Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Alessandro Negrini e all’Ing. Serenella Corbetta del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.


Come raccontato in un precedente post, il lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, non è solo una conseguenza della pandemia e dell’emergenza COVID-19. Il modello organizzativo del lavoro a distanza è molto di più: è una nuova prospettiva, un “mutamento copernicano” con cui il mondo del lavoro deve confrontarsi per il presente e per il futuro. E non solo in riferimento alla scelta, o meno, di adottarlo, ma anche in relazione alle nuove strategie di prevenzione e alle corrette prassi di valutazione dei rischi di una realtà che la normativa attuale fatica ancora a riconoscere e gestire adeguatamente, almeno per quanto riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Per cercare di conoscere meglio questo mondo ho già segnalato il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI. E ho presentato – nel post “Covid e smart working 01: criticità e prospettive future” – una intervista ad alcuni dei suoi autori, gli ingegneri Gaetano Fede e Stefano Bergagnin.

Se in quella intervista mi sono soffermato sulle caratteristiche del lavoro agile e sulle carenze normative, nell’intervista che presento oggi- con due componenti del GTT “Smart working e lavori in solitudine”, gli ingegneri Alessandro Negrini e Serenella Corbetta – affronto alcuni aspetti più operativi relativi allo smart working.

Ricordo che l’intervista è stata realizzata e pubblicata per PuntoSicuro nell’articolo “Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”.  


Possiamo dare qualche consiglio alle aziende che si trovano a dover valutare i rischi dello smart working anche in relazione all’attuale contesto emergenziale?

Ing. Alessandro Negrini: Come molti strumenti innovativi legati all’organizzazione d’impresa, anche il lavoro agile richiede una solida pianificazione fondata su quelli che possiamo considerare i tre pilastri di qualsiasi processo di sviluppo destinato al successo: una comunicazione efficace, una formazione graduale (quanto continua nel tempo) e l’accesso a nuove tecnologie scalabili con cui poter prendere confidenza via via che si procede lungo la curva d’apprendimento.

Il primo consiglio, quindi, è di agire in modo ponderato nonostante l’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria: lo smart working impone di definire chiaramente a priori sia gli obiettivi che le risorse destinate ad alimentare quello che sarà un cambiamento strutturale, importante e – soprattutto – articolato nel tempo. Questo per non confondere la flessibilità con l’improvvisazione.

Quali sono i rischi più sottovalutati o meno conosciuti nel lavoro a distanza e nello smart working in particolare?

Ing. Alessandro Negrini: Parlando di sicurezza occupazionale in genere, i rischi psicosociali sono spesso trattati alla stregua di una tematica di secondo piano: forse perché è complicato parlare in modo oggettivo di questioni spesso legate alla sfera emotiva, personale. La remotizzazione del lavoro, tuttavia, accentua molte di queste criticità e ci pone davanti alla necessità di affrontarle in modo aperto proprio attraverso la comunicazione e la formazione.

Più nello specifico, una valida gestione dei rischi psicosociali dovrebbe poter stabilire precisi confini tra “pubblico” e “privato” sia in termini di orari che di strumenti di comunicazione anche e soprattutto in funzione delle specifiche necessità individuali: ciò equivale a riconoscere – innanzitutto – che, se anche lo smart working impone un ampio ricorso alla digitalizzazione, questo non implica necessariamente l’estraniamento, l’isolamento o la frustrazione. Si può lavorare (e si deve) in modo agile favorendo un’interazione sociale più ricca ed equilibrata che affianchi il principio d’inclusione a quello della creazione di un mero valore economico.

Certo è che il primo radicale cambiamento di prospettiva (un mutamento copernicano, in un certo senso) prescinde dalle scelte tecnologiche e si fonda, anzi, sulle persone stesse: sullo svecchiamento di una mentalità aziendale che, troppo spesso, considera lo stress (nelle sue varie espressioni) come una componente strutturale dell’attività lavorativa in sé. In questo dobbiamo riconoscere che molti dei problemi associati al lavoro agile (parliamo, fra l’altro, di tecnostress, di burnout, di ansia da controllo/ micro-management) sono gli stessi punti dolenti che, mal gestiti, portano una parte delle aziende ad uscire dal mercato perché insistono tout court nel rifiutare nuovi approcci alla gestione d’impresa sulla base di un equivoco di fondo: la convinzione che un’attività lavorativa bilanciata e “a misura d’uomo” costituisca un’utopia, al pari di un modello organizzativo (come lo smart working) focalizzato sulla qualità del risultato anziché su logore metriche di stampo quantitativo.

Nelle linee di indirizzo si parla di “boundary”, di confine tra spazio lavorativo e spazio domestico. Quali sono i problemi connessi alla gestione degli spazi lavorativi negli ambienti privati e nelle abitazioni?

Ing. Alessandro Negrini: : Nel momento in cui l’impresa diviene “liquida“, i confini fisici dello spazio lavorativo tradizionale si fanno indistinti e, soprattutto, non consentono più di ragionare secondo i vecchi criteri che permettevano di definire un’attribuzione diretta di responsabilità (es. incidente in sede o in itinere, vigilanza di terzi o autonoma ecc.) oltre a stabilire un’implicita compartimentazione tra sfera lavorativa e dimensione privata (fisicamente collocate in luoghi diversi).

Il lavoro agile mette in discussione questi stessi confini e, al contempo, impone di concordarne di nuovi con l’impresa, offrendo – a mio avviso – la preziosa opportunità di superare la standardizzazione tipica dei modelli tradizionali, per focalizzarsi finalmente sugli elementi che davvero possono favorire il benessere individuale dei lavoratori in base alle loro specifiche esigenze di vita.

La gestione dei rischi che interessano i lavoratori agili assume, d’altronde, un’ottica di ampio respiro improntata ad una diversa concezione di welfare, tenendo in conto che la frequente sovrapposizione tra ambiente privato e ambiente di lavoro induce a trasferire le abitudini personali (salutari e non) anche al contesto professionale. Questa tendenza impone la necessità di individuare le fonti di rischio per la salute psico-fisica dei lavoratori secondo una prospettiva a lungo termine e, a mio parere, con un approccio che definirei “olistico” cioè teso a superare la logica dei “compartimenti stagni” menzionata poco fa.

In questo, stimo di rilievo gli esperimenti promossi negli scorsi mesi da alcune imprese che hanno varato programmi di miglioramento della salute aziendale volti a garantire ai propri dipendenti in smart working tutta una serie di iniziative (es. formazione nutrizionale e sugli effetti nocivi del fumo, attività fisica ed educazione posturale on-line ecc.) che ne migliorassero lo stile di vita nonostante la nuova sfida costituita dalla remotizzazione emergenziale. Le implicazioni anche a livello di welfare sociale (es. il contributo alla diffusione di una cultura della salute, l’opportunità di un invecchiamento attivo ecc.) sono evidenti, quanto interessanti.

Come affrontare la valutazione dei rischi nel lavoro agile? Come operare una valutazione in “luoghi di lavoro e in condizioni non controllabili e non monitorabili” direttamente?

Ing. Serenella Corbetta: Ai sensi del D.Lgs. 81/2008, il Datore di lavoro è tenuto alla verifica della conformità dell’ambiente di lavoro ma per quanto concerne i lavoratori agili e la loro prestazione di lavoro “anywhere”, appare evidente la quasi impossibilità di verificare lo stato di tutti i luoghi di lavoro privati in cui operano i lavoratori agili o i luoghi all’aperto.

E’ pertanto utile ricorrere a strumenti di autocontrollo con ausilio di check list compilate dal lavoratore, che deve essere evidentemente reso partecipe e consapevole della valutazione.

La check list deve essere di facile comprensione identificando in primis il luogo prevalente dello svolgimento dell’attività e declinando poi i potenziali rischi da analizzare, contribuendo così ad innalzare il grado di consapevolezza del lavoratore: indicativamente le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, degli spazi di lavoro, degli arredi, del rischio elettrico, incendio , dei fattori organizzativi , di conciliazione spazi vita lavoro, del lavoro in solitario, delle modalità organizzative.

Questa check list sarà poi utile a definire l’informativa – richiesta sempre dall’art. 22 della L. 81/2017- ai lavoratori stessi sui rischi generali e specifici dell’attività lavorativa in modalità agile.

Nella prima parte dell’intervista abbiamo accennato alla riduzione degli infortuni in itinere, ma ci sono esempi di infortuni durante le attività di smartworking?

Ing. Serenella Corbetta: Nel settembre scorso, l’INAIL è stata sollecitata da una richiesta di indennizzo per una lavoratrice caduta dalle scale, mentre effettuava una telefonata di lavoro e svolgeva la sua attività in modalità agile. Alcuni chiarimenti sull’infortunio in smartworking si ricavano dalla circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017, dove è precisato che il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio proprio dell’attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni del profilo professionale del lavoratore.

E’ necessario ricordare che l’art. 22 della Legge 81/2017- attuale normativa sul lavoro agile – prevede espressamente che il datore di lavoro garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori che svolgono l’attività in modalità agile.

Anche in questo caso riteniamo importante, da un lato una check list redatta secondo i suggerimenti che abbiamo prima elencato e dall’altro disciplinare nell’accordo le modalità e i luoghi dove il lavoratore potrà svolgere l’attività lavorativa, con una adeguata e dettagliata informativa sui rischi.

Diciamo qualcosa anche sullo stress lavoro correlato nello smart working. Spesso si è parla di tecnostress e di diritto alla disconnessione. Sono temi che avete affrontato anche nelle linee di indirizzo?

Ing. Serenella Corbetta: Certo, il documento da ampio spazio al diritto della disconnessione, ovvero “il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psico- fisiche”.

Il lavoratore agile è particolarmente esposto all’intensificazione dei ritmi (iper connessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero) all’isolamento e alla connotazione labile dei confini tra spazi/tempi lavorativi e non lavorativi, variabili in parte compensati dall’autonomia nella gestione del tempo.

È il Datore di lavoro che deve evitare che il lavoratore agile, che svolge la propria attività lavorativa da remoto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici, sia sottoposto a stress da eccesso di lavoro o tecno stress disciplinando lo speculare “dovere di disconnessione” nel quadro della nuova organizzazione del lavoro.

Veniamo, infine, a un altro importante argomento trattato nelle linee di indirizzo: la formazione. Che tipo di formazione necessita per uno smart worker?

Ing. Serenella Corbetta: La formazione è certamente un elemento cardine per il miglioramento della consapevolezza dei rischi dello smart worker e deve essere finalizzata ad un cambiamento effettivo degli atteggiamenti e dei comportamenti dei lavoratori che devono acquisire la consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei contesti in cui lavorano. La formazione è l’unico strumento a disposizione delle aziende per tutelare i lavoratori agili aumentando le loro conoscenze e competenze in merito alla sicurezza in ambienti completamente diversi dal tradizionale ufficio aziendale ed è fondamentale per l’azienda che non può garantire il continuo monitoraggio dei luoghi di lavoro.

Ricordiamo che nell’informativa INAIL sullo smart workingil lavoratore è tenuto ad adottare un comportamento coscienzioso e prudente, escludendo luoghi che lo esporrebbero a rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici della propria attività svolta in luoghi chiusi”.

La prestazione all’aperto comporta rischi di cui il lavoratore potrebbe non avere la percezione: rischio furto, rapina, aggressione, per citarne alcuni di cui il lavoratore deve essere conscio nella scelta del luogo dove operare la propria prestazione.

Il dipendente ha l’obbligo di osservare le direttive aziendale e collaborare all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte dal Datore di Lavoro utilizzando gli strumenti tecnologici in sua dotazione, in conformità alle policy aziendali, per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali (art. 22 comma 2 lg 81/2017). La violazione degli obblighi di collaborazione, oltre alla rilevanza disciplinare, potrebbe determinare una limitazione di responsabilità in capo al datore di lavoro.

È pertanto implicito nel disposto normativo l’obiettivo di rendere consapevoli e partecipi i lavoratori all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte e solo un valido percorso formativo ad hoc, può permettere il raggiungimento dell’obiettivo.

Parliamo di una riprogettazione del processo formativo dello smart worker, dando certamente spazio alla formazione sui rischi tradizionali, ma pensando anche a percorsi di autoformazione guidati dal Rspp o da formatori qualificati, che declinino diversi momenti di autovalutazione delle proprie condizioni lavorative anche tramite interviste e somministrazioni di check list, training on the job o mentoring.

È necessario poi una grande attenzione ai nuovi contenuti di digital divide, diritto al distacco, problem solving e capacità di gestire il cambiamento. Riteniamo che l’aggiornamento formativo dello smart worker, partendo dal percorso tracciato dall’Accordo Stato Regione del 21/12/2011 che prevede 6 ore nel quinquennio, debba essere declinato con un monte ore annuale, esplicitato nell’accordo individuale con il lavoratore che diviene parte attiva del processo stesso con lavori a progetto che stimolino la capacità di acquisire competenze, riconoscere fonti attendibili, identificare i propri indicatori di perfomance.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Intervista di Tiziano Menduto

Covid e smart working 01: criticità e prospettive future

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Gaetano Fede e all’Ing. Stefano Bergagnin del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.

Non c’è ormai alcun dubbio sul fatto che molte conseguenze sul mondo del lavoro della pandemia siano ormai quasi irreversibili, specialmente in termini di innovazione e riorganizzazione lavorativa. Il rischio biologico connesso al COVID-19 ci ha avvicinato ad un nuovo possibile modello lavorativo a distanza che tuttavia necessita di adeguate tutele e di una normativa moderna e adeguata, anche in materia di prevenzione.

Proprio per cercare di ragionare su questi aspetti, aiutare aziende e lavoratori a migliorare la prevenzione e proporre eventuali modifiche normative sono state pubblicate dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI) le “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working”. Un documento – a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo “Smart working e lavori in solitudine” del CNI – che ho pensato fosse utile approfondire attraverso alcune mie interviste pubblicate dal giornale online PuntoSicuro.

