliorare dal punto di vista normativo gli obblighi per la valutazione del rischio ma, soprattutto, bisogna superare qualsiasi approccio formale e non sostanziale a questi problemi, evitando anche il rischio di una burocratizzazione della valutazione che si ferma alla sola misurazione del dato oggettivo. In generale, è necessario favorire l’affermazione di una cultura della sicurezza fondata sulla cooperazione, sul dialogo, sulla democrazia aziendale, valorizzando il ruolo degli Rls e la partecipazione dei lavoratori, che sono i veri protagonisti di questi processi e devono avere un ruolo attivo e propositivo.

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Rischio stress: i ritardi e le carenze delle valutazioni dei rischi”