Nella prima intervista presentata oggi – pubblicata nell’articolo “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future” – ho posto alcune domande all’Ing. Gaetano Fede (Consigliere CNI e Coordinatore del Gruppo di Lavoro Sicurezza) e all’Ing. Stefano Bergagnin (Gruppo di Lavoro Sicurezza CNI) cercando di comprendere quali possano essere le carenze nella tutela dei lavoratori agili, quali siano i rischi del fraintendimento tra smart working e telelavoro e, specialmente, quali lacune si annidino in una normativa, la Legge n. 81 del 22 maggio 2017 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato“, che, come ricordato nell’articolo, “non sembra essere al passo del cambiamento richiesto dalle conseguenze della pandemia”.

L’intervista vuole comprendere anche cosa è possibile fare per migliorare le tutele dei lavoratori e quali siano gli eventuali vantaggi del lavoro a distanza, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere.

Nelle prossime settimane riporterò sul blog anche una seconda intervista sul lavoro agile con particolare attenzione ad aspetti più operativi, come la formazione dello smart worker e l’analisi e valutazione dei rischi, con riferimento al tecnostress e al confine tra spazio lavorativo e domestico.

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Partiamo dalle motivazioni che hanno portato il CNI a occuparsi di smart working… Quali sono a vostro parere le principali lacune e carenze, normative e culturali, che possono portare a sottovalutare o a non tutelare adeguatamente i rischi dei cosiddetti lavoratori agili?

Ing. Gaetano Fede: C’è da sottolineare innanzitutto che la veloce diffusione del lavoro a distanza a partire dall’inizio del periodo pandemico del COVID19 nel nostro Paese ha colto tutti impreparati considerato che il telelavoro, e soprattutto lo smartworking, in Italia non erano diffusi come in altri Paesi.

Il GdL sicurezza del CNI aveva tuttavia già attivato un GTT (Gruppo Tematico a Tempo) in merito proprio allo smartworking e al lavoro in solitudine, che a volte coincidono, perché ritenemmo, già 2 anni fa, che fosse necessario un approfondimento sui rischi per i lavoratori che svolgono la propria attività secondo tali modalità.

Con il diffondersi della pandemia e l’incremento del lavoro a distanza abbiamo ritenuto ancora più urgente sviluppare il lavoro delle linee di indirizzo con la massima urgenza, in quanto l’unica norma in vigore in merito al lavoro agile è la Legge 81/2017, a nostro avviso non sufficientemente dettagliata per fornire indicazioni su come valutare e gestire i rischi che sono presenti, a volte in modo diverso, anche per chi lavora esternamente alla sede aziendale.

Nelle vostre linee di indirizzo si fa riferimento al “diffuso fraintendimento” tra le diverse modalità del lavoro agile e del telelavoro. Quali sono le differenze tra queste due modalità di lavoro e i rischi di questa confusione?

Ing. Gaetano Fede: Ci sono diversi aspetti in comune tra lavoro agile e telelavoro, ad esempio il fatto che si lavori a distanza, ma vi sono differenze fondamentali che non sono mai state messe in evidenza e di conseguenza quando i “media” trattano il tema del lavoro a distanza, così diffuso in questo periodo, lo indicano semplicemente come smartworking.

Tuttavia non è così, perché vi sono due differenze fondamentali.

In primo luogo l’assoluto vincolo di orario presente nel telelavoro ma non previsto, o previsto soltanto parzialmente, per il lavoro agile. Inoltre il lavoro agile (sostanzialmente coincidente con la definizione smartworking) prevede che vi sia sempre un obiettivo concordato tra lavoratore e azienda (o ente perché è applicato anche nel settore pubblico), aspetto questo che il telelavoro non prevede. Mettere insieme due diverse tipologie di lavoro a distanza rischia pertanto di confondere pericolosamente le acque, anche in relazione ai nuovi rischi che ne possano derivare.

A suo parere nella riorganizzazione lavorativa seguita alla pandemia qual è stata la reale proporzione, nella diffusione del lavoro a distanza, tra le nuove realtà di telelavoro o di lavoro agile?

Ing. Gaetano Fede: Non ci sono ancora dati governativi ufficiali dai quali possiamo attingere.

Al momento sui quotidiani si parla di circa 6 milioni di lavoratori a distanza (qualcuno continua a dire in smartworking e, come sopra detto, non è corretto), ma abbiamo potuto appurare, avendo rapporti giornalieri con enti pubblici, che in questi ambiti non si tratta quasi mai di lavoro agile ma semplicemente di telelavoro, modalità già presente da anni ma poco utilizzata.

Anche nel privato la condivisione di obiettivi tra lavoratori e azienda non viene spesso definita e ufficializzata. Senza dubbio la percentuale di lavoratori agili tra gli attuali 6 milioni è decisamente minoritaria.

Parlando di prevenzione il lavoro in smart working e in telelavoro hanno indubbiamente anche dei vantaggi rispetto al lavoro svolto nei classici ambienti lavorativi, ad esempio in termini di riduzione degli infortuni in itinere. Ci sono dati a questo proposito? Qual è il suo parere sulla diffusione del lavoro a distanza anche successivamente all’emergenza?

Ing. Gaetano Fede: I dati INAIL del 2020 non sono ancora ufficiali e pertanto non possiamo sapere se effettivamente gli infortuni in itinere sono diminuiti, ma ci aspettiamo sicuramente che la riduzione sia stata significativa. A tal proposito evidenziamo anche un minore impatto ambientale (diminuzione dell’inquinamento atmosferico) legato senza dubbio al lockdown scaturente dalla pandemia; tutti abbiamo notato negli ultimi 15 mesi un’aria più pulita e una maggiore visibilità! Se riducessimo gli spostamenti per un numero importante di lavoratori a distanza, sicuramente tale situazione sarebbe comunque costante nel tempo.

Il lavoro a distanza sarà certamente predominante nel prossimo futuro, come già prevedono le modalità di importanti aziende multinazionali, che lo alternano con giornate in presenza; solo così saranno più facilmente raggiungibili gli obiettivi condivisi e saranno più gestibili i rischi, sia in merito agli aspetti propriamente tecnici, sia per gli aspetti collegabili alle delicate tematiche della “socialità” e dello “stress lavoro correlato”.

Le linee di indirizzo sottolineano che la Legge n. 81/2017, benché relativamente recente, risente di “un approccio di vecchio stampo”. Quali sono a suo parere gli aspetti su cui il legislatore dovrebbe intervenire per rendere la norma più efficace?

Ing. Stefano Bergagnin: L’abbiamo definita “vecchio stampo” semplicemente perché riprende il principio risalente al primo recepimento con il D.Lgs. 626/94 della direttiva quadro europea sulla sicurezza, la 89/391/CEE, che prevedeva praticamente buona parte della responsabilità sulla valutazione dei rischi a carico del “datore di lavoro”. In merito al lavoro agile siamo decisamente ancora in queste condizioni, quando invece l’approccio dovrebbe essere diverso, anche per ragioni pratiche.

Facciamo un esempio: come può un datore di lavoro (anche se con la collaborazione del RSPP) effettuare una completa e approfondita valutazione dei rischi per il lavoratore che magari opera da casa sua? Non è senza dubbio sufficiente l’informativa di cui parla la Legge 81/2017; non è possibile effettuare una buona valutazione dei rischi basandosi semplicemente su un’informativa annuale come prevede la nostra norma. All’estero, in alcuni casi, la collaborazione del lavoratore stesso, tramite la trasmissione di dati specifici utili alla redazione del documento in merito alla valutazione dei rischi, è obbligatoria.

Il mondo sta cambiando repentinamente, la sede di lavoro non sarà più per molti la sede aziendale, c’è bisogno di un nuovo paradigma, di una maggiore collaborazione tra le parti per il bene, in primo luogo, del lavoratore.

Qual è il suo parere su quello che si è fatto, in questa fase di emergenza, per favorire, insieme alla diffusione del lavoro a distanza, anche un’adeguata tutela? Si poteva fare di più?

Ing. Stefano Bergagnin: E’ difficile dare un giudizio in merito: c’è chi ha agito bene e chi ha sottovalutato le possibili conseguenze. In alcuni grandi gruppi industriali c’è stata senza dubbio una collaborazione tra aziende e sindacati, si sono definiti obiettivi, condizioni di lavoro, approfondimenti e la conseguenza è stata la focalizzazione di problemi specifici che possono condizionare il lavoro a distanza.

Parallelamente, soprattutto nel pubblico e nelle aziende di piccole dimensioni, il problema non è stato affrontato, la condivisione tra azienda/ente e lavoratori è stata minima soprattutto in relazione all’improvviso diffondersi della pandemia e del necessario spostamento a distanza del lavoratore, senza neppure trattarne le conseguenze e, addirittura, confondendo e/o sovrapponendo telelavoro e smartworking.

Sono previsti, come è stato per le linee di indirizzo per gli spazi confinati, futuri aggiornamenti? Quali sono i prossimi progetti su cui lavorerà il CNI in materia di smart working?

Ing. Stefano Bergagnin: Senza dubbio ci sarà un futuro aggiornamento perché siamo in piena evoluzione. Ci aspettiamo in primo luogo un aggiornamento della normativa e un approfondimento da parte del legislatore ma nel frattempo noi del GdL e dello specifico GTT sullo smartworking continueremo a studiare l’evoluzione tecnologica legata al lavoro agile e la gestione dei rischi ad esso collegati. Non è escluso un sondaggio, tra i nostri iscritti esperti nel settore, al fine di raccogliere importanti e dettagliati contributi/criticità dai vari territori del nostro Paese.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Intervista di Tiziano Menduto

Spazi confinati 05: strumenti e formazione per ridurre gli infortuni

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Documenti Inail e strumenti per la formazione. Intervista a Luciano Di Donato, DIT Inail.

IndagineSicurezza”, blog di riflessione e di approfondimento sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro in Italia, ha ospitato in questi anni diversi materiali e interviste realizzate sul tema degli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un ambito, quello degli spazi confinati, che continua a mietere vittime, come recentemente avvenuto, a fine maggio 2021, per due operai che sono morti per esalazioni di vapori tossici all’interno di una vasca di lavorazione. E tutto questo malgrado anche normative ad hoc – come il Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 – che insieme al D.Lgs. 82/2008 dovrebbero garantire una adeguata tutela per i lavoratori che lavorano in questi ambienti.

Se l’ultimo post ha presentato uno studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludiamo questa piccola inchiesta, costruita con interviste da me realizzate per il giornale online PuntoSicuro, con le risposte dell’ing. Luciano Di Donato (Responsabile del Laboratorio II – macchine e attrezzature di lavoro Dipartimento DIT dell’Inail) riguardo ad alcune ricerche e alcuni documenti (tre factsheet) pubblicati dall’Istituto:

  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Aspetti legislativi e caratterizzazione”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Formazione in aula e addestramento in campo”;
  • Ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili – Prodotti di ricerca dell’Istituto”.

Questi tre factsheet possono offrire molti spunti per chi si occupa, anche dal punto di vista formativo, della prevenzione degli infortuni in questi ambienti. 

L’intervista, realizzata nel mese di maggio 2021, è stata pubblicata su PuntoSicuro nell’articolo “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”.

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In relazione ai tanti infortuni mortali che avvengono negli ambienti confinati il nostro giornale si è spesso soffermato sulle problematicità e carenze, anche a livello normativo. Cominciamo a parlare di questo nuovo progetto Inail partendo dalle norme. Quali sono quelle di riferimento e quali sono le principali criticità?

Luciano Di Donato: In merito a questo primo quesito voglio intendere il termine norma nel senso più ampio della parola e quindi includere in questo termine la legislazione applicabile che oggi è rappresentata dal D.lgs. 81/2008, norma sulla sicurezza del lavoro, e dal Dpr 177/2011, regolamento per la qualificazione delle imprese che operano in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento.

È invece, in corso di sviluppo, un progetto di norma tecnica (UNI) specifica per l’argomento con l’obiettivo di curare alcuni aspetti non completamente definiti dalla legislazione applicabile.

Le principali criticità della nostra legislazione sono:

  • Una mancanza di definizione di ambiente confinato e/o sospetto di inquinamento;
  • L’esistenza di un elenco non esaustivo di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento;
  • La mancata definizione di criteri, modalità, contenuti e durata per la formazione e l’addestramento dei lavoratori.         

I suggerimenti per risolvere le criticità di cui all’elenco possono evincersi da una lettura completa delle risposte a tutte le domande formulate oltre, per evitare ridondanze, dalla lettura dei factsheet prodotti.

Nei factsheet pubblicati sono presentati alcuni dati e si fa riferimento anche agli ambienti “assimilabili” e alla cosiddetta “catena della morte”. Cosa si intende e perché quest’ultima è spesso correlata agli infortuni che avvengono in questi ambienti?

LDD: I dati pubblicati derivano da una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro e non possono considerarsi dati statistici, rappresentano però una importante raccolta di casi che vogliono essere di indirizzo a chi lavora in questo campo. 

Con il termine assimilabili (anche questi riportati negli istogrammi), si intendono tutti quegli ambienti che hanno medesimi pericoli e conseguenti rischi di ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento ma non inclusi in quelli descritti nei pertinenti articoli del DLgs. 81/2008

Il termine tragica catena di morte fu usato la prima volta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e pubblicato sulla cronaca della Repubblica dopo il grave infortunio con la morte di 5 lavoratori a Molfetta in una autocisterna. Viene ancora utilizzato perché per la tipologia degli ambienti dove questi infortuni accadono (ristretti, con difficoltà di ingresso e di uscita, inquinati e con una non facile applicazione delle fasi dell’emergenza) se fallisce la procedura di sicurezza (perché non adeguatamente realizzata o addirittura mancante), al primo lavoratore coinvolto seguono altri che nell’intento di soccorrere il compagno cadono vittima della stessa situazione pericolosa.

Se non è stata fatta una adeguata analisi e valutazione del rischio che tenga conto anche di una progettazione dell’emergenza questa catena si ripete. Non a caso parlo di progettazione dell’emergenza perché in alcuni casi si può arrivare a dover dissaldare parte di un serbatoio per salvare l’operatore che per qualsivoglia motivo è diventato non collaborante. 

Come si è sviluppato il vostro lavoro di ricerca e quali sono le criticità che avete riscontrato per la sicurezza in questi ambienti? Quanto è importante la formazione per prevenire efficacemente gli infortuni?

LDD: Le attività di ricerca hanno riguardato dapprima l’analisi dell’incidentalità e letalità correlate con le attività lavorative da svolgere in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e, successivamente, si sono concentrate nello studio di misure tecnico-organizzative per operare in sicurezza in tali ambienti. I risultati delle ricerche hanno permesso la progettazione di un simulatore fisico in grado di riprodurre diverse possibili condizioni di lavoro tipiche che caratterizzano gli ambienti in esame; il simulatore ha, poi, permesso di sperimentare specifici percorsi formativi e di addestramento da erogare agli operatori di settore.

La formazione, sia in aula che in campo, con enfasi all’apprendimento esperienziale consentito anche dall’uso del simulatore, diventa, quindi, un’attività fondamentale per accrescere la consapevolezza dell’operatore relativamente al corretto utilizzo della strumentazione, dei DPI e delle attrezzature di lavoro anche ai fini dell’emergenza. Tutto quanto sopra, col fine di realizzare una efficace applicazione della procedura di lavoro che, può crearsi anche a seconda della tipologia di ambiente per il quale viene richiesta la formazione e l’addestramento.

In cosa consiste la formazione esperienziale che avete messo a punto e come è stata applicata nei percorsi formativi nel 2020?

LDD: I lavoratori apprendono facendo: l’uso del simulatore fisico (passi d’uomo, tecnologia per il controllo delle azioni e per l’alterazione delle condizioni cognitive) nonché delle attrezzature a corredo (barella, fit test, sistema di sollevamento a sbraccio variabile, ecc) hanno consentito una esperienza realistica delle operazioni da compiere in emergenza.

Questa modalità, di fatto, forma le abilità richieste non solo attraverso l’addestramento diretto ma anche risolvendo le incertezze che possono sorgere in campo.

Proprio per questo, a valle dell’addestramento pratico, si è previsto un momento di confronto in aula dedicato a tutti dubbi (appositamente raccolti in forma anonima) insorti durante l’addestramento.

Questo iter aiuta anche i formatori a trovare insieme con i lavoratori e i datori di lavoro coinvolti nuove soluzioni operative, ancora una volta un apprendere facendo. Il percorso aiuta a risolvere gli inevitabili imprevisti che accadono e che, in un ambiente di simulazione protetto e sicuro, non portano ad incidenti (ma portano esperienza). Imprevisti che se accadessero nella realtà potrebbero essere mortali. 

Lei ha sottolineato l’importanza, per la formazione e l’addestramento, del simulatore fisico. Come è stato realizzato? Con quali criteri e risultati?

LDD: L’idea del simulatore, è nata diversi anni fa attraverso una attività di ricerca del Laboratorio macchine ed attrezzature di lavoro che aveva, come obiettivo, la realizzazione di un serious game per innalzare le capacità di comprensione dei pericoli e conseguenti rischi dei lavoratori qualificati per operare in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento. La sua realizzazione è stata la risposta concreta ad un periodo di infortuni gravi e mortali che si ripetevano con grande frequenza e che coinvolgevano un numero, per incidente, molto elevato di lavoratori (un lavoratore e quattro colleghi/soccorritori morti in un solo caso – strage di Molfetta).

Il simulatore è stato realizzato utilizzando un container trasportabile dotato di strumentazione di controllo e con sistemi di alterazione della capacità cognitive dei lavoratori che possono manifestarsi anche durante l’esercitazione, simulando di fatto, una condizione critica in itinere. Molti casi di infortunio evolvono nelle fasi di lavorazione per il cambio nel tempo delle condizioni dell’ambiente o addirittura (vedi attività di saldatura o lavorazioni sul piano stradale) dove i fumi e/o gas invadono l’ambiente che era stato preventivamente bonificato.

L’idea del trasporto è stata vincente perché già alcune multinazionali (appena prima dell’avvio della pandemia) hanno portato presso la loro sede il simulatore formando, con la nostra assistenza, il personale operante e qualificato per quelle tipologie di lavoro.

I criteri che ne hanno guidato la progettazione sono stati quelli di avvicinarsi quanto più possibile, in un ambiente protetto, alle condizioni reali operative anche per il salvataggio in emergenza. I risultati, per ora – benchè i dati non siano sufficienti per poter parlare di statistica – sono davvero interessanti. Le interviste pre formazione/ addestramento e quelle in uscita hanno mostrato che il sistema funziona e si innalzano le capacità di attenzione ai pericoli e rischi dei lavoratori impiegati oltre ad un innalzamento della cultura della sicurezza perché praticata appunto in modo esperienziale. 

Nei factsheet si parla sia di simulazione fisica che di simulazione virtuale e di realtà aumentata. Quali sono le differenze e le specificità?

LDD: I vantaggi principali e rappresentativi della realtà virtuale ed aumentata sono essenzialmente quelli di poter ricreare un qualsivoglia ambiente anche molto complesso con l’obiettivo di: effettuare valutazioni e scelte appropriate, fare una panoramica della situazione, considerando le condizioni del momento e il rischio correlato, esercitarsi a stimare il rischio potenziale correlato all’evoluzione della situazione; allenarsi a reagire a contingenze e fallimenti generati stocasticamente (cioè guasti, incendi, esplosioni, ecc.).

Pur essendo una tecnologia di cui non dobbiamo fare a meno, ed il laboratorio ha già lavorato su questo aspetto e continua a produrre soluzioni, attualmente non risolvono in modo completo ed esaustivo la fase di addestramento dei lavoratori ma rappresentano un ottimo rinforzo delle attività in aula. 

Il simulatore fisico consente di replicare le sensazioni fisiche relative ad operazioni tipiche: uso delle imbragature, uso della barella con movimentazione dell’operatore, uso del sistema di sollevamento a sbraccio variabile per le operazioni di recupero e salvataggio, nonché le possibili alterazioni delle prestazioni cognitive. Una formazione specialistica per essere tale deve preparare efficacemente e in modo completo alle condizioni di rischio standard e meno prevedibili. L’uso della realtà aumentata e virtuale per la rappresentazione di ambienti diversi e, di un simulatore fisico per la riproduzione di sensazioni fisiche e alterazioni cognitive in contesti lavorativi differenti, sono complementari e di fatto rappresentano un efficace sistema per ottenere una formazione che sia la più completa possibile.

Nei documenti prodotti avete parlato anche del Fit Test. Ricordiamo innanzitutto cos’è e perché è importante…

LDD: Prima di dire che cosa è le rispondo sul perché è importante eseguire il Fit test: è importante perché serve a verificare che le maschere e i facciali monouso delle vie respiratorie forniscano la giusta protezione e cioè che aderiscano bene al volto di chi li indossa. Infatti, barba, baffi, eventuali cicatrici o piccole difformità faciali ne possono compromettere l’efficacia.

Il Fit Test determina appunto la capacità della maschera o del facciale di mantenere la tenuta quando il lavoratore è in movimento. Per questo motivo gli utenti sottoposti al test devono completare diversi esercizi. Un DPI che si sposta durante il movimento potrebbe non essere in grado di mantenere la tenuta.

Esistono due tipi di test: qualitativi e quantitativi: nel caso di un Fit Test quantitativo (QNFT), che può essere utilizzato per qualsiasi maschera e facciale monouso aderente, questo prevede l’utilizzo di uno strumento per misurare le perdite intorno al volto e produce un risultato numerico chiamato Fit Factor che ci fornisce l’idoneità o meno del dispositivo per l’operatore che indossa il dispositivo.

Nelle attività in cui è necessario accedere a spazi confinati con dispositivi di protezione delle vie respiratorie questi test sono eseguiti?

LDD: Non è semplice rispondere a questa domanda. Alcuni casi di infortunio grave e mortale hanno individuato la causa nella scelta sbagliata del DPI (facciale filtrante, piuttosto che facciale isolato in un ambiente dove non c’era un adeguato livello di ossigeno) ma questo, non denota appunto, un corretto uso se finalizzato al modo di indossare il facciale piuttosto una scorretta analisi del rischio. Il fit test non è ritenuto cogente dalla nostra legislazione, ma ritengo, sia una pratica importante da seguire dove possano esserci ambienti di lavoro inquinati e/o con carenza di ossigeno.

Tutto, comunque, deve essere inizialmente valutato nell’analisi del rischio da effettuare prima di qualunque intervento.    

Concludiamo ricordando gli strumenti che l’Inail ha predisposto, oltre al progetto di alta formazione, informazione e addestramento, per gli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento e assimilabili. Ci saranno sviluppi futuri per questa attività di ricerca? E cosa auspicarsi per un miglioramento reale della prevenzione degli infortuni in questi ambienti a rischio elevato?

LDD: In relazione agli sviluppi della ricerca, stiamo già lavorando alla integrazione nel simulatore di sistemi di AG (Augmented Reality) e VR (Virtual Reality) con tecnologie integrate per simulare, in un ambiente virtuale, lo sforzo fisico che oggi non è possibile provare.

Infine, il miglioramento della prevenzione degli infortuni in questo caso passa attraverso:

  • Una prevenzione assistita;
  • Una definizione di criteri certi di formazione informazione ed addestramento del personale;
  • Una continua attività di ricerca per trovare nuovi sistemi e tecniche sicure per operare in questi ambienti.

Per il primo punto, possiamo citare le attività INAIL nella direzione di sconti sui premi assicurativi, nello specifico, nell’ultimo modello OT 23 – prevenzione degli infortuni mortali (non stradali) – è stata inserita la sezione A1 orientata agli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento mettendo in evidenza, tra le possibilità per ottenere questi sconti, la dimostrazione di avere sia la strumentazione (compresi robot) che formazione anche con simulatori. Questa è prevenzione, perché consente ai fruitori, di innalzare il grado di sicurezza con cui affrontare queste attività lavorative.

Per il secondo punto dalle attività con il simulatore vorrebbero arrivare delle proposte concrete, basate sull’esperienza della ricerca sul campo con cui proporre nelle sedi opportune un percorso formativo addestrativo virtuoso e di eccellenza che possa diventare un riferimento legislativo da seguire.

Infine, ad integrazione di quanto già risposto nella prima parte della domanda, un aspetto importante è l’attività di ricerca nel campo della robotica che, dove possibile, deve sostituire l’ingresso dell’uomo in questi ambienti. Anche su questo obiettivo, per altro molto ambizioso, il laboratorio sta lavorando.   

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Come migliorare la prevenzione degli infortuni negli ambienti confinati?”

Link ai tre factsheet prodotti dall’Inail

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Spazi confinati 04: conoscere gli infortuni per migliorare la prevenzione

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. La futura norma UNI e gli ambienti assimilabili agli spazi confinati. Intervista a Paolo De Santis della Contarp Inail.

Sono ancora troppi gli infortuni che avvengono nei cosiddetti ambienti sospetti di inquinamento o confinati. A titolo esemplificativo tra il 2002 e il 2014 si registrano in Italia circa 69 incidenti che hanno comportato 90 morti. E sono comunque molti gli infortuni mortali plurimi dal 2014 ad oggi, ad esempio con riferimento all’incidente plurimo (quattro morti) avvenuto in provincia di Pavia nel 2019.

Proprio partendo da questi dati e dalla necessità di migliorare la prevenzione a partire dalla conoscenza e dallo studio degli infortuni che avvengono in questi particolari ambienti, concludo il viaggio attraverso i rischi negli spazi confinati con un post, il quarto, che raccoglie un’intervista da me realizzata durante la manifestazione “Ambiente Lavoro” del 2019 e pubblicata sul giornale online PuntoSicuro (Spazi confinati: gli infortuni, le criticità e la futura norma UNI).

L’intervista è a Paolo De Santis (Inail – Contarp Lazio), relatore al workshop Inail “Ambienti Confinati e infortuni mortali: analisi delle criticità e proposte di soluzioni”, che si è soffermato proprio sulle criticità rilevate negli infortuni in questi ambienti.

L’intervista, realizzata il 17 ottobre 2019 e di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, ci permette di avere anche informazioni su una futura norma UNI in materia di ambienti confinati.

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Entriamo nel dettaglio degli infortuni che avvengono ogni anno negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati, con particolare riferimento al plurimo infortunio mortale che è avvenuto in provincia di Pavia a metà settembre…

Paolo De Santis: In particolare quest’ultimo incidente ha la caratteristica di raccogliere un po’ tutte quelle criticità che possono essere elencate.

Intanto osserviamo che, a 11 anni dalla pubblicazione del decreto 81/2008, ancora si muore negli spazi confinati. Nel frattempo c’è stato il DPR 177/2011, ci sono state decine di buone prassi, linee guida, … Ma il problema che questo particolare incidente indica è che la normativa, le buone prassi, ecc. molto spesso non arrivano alla piccola e piccolissima azienda.

Cosa è successo?

Dalle ricostruzioni dei giornali si capisce che un lavoratore si è sentito male al bordo di una vasca di liquami. È caduto nella vasca, è annegato e gli altri tre, di cui due datori di lavoro, hanno cercato di estrarlo ma, ovviamente nelle stesse condizioni, sono morti anche loro annegati.

Io analizzando questo incidente sono rimasto abbastanza sconcertato dal fatto che questa particolare tipologia di ambiente, quella delle vasche dei liquami, è analizzata addirittura dal 1978. Molti esperti (…) sulla base proprio dell’indagine approfondita su decine e decine di incidenti, hanno pubblicato articoli, fatto incontri, convegni, dato anche proprio delle misure preventive, tecniche, molto pratiche… Sappiamo, per esempio, che un’adeguata correzione del pH può diminuire questo rischio. Il problema è come arrivare alla piccola e piccolissima azienda: ecco, credo, che questo sia il nostro obiettivo per il futuro.

Che altra tipologia di infortuni avvengono negli ambienti a cui fa riferimento il DPR 177? Ci sono altri incidenti che ci possono fornire insegnamenti e indicazioni per migliorare la prevenzione?

P.D.S.:Sì, e bisognerebbe anche fare una prima distinzione, quella distinzione che stiamo cercando di portare a livello di gruppo UNI tra ambienti che rientrano nella normativa – quindi ambienti confinati o sospetti di inquinamento, secondo le definizioni del decreto 81 e del decreto 177/2011 (…) – e i cosiddetti ambienti assimilabili.

Oggi nel workshop li abbiamo citati. Per esempio, le pale di un impianto eolico, oppure i pozzetti di piscina degli ambienti, che non sono normati, ma che ugualmente possono rappresentare, in determinate condizioni, un rischio mortale.

A livello del gruppo UNI, in cui si spera vedrà la luce la formulazione di una nuova norma specifica sull’argomento, stiamo dando dei criteri di identificazione, comunque di categorie di spazi in cui ci possono essere problemi mortali. Questi spazi si divideranno in due grosse categorie, cioè quelli che finiscono sotto l’attuale vigenza normativa e quelli che, comunque, hanno le medesime caratteristiche di pericolosità e per i quali il datore di lavoro deve, con la propria valutazione del rischio, individuare le misure preventive migliori.

Quali sono i tempi per arrivare alla nuova norma UNI?

P.D.S.:I tempi saranno ancora lunghi, perché è partito da poco il progetto di norma. Ancora non sappiamo se sarà una norma o un Technical report; probabilmente il gruppo è indirizzato più verso la norma.

C’è stata un’ampia discussione proprio per venire a definire le due definizioni di spazio confinato o sospetto di inquinamento e di spazio assimilabile.

Oggi c’è un accordo, che sarà sottoposto ovviamente all’analisi pubblica.

È un primo passo avanti. Spero che, dopo questo primo grosso scoglio, i lavori andranno molto più velocemente. Speriamo che nel corso del prossimo anno vedrà la luce.

Forniamo qualche dato quantitativo relativo agli infortuni e alle tipologie di infortuni…

P.D.S.:Dati di infortuni consolidati possono essere estratti dalla nostra Banca Dati Infor.mo. Quelli consolidati sono riferibili all’intervallo di tempo che va dal 2002 al 2014. In quel periodo abbiamo registrato circa 69 incidenti che hanno comportato 90 morti.

E quindi già si vede, da questo dato, che effettivamente i decessi sono plurimi rispetto agli eventi. Probabilmente è un dato sottostimato perché nell’analisi non sono state compresi gli scavi, che invece, in determinate condizioni, possono essere intesi come ambienti confinati o sospetti di inquinamento.

Veniamo alle principali criticità che avete rilevato…

P.D.S.:La criticità principale, a nostro avviso, è riferibile al fattore umano.

Intanto si osserva che circa il 73% degli infortunati che sono deceduti aveva una grande esperienza di lavoro ben oltre i 3 anni e che la maggior parte – anche qui intorno al 70% – era personale dipendente a tempo indeterminato.

Quindi mai o quasi mai si è trattato di inesperienza. In alcuni casi ci sono state delle persone non assunte, in nero, ma la stragrande maggioranza degli infortuni ha riguardato gente con esperienza. Quindi molto spesso, quando si parla di esperienza, è “dir tutto e dir poco”. A volte l’esperienza, invece, è foriera di cattive abitudini che, purtroppo, si ripetono nel tempo.

E molto spesso, un’altra criticità che abbiamo riscontrato, è che le stesse persone avevano compiuto le stesse operazioni in maniera similare nel tempo, ma, purtroppo, sono cambiati piccoli parametri del processo che non sono stati rilevati, proprio per una carenza di conoscenza e anche di capacità di analisi dei processi stessi. E queste piccole variazioni hanno comportato invece l’instaurarsi di condizioni mortali.

(…)

Secondo lei cosa si può fare per migliorare la prevenzione? Come agire sul fattore umano?

P.D.S.:Bisogna aumentare la percezione del rischio delle persone.

Cosa significa? Intanto il fattore umano non dobbiamo intenderlo come errore della singola persona, ma come eventuale carenza nell’ambito delle organizzazioni che, a volte, sono piccolissime organizzazioni. Infatti molti incidenti hanno coinvolto gli stessi datori di lavoro, che non hanno avuto le capacità di analisi e di valutazione del rischio.

Ecco noi dovremmo cercare di far arrivare, di diffondere questa capacità di analisi del rischio.

 (…)

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Spazi confinati: gli infortuni, le criticità e la futura norma UNI”.

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Spazi confinati 03: un nuovo strumento per la prevenzione

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una intervista, realizzata nel 2019, presenta le linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri.

Come ricordato nel “Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ai sensi dell’art. 3 comma 3 del d.p.r. 177/2011” e nelle schede informative pubblicate dal sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi INFOR.MO., gli ambienti confinati possono presentare diversi rischi per la salute e la sicurezza.

Ad esempio:

  • asfissia per carenza di ossigeno;
  • intossicazione per esposizione ad agenti chimici pericolosi;
  • esposizione ad agenti biologici;
  • caduta dall’alto dell’infortunato;
  • contatto con organi lavoratori in movimento;
  • scivolamento dovuti alla difficoltà di accesso/uscita, alla carenza/assenza di illuminazione naturale, alla presenza di tubazioni/cavi/materiali o di fondo vischioso/scivoloso;
  • seppellimento per caduta di polverulenti dall’alto;
  • ustione/congelamento per esposizione a sostanze corrosive, a temperature elevate o molto basse;
  • annegamento in presenza di melma/fanghi o variazioni improvvise di livello di altri fluidi;
  • folgorazione per presenza di connessioni elettriche.

E analizzando gli infortuni mortali in ambienti confinati si rileva che i fattori di rischio più frequenti sono gli errori nelle modalità operative, la mancata fornitura o il non utilizzo dei DPI necessari e le carenze strutturali e organizzative degli ambienti lavorativi.

Proprio a partire dagli elevati rischi per i lavoratori di questi ambienti ho pensato di dedicare il terzo post sugli spazi confinati ad alcuni interessanti strumenti che possono favorire la prevenzione.

Sto parlando delle linee di indirizzo del Consiglio Nazionale Ingegneri (CNI) dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati o a rischio di inquinamento”, di cui presento una breve intervista sulla prima versione ufficiale (sono già stati pubblicati alcuni aggiornamenti). Intervista all’Ing. Stefano Bergagnin (Ordine Ingegneri di Ferrara – componente del gruppo di lavoro Sicurezza del CNI e coordinatore del gruppo tematico temporaneo sui lavori in ambienti confinati) e all’Ing. Adriano Paolo Bacchetta (esperto in materia di spazi confinati e fondatore e coordinatore del sito www.spazioconfinato.it).

L’intervista è stata realizzata, per il  giornale online PuntoSicuro, durante la manifestazione “Ambiente Lavoro” che si è tenuta a Bolognadal 15 al 17 ottobre 2019 dove i due ingegneri erano relatori al convegno “Ambienti confinati: stato dell’arte e proposte del CNI per la gestione del rischio specifico”, organizzato dall’Ordine Ingegneri di Bologna con il patrocinio del CNI.

In particolare l’intervista, di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, è stata pubblicata nell’articolo “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Nelle prossime settimane continuerà la pubblicazione di altri post e contributi sul tema.

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Gli spazi confinati e le carenze normative

Nella presentazione del documento si sottolinea che in materia di ambienti confinati e a rischio di inquinamento a tutt’oggi gli strumenti di gestione ancora non sono sufficienti, immagino che queste linee di indirizzo vogliano affrontare questa carenza…

Stefano Bergagnin: Si, questo è proprio L’obiettivo della pubblicazione e il titolo “linee di indirizzo” è finalizzato a questo scopo, cioè vuole fornire a tutti i tecnici – ma non solo tecnici, ovviamente anche ai datori di lavoro, ai committenti, ai coordinatori per la sicurezza e anche alle imprese, le imprese che svolgono questo tipo di interventi – degli strumenti per gestire, auspichiamo correttamente, quello che è un rischio che purtroppo rimane ancora molto di attualità perché gli infortuni non calano e questo è forse dovuto anche (…) a una carenza normativa. Perché effettivamente tutti gli aspetti tecnici che sono assolutamente necessari per un rischio di una gravità così importante dovrebbero essere disponibili.

Noi abbiamo cercato di fornire più strumenti possibili e tra l’altro questa è anche una linea di indirizzo molto corposa, il contributo dei tecnici del gruppo di lavoro è stato veramente molto interessante, a cominciare proprio da quello di Adriano che è uno dei maggiori esperti e ha fornito sicuramente strumenti utili.

Noi ci siamo spinti con il documento soprattutto su alcuni aspetti che, a nostro avviso, erano carenti, perché poco approfonditi nella normativa.

Addirittura, se parliamo della formazione, era previsto un accordo Stato-Regioni che non è mai uscito. Quindi abbiamo cercato di fornire strumenti anche in questo senso.

Tra le altre cose (…) c’è anche una app importante che abbiamo messo in allegato e che è la prima app – ne usciranno probabilmente anche delle altre – ed è interessante soprattutto per l’identificazione degli spazi confinati ed è stata presentata a cura di Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, con tanti altri contributi. (…)

So che l’ing. Bacchetta si è occupato spesso della normativa in materia di ambienti confinati e/o sospetti d’inquinamento. Cosa possiamo dire della normativa che c’è e di quella che ancora manca? Quali sono le criticità?

Adriano Paolo Bacchetta: “Diciamo che la normativa che c’è è come se non ci fosse – io lo dico dal 2011 – fondamentalmente quello che abbiamo è frutto di una necessità immediata per dare risposta agli incidenti a cavallo del 2009-2010 (depuratore di Mineo, Truck Center e altri) che però non ha risposto alle esigenze. Anzi ha creato una serie di complicazioni e una serie di adempimenti meramente burocratici che, personalmente, io valuto poco idonei ad una risposta funzionale.

Questo capita quando si lasciano campi assolutamente non definiti, interpretativi.

Basti pensare (…) a quelli che prima erano degli ambienti che dovevano essere controllati per rischio di inquinamento e sono diventati a sospetto di inquinamento DPR 177/2011, ad esempio le gallerie. Ma ci immaginiamo una galleria, il traforo o la variante di valico? Come lo classifichiamo? Teoricamente andrebbe messo lì, ma è sbagliato. Poi ci sono gli ambienti dove può esserci il rischio di gas deleteri: qualsiasi stabilimento industriale dove fisicamente c’è una fumana che esce da una macchina potrebbe a ragione essere valutato come un ambiente dove può essere applicato il  decreto 177/2011. Una follia.

E questo oltre agli errori nei riferimenti (…), basti pensare che il titolo stesso del decreto è “ambienti confinanti”. Quindi in realtà, almeno gli errori formali potevano metterli a posto.

E poi c’è quella veramente vergognosa mancanza della definizione dei requisiti degli aspetti formativi (…). Ad oggi c’è in giro di tutto, tutti fanno tutto, (…) e dopodiché anche il Ministro l’altro giorno ha detto che è “importante la formazione”. Siamo d’accordo ma ad oggi non esiste una specifica di chi può farla, quanto deve durare, quali sono gli argomenti.

Quindi inutile parlare di formazione quando nel caso specifico degli ambienti confinati non c’è neanche la definizione. (…)

Stefano Bergagnin: Mi ha interessato moltissimo quanto ha detto Adriano, proprio nell’ultima parte del suo intervento.

L’aspetto formazione noi lo abbiamo approfondito, proprio anche nelle linee di indirizzo, indicando con la maggior precisione possibile anche i contenuti.

Ovviamente non potevamo sbilanciarsi sulle ore necessarie, … Però almeno abbiamo dato una definizione molto precisa dei contenuti minimi che devono essere affrontati proprio in questo ambito.

Il riconoscimento degli ambienti confinati e il ruolo degli operatori

Come avete affrontato il tema del riconoscimento degli spazi confinati nei luoghi di lavoro…

Stefano Bergagnin: Forse uno dei paragrafi più importanti è proprio quello sulla definizione. È un paragrafo corposo perché dare una definizione di spazio confinato non è semplice. Non è semplice perché anche le norme internazionali danno definizioni che sono un po’ diverse. C’è sì una certa omogeneità che abbiamo cercato di individuare, ma non è assolutamente semplice.

Noi più che altro abbiamo voluto allargare quello che è lo spazio di indirizzo, cioè capire quali potrebbero essere gli ambiti che senza dubbio potrebbero diventare o sono uno spazio confinato o a rischio d’inquinamento.

C’è anche un elenco, dentro le linee di indirizzo, di esempi di situazioni che potrebbero essere sicuramente definibili come spazi confinati. Abbiamo anche chiarito alcuni aspetti, tra questi anche il discorso “gallerie” che ha una sua normativa e che non riteniamo debba entrare in quest’ambito. O il discorso delle stive, le stive nei porti, … Anche lì c’è una normativa particolare. Abbiamo comunque dato indicazione che a volte quella che è la valutazione del rischio potrebbe trarre strumenti utili da una linea di indirizzo come la nostra, ma siamo in un ambito diverso e questo l’abbiamo specificato.

Poi ci sono strumenti che potrebbero servire, come l’app che citavo prima, anche soltanto per capire se l’intervento che viene organizzato con un’impresa appaltatrice, in una sede aziendale o anche in un cantiere, sia classificabile o meno.

L’app è utilissima ma visto che le app comunque compariranno sul mercato anche nel settore della sicurezza e della salute, bisogna fare molta attenzione. Perché questa è una app (…) che è stata fatta appunto da Alma Mater con il contributo, tra l’altro, dell’INAIL regionale, con il consenso dell’ASL della nostra regione. E questo è importante perché offre la garanzia che queste siano delle app con un livello di qualità elevato. (…)

Mi pare che nelle linee di indirizzo abbiate anche parlato del datore di lavoro committente e del rappresentante del datore di lavoro committente… Cosa si è detto nel vostro documento riguardo ai ruoli dei vari attori della sicurezza?

Stefano Bergagnin: Noi innanzitutto abbiamo evidenziato (…) che tra i soggetti destinatari delle linee di indirizzo ci sono gli RSPP/ASPP, ci sono i datori di lavoro committenti, ci sono i datori di lavoro delle imprese appaltatrici, delle imprese esecutrici di certi lavori. E abbiamo anche chiarito un dubbio che (…) era quello relativo appunto all’applicabilità della norma anche quando non c’è un contratto d’appalto; cioè quando i lavori in spazi confinati li fanno direttamente i dipendenti. La norma è applicabile anche lì. Ci sono anche dei passaggi – mi pare che fosse una circolare importante che abbiamo citato anche nel testo – in cui è stato chiarito che anche all’interno di un’azienda, se c’è questa tipologia di lavori, bisogna garantire le stesse misure di sicurezza che vengono previste negli altri casi (…). È quindi fondamentale che anche questo chiarimento ci sia e lo abbiamo inserito nelle linee di indirizzo. 

Il ruolo del medico competente e il DPR 177/2011

Veniamo a soffermarci su un tema che affronterà nel convegno Adriano Paolo Bacchetta, quello dei medici competenti. Quale ritiene sia il ruolo del Medico Competente nell’applicazione del DPR 177/2011?

Adriano Paolo Bacchetta: Partiamo dal presupposto che non siamo certamente noi (…) a dettare il passo ad un’altra categoria professionale importante come i medici. Quindi non siamo noi a dire cosa devono fare, però noi possiamo dire cosa auspichiamo di avere come supporto.

E certamente quello del medico competente, nel caso specifico delle attività in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, è un ruolo importante. (…)

Ad esempio c’è il problema della definizione di quali sono le attività del FOP, del First on Place ovvero sia del primo soccorritore, che deve intervenire su un soggetto che ha avuto un malore, un infortunio, qualcosa all’interno dell’ambiente confinato. Si parla di un operatore laico, quindi sostanzialmente né un sanitario, né un parasanitario; fondamentalmente un soggetto che ha una formazione che non va oltre, al momento, a quella prevista dal decreto 388 … (…). In realtà, a oggi, il medico competente o il laureato in medicina che viene contattato per fare il corso ai lavoratori fa il corso e poi queste persone devono intervenire su un collega, piuttosto che un dipendente dell’impresa appaltatrice nell’ambiente confinato. Però lì, obiettivamente, se non c’è il medico che dà delle indicazioni puntuali non può essere certamente il tecnico a definire la modalità operativa, i sistemi di immobilizzazione o quant’altro necessario. (…)

No, l’intervento di soccorso va studiato e chiaramente. C’è il tecnico che si occuperà delle progressioni su fune, di definire le strutture, gli apprestamenti, tutto quello che è necessario; ma poi serve comunque la controparte medica che dica “quando sei lì ti devi comportare in un certo modo”. È questo è il primo problema. Poi ce ne sono altri…

Nel documento sono proposti anche degli strumenti per i medici competenti?

Adriano Paolo Bacchetta: Qua la cosa si fa un pelo più complessa, perché in realtà io sono stato autore, Insieme ad altri esperti, tra l’altro della Fondazione Maugeri di Pavia, (…) di un articolo dove abbiamo proposto un profilo sanitario per gli addetti negli spazi confinati.

Al momento stiamo cercando di trovare ancora l’applicazione e non mi risulta che esista un profilo, ad esempio, per la definizione dell’idoneità sanitaria. Quando l’articolo 66 del decreto 81/2008 in fondo mi dice che lo spazio deve avere un’apertura sufficientemente larga da poter estrarre un lavoratore privo di sensi – quindi sostituendo la originale indicazione del DPR 547 che dava il 30 x 40 ellittico o il diametro 40 come dimensione – di fatto mi dice tutto e non mi dice niente. L’unica cosa certa è che un soggetto di 140 kg, che ha una circonferenza di 1,60 metri, non può essere idoneo a lavorare in ambiente confinato se il punto d’accesso è un punto 30 x 40.

Quindi quando il medico dice che l’addetto è idoneo a lavorare in ambienti confinati, lui deve sapere esattamente quali sono questi ambienti e qual è la modalità d’accesso e uscita. Perché se a lui non viene detto che, ad esempio, gli addetti devono entrare nelle attrezzature a pressione attraverso un passaggio ellittico da 30 x 40, magari si vede davanti un tipo Schwarzenegger e obiettivamente dice che è idoneo agli spazi confinati. Ma da un punto di vista antropometrico, no, perché non ci può entrare e se poi devo tirarlo fuori senza problemi… Poi sarà compito del datore di lavoro andare a spiegare all’organo di vigilanza come ha fatto a rendere idoneo un addetto e dichiarare implicitamente, nel momento in cui accetta che lui entri, che lo poteva tirare fuori quando era inerme.

La situazione è molto complessa e quindi il medico, da quel punto di vista, deve adottare un protocollo che al momento non c’è.  L’unica pubblicazione che c’è è quella che abbiamo fatto noi nel 2015. Ora aspettiamo…

La gestione delle emergenze negli spazi confinati

A proposito di emergenze mi pare che quest’anno si sia parlato di soccorso ad Ambiente Lavoro anche in un convegno nazionale sul soccorso industriale…

Adriano Paolo Bacchetta: Questa del convegno è una logica evoluzione – sia di spazioconfinato.it sia di tutto quello che è stato fatto negli anni – che di fatto tiene conto di una necessità. A oggi per alcuni interventi (…) le aziende che non ritengono di avere del personale adeguatamente preparato formato o equipaggiato per poter fare interventi di soccorso utilizzano tipicamente dei professionisti, a tutti gli effetti, che svolgono il ruolo di soccorritori industriali. (…) Il problema è che, anche in questo caso, manca una specifica regolamentazione dei requisiti e qualificazioni (…) e noi gettiamo le basi ufficialmente (…) per cominciare a definire anche in Italia quella che può essere una ipotesi di profilo professionale del soccorritore industriale. Ma questo non basta, (…) l’associazione si sta muovendo per definire dei protocolli di formazione aggiuntiva a quella obbligatoria di legge per queste persone che normalmente fanno gli addetti di linea e quando suona la sirena automaticamente scattano e diventano vigili del fuoco e soccorritori sanitari.(…)

Cosa si dice nel documento del CNI riguardo alla gestione delle emergenze?

Stefano Bergagnin: Ci tenevo a rendere evidente che anche nel documento forse il paragrafo “Gestione delle emergenze” è quello più fitto, perché secondo noi è importantissimo. Soprattutto su questo tema la normativa è veramente carente perché non specifica addirittura le diverse tipologie di emergenza che, invece, sono note da decenni anche dalle norme internazionali. Noi le abbiamo riprese, (…) noi le abbiamo confermate, le abbiamo specificate meglio e a mio avviso, questo è un parere personale, questo è uno dei paragrafi che sarà più utile proprio come linea di indirizzo.

Adriano Paolo Bacchetta: Rispetto a tutto quello che abbiamo detto, c’è una cosa importante che dico a tutti. Chiunque si approccia a questo tema deve dimenticarsi di pensare di avere il software, l’app o cose del genere per cui uno che non ne sa niente, che non è cultore della materia, non ha esperienza della materia, comprando il software risolve i problemi. (…)

Gli ambienti confinati sono ambienti dove la professionalizzazione delle persone che progettano gli interventi e in particolar modo gli interventi di soccorso deve essere adeguata. Quindi da un punto di vista pratico invito ad acculturarsi, a leggere, studiare, venire ai convegni, fare comunque tutto quello che è necessario per evitare di fare documenti replica. E io ne vedo un quintale di roba fotocopiata, tagliuzzata, presa da internet e cose del genere. Quindi con sostanziale evidenza della mancanza totale di cultura e di conoscenza. (…)

(…)

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Nuove linee di indirizzo per gestire gli ambienti confinati”.

Per altri approfondimenti rimandiamo anche ai post:

Post e intervista a cura di Tiziano Menduto

Spazi confinati 02: la sottovalutazione del rischio in edilizia

Una raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una intervista, realizzata nel 2014, al geometra Paolo Secchi.

Come abbiamo ricordato nel precedente post, che riportava un’intervista all’ingegnere Adriano Paolo Bacchetta, ai margini del 3° Convegno Nazionale sulle attività negli Spazi Confinati, gli ambienti confinati e/o gli ambienti sospetti d’inquinamento sono tra gli ambienti a maggior rischio di infortuni gravi e mortali.

E l’edilizia è sicuramente uno dei settori lavorativi in cui sono ancora molte le difficoltà nel riconoscere la presenza di eventuali spazi confinati e nell’attuare tutte le misure richieste dal Decreto legislativo 81/2008 e dal Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, a norma dell’articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.

Per questo motivo nell’ottobre del 2014 ho realizzato, per il giornale online PuntoSicuro, un’intervista al Geom. Paolo Secchi, relatore al convegno del 22 ottobre 2014 “Applicazione del D.P.R. 177/2011 a tre anni dalla sua entrata in vigore”, organizzato da www.spazioconfinato.it, in collaborazione con il Centro di Ricerca Interdipartimentale sulla Sicurezza e Prevenzione dei Rischi di Modena (C.R.I.S.).

Il geometra, che si è occupato lungamente di sicurezza come coordinatore in fase di progetto e in fase di esecuzione, interveniva al convegno con una relazione proprio sull’applicazione del DPR 177 al settore delle costruzioni

L’intervista, di cui riporto il video e una parziale sbobinatura, è stata pubblicata nell’articolo “In edilizia c’è una scarsa percezione degli spazi confinati”.

Nelle prossime settimane continuerà la pubblicazione di articoli e contributi sul tema.

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(…)

Quando si parla di spazi confinati raramente si fa riferimento al comparto edile. Ci sono spazi confinati? Quali sono le principali problematiche?

Paolo Secchi: Colgo l’occasione per essere in accordo sul fatto che la percezione degli spazi confinati in edilizia attualmente non c’è molto.

Probabilmente questa carenza è generata da un equivoco. Il DPR 177 richiama l’articolo 121 che riguarda la presenza di gas negli scavi. Quindi molto spesso in edilizia molte persone considerano che l’unico spazio confinato possa essere quello.

In realtà di spazi confinati, soprattutto nel campo industriale, ne troviamo un numero sempre crescente. Se pensiamo a tutti i vani tecnici, dove vengono collocati gli impianti – ad esempio gli impianti per trattamento aria, di refrigerazione, che possono funzionare a glicole o ammoniaca – abbiamo a che fare con spazi che possono diventare estremamente pericolosi. Quindi in edilizia abbiamo sicuramente una casistica che dovremo tenere in considerazione per fare delle valutazioni, nel campo della sicurezza, adeguate.

(…)

Nel suo intervento ha mostrato alcune slide relative a ponteggi. Un ponteggio può diventare uno spazio confinato? E con quali condizioni?

P.S.: (…) Se ad un ponteggio applichiamo dei teli di protezione e all’interno di questo ponteggio effettuiamo delle lavorazioni – di restauro, di ripristino, … – utilizzando solventi ed eventualmente fiamme libere si possono generare anche situazioni di pericolo.

La mia era una provocazione per cercare di far intuire alle persone che seguivano il convegno che occorre una maggiore sensibilità, ma occorre anche un metodo diverso per identificare questi spazi.

Anche se il DPR 177 avesse fornito un elenco il più possibile esaustivo sicuramente il caso che ci si pone in avanti non sarebbe compreso nell’elenco, ci troveremmo di fronte a delle difficoltà interpretative. Quindi la mia provocazione è quella di voler richiamare l’attenzione su questi aspetti.

Lo stesso discorso vale per le coperture. Molto spesso si pensa a spazi confinati come spazi piccoli, angusti. Ma non è assolutamente vero. Basti immaginare i piani di copertura dove abbiamo impianti di raffreddamento, di trattamento aria, che possono funzionare ad ammoniaca o avere dei gas abbastanza invasivi e importanti dal punto di vista della sicurezza. Oppure possiamo avere vasche di laminazione dove la presenza degli inquinanti è abbastanza elevata.

Dobbiamo cercare di diffondere questa nuova abitudine a valutare gli spazi confinati ai tecnici e ai datori di lavoro che molto spesso ritengono di non essere coinvolti in questo tipo di argomenti.

Presentiamo un caso operativo. Un coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione scopre che i lavoratori stanno lavorando in uno spazio confinato con rischi non valutati in relazione alla specificità dell’ambiente. Cosa deve fare?

P.S.: Secondo me il coordinatore in fase di esecuzione ha due possibilità.

O coinvolgere il coordinatore per la sicurezza in fase di progetto e rielaborare una procedura per gestire questa situazione.

O direttamente può andare – questo glielo consente la normativa – ad integrare quello che è il Piano di Sicurezza e Coordinamento con proprie disposizioni. In questo modo andrà ad integrare e colmare una lacuna che non era stata considerata precedentemente.

(…)

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” In edilizia c’è una scarsa percezione degli spazi confinati”

Per altri approfondimenti rimandiamo anche al post “Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011”.

Intervista di Tiziano Menduto

Spazi confinati 01: le criticità e la definizione mancante

Una breve raccolta di materiali, interviste, approfondimenti sul tema della sicurezza dei lavoratori negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Una prima intervista, realizzata nel 2013, ad Adriano Paolo Bacchetta, coordinatore di spazioconfinato.it.

Non c’è dubbio che gli ambienti confinati e/o gli ambienti sospetti d’inquinamento si siano mostrati in questi tra gli ambienti a maggior rischio di infortuni gravi e mortali.

È dunque necessario promuovere e far conoscere prassi e materiali di prevenzione, ma è bene anche riflettere sulle criticità, sulle difficoltà operative, sulla valutazione dei rischi, sulla pianificazione delle emergenze e sulle carenze normative con particolare riferimento al Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, a norma dell’articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.

Per questo motivo ho realizzato e pubblicato negli anni, sul giornale online PuntoSicuro, diverse presentazioni di documenti, diversi approfondimenti e normativi e varie interviste che hanno avuto la funzione di porre domande e fornire risposte utili agli operatori, ai lavoratori e alle aziende, sulla sicurezza negli spazi confinati.

In questa e in altre puntate del blog ho intenzione di riportare un po’ di questo materiale per trasformare tutto questo lavoro in una sorta di reportage e inchiesta sulle criticità da affrontare per migliorare la prevenzione in questi ambienti di cui, ad oggi, è ancora difficile concordare una definizione chiara ed esaustiva.

Iniziamo questo viaggio con una intervista pubblicata il 29 ottobre 2013, nell’articolo “Spazi confinati: chiarimenti e criticità del DPR 177”, che raccoglie le indicazioni di uno dei massimi esperti in Italia della sicurezza negli spazi confinati, Adriano Paolo Bacchetta, ai margini del 3° Convegno Nazionale sulle attività negli Spazi Confinati – organizzato da spazioconfinato.it in collaborazione con il C.R.I.S.  e la Fondazione Organismo di ricerca GTecnology di Modena.

Riprendiamo dall’intervista audio una parziale sbobinatura rimandando i lettori del blog alla visualizzazione dell’articolo integrale e all’ascolto dell’intera intervista audio.

Nelle prossime settimane pubblicherò altri materiali anche con riferimento alle più recenti novità in materia. Lo stesso Bacchetta ha recentemente lavorato con il Consiglio Nazionale Ingegneri alla stesura delle “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi derivanti dai lavori in ambienti confinati o a rischio di inquinamento”, che presenterò nei prossimi giorni.


Esiste una definizione univoca relativa agli spazi confinati?

Adriano Paolo Bacchetta: Cominciamo a dire che il termine “ambiente confinato” è un termine che oggi si presta a una non corretta interpretazione perché se noi andiamo a ricercare “ambiente confinato” su internet troviamo le problematiche dell’indoor air quality. Nel senso che in definitiva nell’accezione comune se associato a sospetto d’inquinamento viene fuori il decreto 177/2011, ma passando i primi due o tre punti che possiamo trovare sul motore di ricerca, cominciamo a vedere che l’ambiente confinato è relativo ai problemi del sistema di ventilazione, problema della legionella, la sindrome dell’edificio malato… E ci sono fior di documenti di organismi statali che parlano proprio di qualità dell’aria nell’ambiente confinato. Allora la domanda è: come può essere che lo stesso termine di “ambiente confinato” possa essere utilizzato per un ambiente che ha le peculiarità di un confined spaces o anche di qualcosa che rientra nella 177 e contestualmente, con la stessa terminologia, altri enti, come ARPA o altre organizzazioni comunque statali, chiamano invece una stanza dove c’è un impianto di ventilazione. Confined spaces, spazi chiusi?… Ad esempio nella terminologia del 272[1], quindi fondamentalmente della 626 o dell’81 navale, si parla di spazi chiusi della nave, quindi le stive e ambienti di questo tipo… Se andiamo a vedere la UNI EN 529, che poi è quella che tiene conto dei dispositivi di protezione respiratoria, c’è un’altra modalità ancora di chiamare questi ambienti. Si parla di ambienti circoscritti. Già partendo da lì, si ha l’indicazione che da noi c’è confusione…

Con “da noi” intende che da qualche parte ce n’è di meno…

APB: Il concetto è che se uno parla di confined spaces a livello internazionale quelli sono e sono chiari. Dopo di che, per fare una esemplificazione, a livello nazionale noi parliamo di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui al DPR 177. Le stesse OSHA[2] hanno cinque definizioni diverse di confined spaces a seconda che sia edilizia, industriale, agricoltura, navi o porti. (…) E lasciamo perdere l’NFPA[3], perché (…)anche le NFPA hanno altre modalità per identificare questi ambienti. Ci sarà un motivo per cui qualcuno ha perso tempo per definire in cinque modi – simili, ma con peculiarità differenti – l’ambiente confinato a seconda di quale tipologia di ambiente è. Ci deve essere un motivo e il motivo è relativo al fatto che non è possibile applicare gli articoli 66, 121 (D.Lgs. 81/2008, ndr) e l’articolo 3 dell’allegato IV a tutto il mondo. Ci sono peculiarità diverse che dovrebbero essere tenute in considerazione…

Cambierà qualcosa in Italia? Miglioreranno le definizioni e le normative?

APB: (…)Io amo citare (…) Neil McManus[4], che tra l’altro è stato in audio conferenza ieri al mio terzo convegno nazionale. Lui, quando ad un certo punto, è stato chiamato dall’ILO[5] a parlare degli ambienti confinati, dei confined spaces, ha detto una cosa lapidaria ma che è di una chiarezza cristallina: “qualsiasi ambiente dove una persona lavora può diventare uno spazio confinato”. Quindi in realtà questa abitudine italica di caratterizzare – quanto è lungo, quanto è largo, quanto è profondo (…) – deve “uscire”. I concetti da noi sono quelli che, ad esempio, portano a fare la valutazione del rischio dimenticando un fattore di rischio che è fondamentale che nella normativa americana che definisce il cosiddetto IDLH, ovverossia la condizione di pericolo grave o immediato per la salute e sicurezza del lavoratore. E al di là del fatto che ci sia presente una sostanza chimica o meno, al di là del fatto che ci siano delle condizioni di rischio diverso, la terza condizione prevista nei IDLH è l’autosalvamento. Se una persona non è in grado in particolari condizioni di essere capace con le proprie forze di poter uscire o poter risolvere una situazione pericolosa.  Su questa condizione dell’IDLH bisogna ragionare. E questo non fa parte della nostra cultura… (…)

No, il problema non è solo il TLV/TWA[6] è l’IDLH, perché se il TLV/TWA è anche rispettato ma se ad un certo punto, come abbiamo sentito in alcuni interventi, vai a fare l’analisi, scopri che la persona che sta facendo quel ripristino con un solvente (…) è abbondantemente oltre all’IDLH, cioè a quella concentrazione tale per cui si genera una situazione di pericolo o di rischio immediato per la salute e sicurezza, addirittura la vita, del lavoratore…(…)

Tuttavia l’IDLH alcuni lo conoscono, altri non sanno cos’è… (…)

Tutta la norma americana si basa su questo, non va a vedere quanto è lungo, quanto è largo. Dice, con alcune condizioni specifiche per quanto riguarda l’accessibilità e la presenza di rischi, hai una condizione IDLH? Loro (…), ad esempio, dicono “ambiente confinato con il permesso d’ingresso o senza?”, se sei nella condizione di richiedere, di essere un permitted required confined spaces, a questo punto te lo modulo in tre classi: A, B e C. A è IDLH, B è un grado severo ma non così rilevante, C è un grado inferiore… (…)

Quest’idea è di scalare i livelli di rischio, di scalare le attività necessarie in funzione dell’effettivo rischio.

L’applicazione pedissequa del decreto 177 porta la gente fondamentalmente a fare tutto anche quando c’è un livello di rischio molto basso. E tutto questo è spesso utilizzato per dire “Devo fare tutta questa roba qui, per una roba così? Allora non faccio niente”. Chiedere tutte queste cose a fronte di rischi anche limitati o gestibili in maniera diversa e non avere questa scalabilità del rischio con obblighi conseguenti, pone le aziende nella condizione o dà il là per (…) non fare niente.

Dunque cosa dovrebbe cambiare?

APB: [Bisognerebbe] limitare l’applicazione o l’orientamento legislativo a dare i principi derivanti dalla Costituzione: tutela del lavoro, tutela dei lavoratori, … Poi su alcuni argomenti limitarsi a sollecitare in maniera puntuale l’applicazione di norme tecniche che sono molto più dinamiche, che sono condivise, che fanno parte comunque dell’evoluzione e che sono facilmente aggiornabili rispetto all’esperienza.

La 177 così è e ce la terremo per i prossimi 10 anni. Esattamente nello stesso modo. Ti esce la circolare del Ministero che spiega il subappalto? È una circolare: che valenza giuridica ha un domani? Se qualcuno ha un problema e va in giudizio… Il giudice applicherà la legge o andrà a vedere anche le eventuali interpretazioni e i parere dei vari soggetti? (…)

Credo che su alcune tematiche come questa andrebbe veramente fatto questo: uno sforzo per capire cosa c’è a livello internazionale,  a livello di evoluzione. Perché gli americani sono 40 anni che sono dietro alle norme Osha…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Spazi confinati: chiarimenti e criticità del DPR 177″…

Per altri approfondimenti rimandiamo anche al post “Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011”.

Intervista di Tiziano Menduto



[1] Decreto Legislativo n.272 del 27 luglio 1999 – Adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori nell’espletamento di operazioni e servizi portuali, nonché di operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi in ambito portuale, a norma della legge 31 dicembre 1998, n. 485, ndr

[2] Occupational Safety and Health Administration (USA), ndr

[3] National Fire Protection Association

[4] CIH, ROH, CSP, NorthWest Occupational Health & Safety North Vancouver, British Columbia, Canada

[5] International Labour Organization

[6] Threshold Limit Value (TLV)-Time Weighted Average (TWA): Il TLV rappresenta il valore limite di soglia, le concentrazioni sotto le quali la maggior parte dei lavoratori può rimanere esposta senza alcun effetto negativo per la salute. I TLV/TWA sono relativi al valore medio ponderato nel tempo. La durata di esposizione media, riportata negli elenchi dei limiti di esposizione professionale, è pari, di norma, a un orario lavorativo di otto ore al giorno.

Problemi normativi 02: come interpretare il DPR 177/2011

Torniamo a parlare in questo blog delle criticità e oscurità della nostra normativa sulla tutela della salute e sicurezza in Italia e lo facciamo affrontando alcune differenze interpretative del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Un articolo di PuntoSicuro del 7 novembre 2016, con riferimento ad un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”), si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”. E l’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Tuttavia sempre sul quotidiano online PuntoSicuro altri hanno segnalato che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista ho realizzato un’intervista a più voci con domande elaborate anche dai vari intervistati:

– Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza);

– Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza);

– Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia).

Nei giorni scorsi ho presentato la prima parte dell’intervista, pubblicata su PuntoSicuro il 18 gennaio 2017, con le risposte di Massimo Peca, oggi riporto la seconda parte dell’intervista con le risposte di Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini

Anche in questo caso l’intervista è stata pubblicata su PuntoSicuro, con il titolo “Ambienti confinati e DPR 177/2011: si certificano i contratti d’appalto?”.

Buona lettura.

Tiziano Menduto

 


Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto


La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Massimo Peca:

 

  1. Come può incidere la sola verifica della regolarità del rapporto di lavoro, da lei sostenuta, accertata mediante la procedura di certificazione, sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (obiettivo del DPR 177/2011) non considerando l’obbligo previsto dal comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 (DUVRI/PSC/POS/contratto di appalto e tutto quello che ne consegue nel merito dei contenuti) e la valutazione da effettuare, in particolare, dell'”organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio” richiesta dalla circolare 48/2004 del MLPS?

 Carmelo G. Catanoso: Va premesso che per la gestione della sicurezza nei lavori in appalto all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, il datore di lavoro committente è gravato (art. 26 comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008), nei confronti degli appaltatori o dei lavoratori autonomi, dagli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale e di informazione riguardo i rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate. Inoltre, il successivo comma 2 richiede al datore di lavoro committente, agli appaltatori ed ai subappaltatori di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi nonché di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. La cooperazione e il coordinamento devono essere promossi elaborando il DUVRI.

Naturalmente, visto che si sta parlando di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, quanto appena detto dovrà essere specificatamente modellato sulla particolare e pericolosa tipologia di lavori da eseguire attraverso una contestualizzazione “spinta” del DUVRI.

Pertanto, visto che l’art. 26 si applica ai contratti d’appalto di lavori, servizi e forniture ed ai contratti d’opera, appare evidente che, ad esempio, un appalto per l’esecuzione della sostituzione di un galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio, possa ritenersi “coperto” dalla citata norma, sempre che il datore di lavoro committente, gli appaltatori e/o i subappaltatori intendano adempiere concretamente ad essa, tenendo conto delle specificità del lavoro da eseguire.

Quindi, il vero problema non è far certificare un contratto d’appalto ma adempiere concretamente ad obblighi che la legislazione vigente già prevede.

Quindi, un datore di lavoro committente deve scegliere con oculatezza il proprio appaltatore verificando preventivamente l’idoneità tecnico professionale, dove la sussistenza documentata di tutti i requisiti fissati dal D.P.R. n° 177/2011 occupa, visto il lavoro da effettuare, una parte fondamentale, e poi attuare quanto operativamente richiesto dall’art. 26 comma 1, lett. b) e comma 2. Il tutto deve poi essere consolidato all’interno del DUVRI che dovrà prevedere anche quanto previsto all’art. 3 del D.P.R. n° 177/2011 e dovrà essere contestualizzato in funzione della specifica operazione da eseguire nell’ambiente sospetto d’inquinamento o confinato. La contestualizzazione del DUVRI potrà avvenire con il Permesso di Lavoro che se, ben strutturato e concretamente applicato, prevedrà quanto necessario per eseguire i lavori in sicurezza, ivi compresa la gestione di eventuali emergenze.

Analogo discorso se i lavori che espongono i lavoratori al rischio derivante da attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati si debbano svolgere in un cantiere edile o d’ingegneria civile dove, le regole da applicare per il principio di specialità sono quelle del Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008. Qui sarà il CSP a prevedere ed integrare nel PSC le regole previste dal D.P.R. n° 177/2011 mentre toccherà al committente verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa che eseguirà i lavori anche in riferimento ai requisiti previsti per operare negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Sarà poi il CSE a verificarne, sul campo, la concreta applicazione.

Quindi, se le norme oggi vigenti (art. 26 e Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) sono applicate correttamente e compiutamente, l’eventuale certificazione dei contratti di appalto da parte degli organi abilitati alla certificazione (art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003), risulta inutile e costituisce solo un aggravio burocratico. Infatti, se per sostituire il galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio citata nell’esempio, un appaltatore impiega meno di un’ora, rispettando quanto previsto nel Permesso di Lavoro, altrettanto non può dirsi per la certificazione di questo appalto, visto che l’istruttoria ha solo l’obbligo di concludersi e comunicarne l’esito entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta e ciò con le conseguenze facilmente immaginabili.

Inutile, poi, segnalare che la maggior parte degli organi abilitati, indicati all’art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003, non hanno neanche lontanamente le competenze per effettuare una verifica tecnica su documenti presentati e ciò senza neanche dimenticare che, ad oggi, non esiste uno standard unico che indichi quali debbano essere i documenti tecnici da presentare con la richiesta di certificazione.

In conclusione, si reputa che le norme di legge oggi vigenti, se correttamente e compiutamente applicate, sono ampiamente in grado di rendere superflua la certificazione dei contratti d’appalto, fermo restando, visto quanto oggi previsto dal D.P.R. n° 177/2011, l’obbligo di certificazione del contratto di lavoro se diverso da quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infine, non sarebbe una cattiva idea creare un apposito Albo delle imprese che operano negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, alla stregua di quanto fatto per l’amianto e la bonifica da ordigni bellici e “normare” seriamente questa tipologia di lavori modificando il D. Lgs. n° 81/2008 con l’introduzione di uno specifico Titolo.

Le risposte di Carmelo G. Catanoso alle domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto? Perché?

Carmelo G. Catanoso: Il D.P.R. n° 177/2011 richiede la certificazione solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia stato costituito con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; in questo caso, il regolamento prevede che i relativi contratti di lavoro siano certificati ai sensi del D. Lgs. n° 276/2003. L’oggetto della certificazione è il rapporto di lavoro mentre è solo al comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n° 177/2011, che viene ribadito il divieto, per le attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, del ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del D. Lgs. n° 276/2003. Su questo argomento è chiara anche la Nota del MLPS n. 37/0011649 del 27/06/2013.

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati? Perché?

Carmelo G. Catanoso: La certificazione, richiesta dal D.P.R. n° 177/2011, riguarda solo i contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato e non altro (ad eccezione dei subappalti). L’obiettivo è chiaro ed è quello di evitare di avere personale “reclutato all’occasione” per operare all’interno di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, non in possesso di adeguate competenze (conoscenze e capacità documentate) e requisiti psicofisici adeguati. Analoga logica c’è dietro la previsione della certificazione del subappalto; si vuole evitare che un’impresa appaltatrice dopo aver acquisito i lavori da svolgersi in ambienti confinati o sospetti d’inquinamento, subappalti gli stessi ad un’altra impresa senza che questa sia in possesso dei requisiti minimi indicati dal D.P.R. n° 177/2011 nonché mezzi, organizzazione, personale per operare in questi particolari e pericolosi ambienti. Ricordo, infine, che per quanto riguarda la verifica dell’idoneità tecnico professionale, esiste una norma di rango superiore (art. 26 comma 1, lett. a) del D. Lgs. n° 81/2008) che già individua precisi obblighi a carico del datore di lavoro committente che appalta lavori all’interno della propria azienda o unità produttiva. Stesso discorso se i lavori in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati sono eseguiti all’interno di un cantiere edile o d’ingegneria civile (Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) non solo da un committente che è anche datore di lavoro ma anche da un committente che datore di lavoro non è (art. 90 comma 9 del D. Lgs. n° 81/2008). Infine, vale la pena di ricordare che in questo caso, l’allegato XVII renderebbe superflua anche la certificazione del subappalto, visto che al p. 3 viene chiesto al datore di lavoro dell’impresa affidataria di verificare l’idoneità tecnico professionale del subappaltatore con gli stessi criteri che sono stati utilizzati dal committente nei suoi confronti (p. 1 dell’allegato XVII). In conclusione, le norme esistono già e basterebbe applicarle concretamente e seriamente senza bisogno di aggiungerne altre che, sovrapponendosi alle esistenti creano confusione e forniscono, a chi non ha mai voluto far nulla, un ennesimo alibi per continuare a non fare nulla.

La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011?

Carmelo G. Catanoso: In questo caso non c’è differenza di opinione o d’interpretazione, perché oggi ciò che è soggetto a certificazione è il rapporto di lavoro e l’eventuale subappalto. Niente altro. Altrimenti, il rischio che si corre è quello di far passare per obbligo di legge ciò che obbligo di legge non è.

In merito all’applicabilità ed alle interpretazioni delle leggi in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in Italia, in generale, va detto che il nostro sistema prevenzionale è un sistema da “manutenzione a guasto”: dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.

Sia il D. Lgs. n° 81/2008 (pubblicato dopo i tragici fatti di Torino nel dicembre 2007)  che lo stesso D.P.R. n°177/2011 (pubblicato dopo i tragici fatti di Molfetta, Cagliari, Mineo, Capua, ecc.), sono la prova che in Italia si legifera solo sotto spinte emozionali ed emergenziali (molo probabilmente, il prossimo intervento riguarderà, dopo i 10 morti di Modugno (BA), le fabbriche di fuochi artificiali).

Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il “prodotto” non è mai granché per almeno un paio di motivi:

– si lavora di fretta, dopo fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;

– non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole “normare” e che, quindi, hanno conoscenza approfondita “dal di dentro” delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.

E quando parlo di “attori” che operano sul campo, non mi riferisco ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc.. Parlo di soggetti “indipendenti” in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.

Comunque, vista l’attuale situazione, quel che ne viene fuori, con questi presupposti, sono “regole” frutto di visioni che risentono sia del poco tempo disponibile che, soprattutto, delle conoscenze esperienziali dei soggetti coinvolti nella redazione ma che, pur indubbiamente pregevoli, essendo maturate in campi particolari (in genere in attività ispettive), non possono che risentirne nella percezione e visione delle dimensioni e complessità effettive del problema.

Pertanto, ciò che ne scaturisce, è quasi sempre un prodotto frutto di una visione particolare che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise con gli attori che saranno chiamate ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.

Esempio emblematico è proprio quello degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati dove il “mandato” per il legislatore era relativo alla definizione di un Regolamento per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ma che invece si è esteso, con l’art. 3 (procedure di sicurezza), in un ambito che evidentemente non padroneggiava a sufficienza, visto, ad esempio, quanto scritto a proposito delle attività informative di cui al comma 1. Eppure sarebbe bastato dare un’occhiata alla tanta letteratura tecnica ed alla tanta esperienza operativa soprattutto in chi, il problema Spazi Confinati, lo vive “dal di dentro”.

 

La risposta di Flavia Pasquini(Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

  1. Secondo la vostra Commissione e in relazione alla normativa vigente è corretto ritenere obbligatoria, ai sensi del DPR n. 177/2011, la certificazione dei contratti di appalto e subappalto? Ci sono casi in cui, a vostro parere, non è mai da ritenere obbligatoria? E in questi casi è comunque opportuna?

Flavia Pasquini: In mancanza, per quanto consta, di pronunce giurisdizionali e chiarimenti Ministeriali sul punto, ad avviso della Commissione una interpretazione sistematica del DPR n. 177/2011 dovrebbe condurre a ritenere obbligatoria la certificazione, oltre che di tutti i subappalti in luoghi confinati, anche degli appalti laddove siano possibili e/o rintracciabili interferenze (temporali o spaziali). In ogni caso, anche considerando possibili difformità di interpretazione da parte degli organi ispettivi e nell’ottica di un ulteriore controllo sulla qualificazione dell’impresa esecutrice, anche in mancanza di interferenze può comunque risultare cautelativo ed opportuno procedere alla certificazione del contratto di appalto. Inoltre, nel caso di appalto a un consorzio (è simile l’ipotesi della A.T.I. negli appalti pubblici), laddove l’appaltatore proceda ad affidare l’attività in luogo confinato ad una consorziata, sebbene quest’ultimo negozio di affidamento non sia tecnicamente un subappalto, ad avviso della Commissione è comunque opportuna la certificazione, in considerazione della sostanziale vicinanza tra il negozio di affidamento e il subappalto.

La risposta di Flavia Pasquini alla domanda di Massimo Peca:

  1. Qual è la ragione per cui la vostra Commissione, tra i vari documenti, chiede alle aziende che intendono ottenere la certificazione (sia del rapporto di lavoro che per gli appalti), quelli inerenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; come e da chi vengono valutati?

Flavia Pasquini: Benché non tenutavi ai sensi dell’interpretazione letterale del citato DPR n. 177/2011 e senza per ciò stesso potersi né volersi sostituire nei controlli e nelle responsabilità in carico alla committente principale per effetto dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, la Commissione ritiene che il proprio ruolo non possa esaurirsi nella sola verifica formale della correttezza del documento contrattuale. I documenti vengono valutati da parte dei membri della Commissione.

Le risposte di Flavia Pasquini alle domande di Carmelo G. Catanoso:

  1. Non ritiene che il legislatore sia andato oltre il proprio mandato quando, in aggiunta ai requisiti per la qualificazione delle imprese (viste le previsioni degli articoli 6, comma 8, lettera g), e 27 del D. Lgs. N. 81/2008), ha inserito l’art. 3 del DPR n° 177/2011 riguardante le procedure di sicurezza la cui vaghezza e imprecisione ha generato molta confusione e il proliferare di interpretazioni non certo univoche?

Flavia Pasquini: L’art. 3 in questione prevede la disciplina delle procedure di sicurezza in senso stretto all’interno del terzo comma. Tali procedure si riferiscono alle procedure di emergenza che, considerati la specificità dell’attività ed i rischi ad essa connessi, appaiono coerenti con la ratio della norma di realizzare un sistema di qualificazione delle imprese. Infatti, le procedure di emergenza costituiscono un elemento organizzativo fondamentale per potere operare nel settore.

  1. Cosa ne pensa dell’introduzione di un apposito “Albo” per le imprese e i lavoratori autonomi qualificati per operare negli ambienti confinati e negli ambienti sospetti d’inquinamento?

Flavia Pasquini: Potrebbe sicuramente trattarsi di un utile strumento, soprattutto in un’ottica di semplificazione degli oneri e degli adempimenti a carico delle imprese. In caso di affidamento di lavori, servizi e forniture, infatti, la normativa vigente (cfr. art. 26 d.lgs. 81/2008) pone in capo al datore di lavoro committente l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dei lavoratori autonomi e delle imprese appaltatrici. Posto che quest’obbligo riguarda anche l’affidamento di attività da eseguirsi all’interno di ambienti sospetti di inquinamento o confinati, l’istituzione di un apposito Albo presso il quale siano tenuti ad iscriversi i soggetti che intendano operare in quest’ultimo settore potrebbe incidere positivamente sull’efficienza del relativo mercato, riducendo gli oneri di verifica e di produzione documentale incombenti sulle imprese per ogni singolo appalto. Ciò, ovviamente, a condizione che l’iscrizione all’Albo sia subordinata alla verifica del possesso di tutti i requisiti prescritti dal D.P.R. n. 177/2011.

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la prima parte dell’intervista…

Link all’articolo originale di PuntoSicuro con la seconda parte dell’intervista…

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

Problemi normativi 01: come verificare le interferenze negli spazi confinati?

 

Non c’è nulla da fare, malgrado abbiamo in Italia – a detta almeno dell’ex magistrato Raffaele Guariniello – ottime leggi,  in materia di salute e sicurezza, tuttavia non mancano le criticità, le oscurità, le difficoltà interpretative. Non mancano i dubbi negli operatori, non mancano le scappatoie per chi ha una visione solo formale della normativa, non sfuggono le differenze interpretative tra gli stessi ispettori e controllori, regionali o statali, del Testo Unico e dei testi correlati.

Probabilmente abbiamo effettivamente una buona legislazione, ma è doveroso non solo riconoscerne la complessità (aumentata dalle migliaia di proroghe e rimandi che rendono incomprensibile e inapplicate le norme), ma anche rilevare la tendenza italiana a normare con la pressione delle emergenze, degli equilibri di potere e delle convenienze. E in questo modo non sempre le norme arrivano da riflessioni motivate, verificate e comprovate da dati reali.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Miriadi di errori nelle normative. Ruscelli impetuosi di dubbi arginati a malapena dagli interpelli. Ritardi continui nei decreti attuativi che spesso ci costano messe in mora dall’Unione Europea e che comunque rendono la normativa incompleta e inefficace. Con Testi Unici che non riescono ad unificare e obiettivi che non vengono raggiunti, come nel caso dell’infinita proroga degli adempimenti antincendio per scuole e alberghi.

 

Un esempio delle cattive conseguenze di questo modo di legiferare mi è parso emblematico e mi ha spinto qualche settimana fa a realizzare e pubblicare su PuntoSicuro, attraverso un originale format comunicativo, una sorta di intervista interattiva a tre persone, rappresentanti di un modo diverso, per idee, competenze e mission, di interpretare e utilizzare la normativa in materia di sicurezza e salute.

Stiamo parlando dell’interpretazione del DPR 177/2011, un regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Un DPR scandito dalle emergenze di una serie di infortuni mortali avvenuti in spazi confinati e inizialmente depositato, nella fretta, con un errore nel titolo: “confinanti” al posto di “confinati”.

 

Riguardo a questo DPR un articolo di PuntoSicuro ha presentato il 7 novembre 2016 un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati (“Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”). L’intervento ricordava quanto richiesto dal DPR e si soffermava sulla certificazione dei contratti, un “requisito obbligatorio previsto dal DPR 177/2011 che rimanda al decreto legislativo 276/2003 (attuazione della legge delega “Biagi”: n. 30 del 2003) per la procedura da seguire”.

 

L’intervento indicava che, riguardo alle attività soggette al DPR 177/2011, la certificazione serve:

– “tutte le volte che si utilizzano lavoratori con contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato”;

– quando “si appaltano o sub appaltano lavori” negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati (abbreviati, nell’intervento, con la sigla ASIoC) da committenti privati o pubblici.

Un’indicazione correlata alla ratio e agli obiettivi della normativa con riferimento specifico anche a quanto contenuto nella nota 11649 del 27 giugno 2013 del MLPS.

Tuttavia in risposta alle sue parole, su PuntoSicuro alcuni commenti  hanno successivamente ribadito che secondo la normativa “è il rapporto contrattuale che regola il rapporto di lavoro con personale subordinato che va certificato e non il contratto d’appalto, quando il datore di lavoro impiega personale con cui ha stipulato contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Non sono quindi i contratti d’appalto che devono essere certificati”.

Di fronte al palesarsi di questi diversi punti di vista interpretativi e per cercare eventuali punti di contatto ho realizzato un’intervista a più voci: un’intervista in cui le domande non sono elaborate solo dal giornale, ma anche da ciascun interlocutore che ha avuto la possibilità di proporre a sua volta una o due domande per gli altri intervistati.

 

Continuiamo riprendendo le parole dell’articolo di PuntoSicuro e della prima parte dell’intervista. Nei prossimi giorni pubblicherò sul blog anche la seconda parte…


A questa inusuale forma di intervista hanno gentilmente partecipato:

Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza) che, come abbiamo mostrato, ha presentato l’intervento al convegno sugli spazi confinati;

Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza) che ha commentato criticamente l’intervento;

Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) che su queste tematiche relative alla certificazione ex 171/2011 si è confrontata in passato all’interno della propria Commissione di Certificazione.

 

Per chiarezza riportiamo anche un breve estratto della parte dell’articolo 2 del DPR 177/2011, il punto c) del comma 1, che fa riferimento alla certificazione dei contratti:

Art. 2 Qualificazione nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati

1. Qualsiasi attivita’ lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati puo’ essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti:

a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze;

b) integrale e vincolante applicazione anche del comma 2 dell’articolo 21 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nel caso di imprese familiari e lavoratori autonomi;

c) presenza di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione, in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale esperienza deve essere necessariamente in possesso dei lavoratori che svolgono le funzioni di preposto;

(…)

(…)

Partiamo oggi dalle risposte di Massimo Peca alle domande di Flavia Pasquini, Carmelo G. Catanoso e PuntoSicuro.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto?

Massimo Peca: Di entrambi.

Perchè?

Massimo Peca: Il termine “appalto” è riportato nell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011 ed è condizionato dalla frase “…in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati…”.

Chiaramente, l’impiego di lavoratori “appaltati” si riferisce a quelli aventi un rapporto di lavoro (di qualsiasi tipo) con le imprese a cui si appalta il lavoro da svolgere e la stessa definizione di “lavoratore” credo che vada intesa nel senso più ampio, quindi comprendendo quelli autonomi. Questa, in buona parte, è la stessa filosofia dell’articolo 2, comma 1, lettera a) del DLGS 81/2008 ed è una delle notevoli differenze tra la legislazione giuslavoristica (prevalentemente amministrativa) e quella che garantisce la salute e la sicurezza del lavoro (prevalentemente penale). Basti pensare, ad esempio, anche alla definizione di “datore di lavoro” contenuta nell’articolo 299 del medesimo decreto legislativo.

 

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati?

Massimo Peca: Sì.

Perchè?

Massimo Peca: Lo deduco dall’ampio contenuto della frase: “…ovvero con altre tipologie contrattuali…” dell’articolo 2, comma 1, lettera c) del DPR 177/2011. D’altra parte, se non fosse così, ci sarebbe una inspiegabile discriminazione tra lavoratori, con la conseguente diminuzione delle tutele imposte dal DPR, non certo da tutte le altre norme.

L’unica ed espressa esenzione di alcuni obblighi, sono quelli per il datore di lavoro che impiega direttamente i suoi lavoratori per svolgere attività negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui ha la “disponibilità giuridica”. 

Le tutele/obblighi del DPR 177/2011 sono estesi perfino ai lavoratori autonomi e, in parte, alle imprese familiari. Difformemente dal DLGS 81/2008. Penso che anche questo decreto legislativo non dovrebbe fare nessuna differenza tra lavoratori, se non altro perché i costi sociali della mancata prevenzione sono a carico di tutta la collettività nazionale. Quindi, mi sembra chiara la portata generale del DPR relativamente alle attività preventive che devono essere garantite, sebbene, tale regolamento, non innova quasi per nulla quanto già previsto dal DLGS 81/2008. Anzi. Lo stesso concetto di “qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi” non serve ad altro se non a stabilire una qualità del lavoro che deve servire a tutelare chi lo svolge. Chiunque sia. Questo lo condivido, ma, come ho detto: “… è un problema generale per tutti gli ambienti di lavoro…”. 

—–

 

Domande di Carmelo Catanoso:

Dal suo intervento presentato su PuntoSicuro, lascia intendere che una eventuale certificazione anche dei contratti d’appalto, sia auspicabile in quanto in grado di apportare dei benefici nella gestione delle attività negli “spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento”. Può spiegare quali siano i benefici concreti che tale adempimento può produrre nella gestione operativa della sicurezza?

Massimo Peca: Come ho già avuto modo di dire, l’obbligo di certificazione dei contratti di appalto mi sembra chiaro.

Un beneficio concreto è quello relativo alla verifica dell’organizzazione della sicurezza, sia della sua progettazione che della gestione del lavoro da svolgere, che si può attuare attraverso l’iter della certificazione da parte di un organismo esterno, presumibilmente esperto nella materia, altrimenti assente, senza considerare le figure preposte a tali funzioni dal DLGS 81/2008.

La prova di quanto affermo sono le incredibili e numerose tipologie di criticità rilevate durante la mia esperienza (anche di chi le dovrebbe controllare), risolte proprio con questa analisi dei requisiti necessari. Tutti previsti dall’articolo 2, comma 1 del DPR 177/2011.

Questa “analisi critica”, trasparente e prestabilita anche nei contenuti, l’ho sempre adottata come fase pre-istruttoria alla presentazione formale della domanda di certificazione ed ha risolto moltissimi problemi, elevando il grado di sicurezza delle ditte affidatarie o subappaltatrici, nonché creando una maggior consapevolezza e conoscenza dei problemi da parte dei committenti. Con questo sistema, la certificazione si ottiene in pochi giorni, mentre la durata del lavoro preparatorio e inversamente proporzionale alla quantità degli inadempimenti riscontrati e corretti “in corso d’opera”.

Questa attività di consulenza, assistenza, promozione e prevenzione è quella prevista e mutuata dall’articolo 4 del DM 21 luglio 2004, dall’articolo 81 del DLGS 276/2003 e dal DLGS 124/2004. Quindi, nulla di improvvisato o innovativo, ma cogente.

Nei casi di lavori urgenti, indifferibili a mio avviso e tramite una modifica legislativa, si dovrebbe utilizzare la procedura già prevista per le rimozioni urgenti dell’amianto (articolo 256, comma 5). In tal caso, la certificazione avverrebbe in un secondo tempo e le contravvenzioni riscontrate dovrebbero impedire a chi ha effettuato i lavori di poterne fare degli altri, oltre che essere contestate dall’organo di vigilanza. In poche parole: libertà e responsabilità.

Forse è questo il metodo apprezzato da molti ed è stata la ragione della partecipazione al V convegno nazionale sugli ambienti confinati.

Se questi non sono “benefici concreti” per la tutela dei lavoratori, non so quali possano essere: conciliare le esigenze normative con le necessità delle aziende.

Nella relazione che ho presentato al convegno, sintetizzata dalla redazione di Puntosicuro nell’articolo citato, ho elencato le maggiori criticità rilevate. Mi pare che parlino da sole. Certo, sono solo il frutto della mia esperienza locale, quindi non generalizzabili. Ma non credo siano rare.

Inoltre, nella relazione ho affermato chiaramente di sapere che il DPR 177/2011 non prevede espressamente la valutazione delle condizioni in cui sono chiamati ad operare i lavoratori, ma si giunge a questa salutare “ingerenza” sia perché il comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 prevede la necessità di allegare il DURC al contratto di appalto, e questo documento costituisce già una prima fonte di verifica da parte del certificatore, ma anche perché è necessario valutare in concreto la qualificazione delle imprese che operano in tali ambienti mediante, almeno, l’analisi degli aspetti principali previsti dal già citato articolo 2, comma 1: in sostanza tutto il DLGS 81/2008.   

Su questo punto, concorda perfino un esperto e critico della materia come Adriano Paolo Bacchetta. A tale proposito si veda quanto riportato nel suo articolo su PuntoSicuro: “…è necessario andare oltre a quanto strettamente previsto dal D.Lgs. 276/2003; ovvero ogni Commissione di certificazione, a prescindere dal soggetto giuridico che ne ha disposto la costituzione, deve quindi avere adeguate competenze per verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti di natura strettamente giuslavoristica sopraelencati, anche altri aspetti peculiari richiesti dal D.P.R. 177/2011 per la qualificazione delle imprese, quali l’effettiva presenza dei requisiti previsti dall’art. 2 c1..”.

Quindi, presumendo la presenza di un componente qualificato nella commissione di certificazione (non previsto), se vogliamo concretamente fare prevenzione questa è una strada offerta da questo DPR.

Se, invece, si vuole disquisire fra teorici del diritto (ed io non lo sono) possiamo appellarci alle definizioni del codice civile e di tutte le altre leggi che regolano i rapporti economici del lavoro. Nella mia relazione ho espresso inequivocabilmente la mia contrarietà a questo DPR ed ho evidenziato i difetti che contiene, proponendo un’alternativa. Ho in mente altre modifiche che potrei evidenziare, se ne avrò l’opportunità.

Ma, attualmente, questa è la legge. Cerco di usarla nel miglior modo possibile per il fine che essa si pone: la tutela della vita dei lavoratori. 

 

Cosa ne pensa della decisione del legislatore di limitare ai soli committenti che sono anche datori di lavoro, gli obblighi previsti dal DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Mi pare di capire che intende riferirsi, in sostanza, all’esclusione dell’obbligo di certificazione e della nomina di un incaricato per la supervisione dei lavori svolti presso aziende in cui il datore di lavoro impiega i propri lavoratori per effettuare attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati di cui abbia la disponibilità giuridica. 

Se è così, e seguendo la logica del DPR, penso che sia un errore, dovuto all’equivalenza che si fa in questo DPR tra certificazione del contratto di lavoro e garanzia, che questa offre, della presenza di condizioni ottimali inerenti la sicurezza/salute.

Nel caso delle prerogative concesse a questi datori di lavoro, presumere che sia superfluo certificare un contratto di lavoro, solo perché è già instaurato stabilmente e questa “stabilità” garantisca un lavoro svolto in sicurezza, ed inoltre, il datore di lavoro abbia tutte le necessarie conoscenze per controllare l’esecuzione delle attività da svolgere, è quantomeno poco reale in moltissimi casi. In altri è plausibile. Ad esempio, penso al settore chimico e dei servizi pubblici di fornitura di acqua, metano o telefonia.

In generale, mi sembra una pericolosa presunzione dell’effettiva presenza della prevenzione legata solo all’astratto obbligo del rispetto della legge. Secondo me, la regolarità del rapporto di lavoro non garantisce affatto che questo si svolga in modo sicuro e salutare, tutt’al più può rappresentare un indizio positivo.

Basti pensare che perfino nelle aziende con certificazioni OHSAS 18001 (e simili) o in quelle a rischio di incidenti rilevati (DLGS 105/2015) si verificano infortuni e malattie professionali, gravi e gravissimi.

Con questo non voglio dire che bisogna certificare tutto e sempre, come sarebbe logico aspettarsi da questo DPR, che segue la logica nostrana di prevedere inizialmente obblighi generali e poi introdurre distinzioni e deroghe.

Al contrario, come ho già detto nella mia presentazione al Convegno, bisognerebbe usare in sua vece la qualità della vigilanza e non la quantità, molto più efficace. Anche perché, durante lo svolgimento di questa funzione, si hanno tutti i poteri di polizia giudiziaria che, invece, mancano nell’iter della certificazione: una miscela mal riuscita di tutele giuslavoristiche e della salute/sicurezza dei lavoratori. 

—–

Domanda di Tiziano Menduto (PuntoSicuro): 

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011? 

Massimo Peca: Sicuramente dall’ambiguità del DPR, dalla sua incompletezza a cui si devono aggiungere le naturali predisposizioni dovute alle diverse attività professionali svolte.

Auspico delle modifiche sostanziali che rendano efficace un provvedimento normativo scritto con una fretta relativa, sebbene condivisibile nello scopo, ma molto discutibile nella sua applicazione quotidiana, di cui la certificazione è senz’altro il tratto caratteristico e sicuramente quello più inapplicato perché eluso, che ripropone un vecchio schema burocratico, pressoché medioevale: un atto di garanzia concesso da terzi, senza il quale si è interdetti ad operare.   

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro…

 

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati