Lo stress dimenticato 2: il malessere lavorativo nelle aziende italiane

Nelle scorse settimane ho parlato dello stress, dello stress dimenticato, nascosto nelle aziende. Di quello stress solo blandito da valutazioni e misure di prevenzione non sempre in grado di modificare i problemi organizzativi che, in molti casi, sono alla radice dello stress lavoro correlato.

Oggi non mi soffermo, come nel precedente post, su indagini e su dati, ma provo a monitorare il malessere nelle aziende attraverso un’intervista a Rosanna Gallo, psicologa del lavoro, specializzata in benessere organizzativo, già docente di “Promozione del benessere organizzativo” all’Università di Parma e componente del Comitato Scientifico Asicus.

Non è un intervista recente, è stata pubblicata su PuntoSicuro il 16 aprile 2013. Ma permette di rilevare ancora oggi una situazione di malessere che, specialmente a causa della crisi persistente delle aziende, continua ad essere elevata.

I lavoratori “si ammalano” e le malattie psicosomatiche sono in aumento; “lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni” e si ricorre ad “abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione”…

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

Tiziano Menduto

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

 


Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

Un’intervista di PuntoSicuro alla psicologa del lavoro Rosanna Gallo, specializzata in benessere organizzativo. Come affrontare l’aumento dello stress, della depressione, delle malattie psicosomatiche, degli errori umani nei luoghi di lavoro.

Oggi si sta male nei luoghi di lavoro”, i lavoratori “si ammalano e le malattie psicosomatiche sono in aumento; lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni” e si ricorre ad “abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione”.

Queste alcune frasi tratte da una intervista di PuntoSicuro a Rosanna Gallo, psicologa del lavoro, specializzata in benessere organizzativo, già docente di “Promozione del benessere organizzativo” all’Università di Parma e componente del Comitato Scientifico Asicus.

L’abbiamo intervistata in relazione al convegno “Benessere Organizzativo & Produttività Aziendale” che si è tenuto a Milano l’11 marzo 2013 – organizzato da TEC, la scuola di formazione del Gruppo Bosch in Italia, in collaborazione con Ranstad, Technogym e Virgin – di cui Rosanna Gallo era moderatrice.

Convinti che la prevenzione dei rischi psicosociali, anche in conseguenza delle ripercussioni sul mondo del lavoro della crisi economica, sia sempre più la “nuova frontiera” della tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, le abbiamo dunque posto alcune domande sul tema del benessere e malessere nei luoghi di lavoro.

Partiamo da alcuni dati: nell’Unione Europea la condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori, mentre in Italia siamo al 27% con un evidente criticità rispetto agli altri paesi europei. E la depressione, secondo l’Agenzia Europea per la sicurezza e salute sul lavoro, diverrà ben presto la principale causa di congedo per malattia in Europa. Cosa sta succedendo nei luoghi di lavoro? E ha senso parlare di benessere in questo periodo di crisi occupazionale?

Rosanna Gallo: Oggi si sta male nei luoghi di lavoro. L’incertezza e la paura di perdere il lavoro portano a comportamenti difensivi, per cui le persone non si espongono, non decidono e si rendono invisibili; purtroppo si ammalano e le malattie psicosomatiche sono in aumento; lo stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori e di infortuni, riduce la memoria e la flessibilità. Le persone e ricorrono ad abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione. Nel 2000 scrissi un articolo proprio sulla depressione organizzativa, non da attribuire alle singole persone, ma al clima organizzativo.

Ecco, oggi la situazione si è estremizzata e amplificata: oggi ci sono i suicidi veri o tentati, anche inconsapevolmente, che mettono a rischi persone e organizzazione. Avrei preferito fare prevenzione dei rischi psicosociali nei luoghi di lavoro, ma oggi è diventato indispensabile agire con interventi per la promozione del benessere organizzativo. Oggi è diventata un’emergenza, perché dopo la depressione sta emergendo la rabbia che può essere molto distruttiva.

Definiamo il benessere organizzativo. Quali sono i vantaggi pratici per i lavoratori e per i datori di lavoro? E quale è il rapporto tra benessere organizzativo e produttività aziendale?

RG: Il benessere organizzativo (b.o.) si riferisce alle politiche di prevenzione e promozione della salute e sicurezza intese in senso ampio. Ad esempio parliamo di sicurezza fisica (prevenzione infortuni) e sicurezza psicologica (prevenzione stress), ma anche di processi e comportamenti che promuovono il benessere organizzativo: la formazione, la meritocrazia, politiche di equità e di pari opportunità, la valorizzazione delle diversità (di età, di genere e culturali) e soprattutto il lavoro in team; infatti il gruppo di lavoro è un forte ancoraggio per le politiche di sicurezza, perché protegge e sviluppa le persone e l’organizzazione allo stesso tempo.

I vantaggi del benessere organizzativo sono numerosi: le persone, se non devono dedicare energie nel nascondere il proprio stress/malessere, ne hanno da investire per innovare e produrre con maggiore qualità. Le persone che si sentono riconosciute nel contribuire allo sviluppo dell’organizzazione sono più coinvolte e appartenenti e più soddisfatte e solidali; dimostrano una maggior resilienza allo stress e minori possibilità di malattia e assenteismo. Il datore di lavoro trae il vantaggio del minor assenteismo e maggior produttività.

Le ricerche più recenti evidenziano che il denaro investito per il b.o. ha un ritorno medio di 4 volte tanto.

Se, come indicato da alcune ricerche del 2012, il lavoratore felice ha performance più elevate, ha un tasso di logoramento inferiore, ha minore assenteismo e minore necessità di assistenza sanitaria, come è possibile che solo oggi si pensi benessere organizzativo? Cosa impedisce che questa diventi una strategia condivisa dalle aziende?

RG: Se ne parla da anni, ma è sempre stato vissuto come un argomento “snob”, per poche aziende che avevano già fatto tutto. E non avevamo tutte le ricerche, di cui disponiamo oggi, a supporto. In questi giorni, alcune aziende milanesi più illuminate si stanno organizzando per condividere una strategia comune, ma altre continuano a mantenere un clima ricattatorio per cui quando un lavoratore non è più al massimo della propria efficienza viene …sostituito da un altro…

Abbiamo a suo parere in Italia un management, dei datori di lavoro, delle società all’altezza di questi difficili compiti? C’è più attenzione al benessere organizzativo in altri paesi?

RG: Purtroppo in questi ultimi anni la crisi ha “paralizzato” molte aziende che, nel dubbio, non hanno fatto nulla ed hanno perso anni. Il management italiano non ha goduto di formazione e sviluppo necessari ad affrontare le sfide con maggior coraggio, indipendenza e spirito critico e si adegua alle richieste dell’imprenditore con uno spirito poco orientato a promuovere cambiamento.

Affrontare la crisi aumentando le ore di presenza in ufficio non migliora la situazione, mentre i colleghi stranieri traggono vantaggio dall’uscire dal lavoro in tempo per fare sport, bere qualcosa con gli amici e occuparsi dei familiari prima di essere troppo stanchi.

Spesso quando si parla sia di malessere che di benessere nel mondo del lavoro si fa riferimento alla flessibilità lavorativa. Secondo lei la flessibilità è da intendere come un fattore positivo o negativo per il benessere del lavoratore?

RG: La flessibilità dovrebbe essere positiva per tutti, perché dovrebbe incontrare le esigenze della persona e dell’organizzazione; in realtà assistiamo spesso a flessibilità a senso unico e spesso solo in funzione delle esigenze organizzative.

Quali sono i principali indicatori di malessere nelle organizzazioni? E come questo malessere si trasforma in depressione, in rassegnazione, in rabbia? Mi pare che lei si sia occupata in passato anche di alcuni casi di suicidio…

RG: Quando si entra nelle organizzazioni si comprende subito il clima, se c’è fiducia e rispetto, se il merito è riconosciuto, se le persone sentono di poter crescere e contribuire, se si può imparare da un errore, chiedere aiuto o se non si è capaci di affrontare diversità e gestire i conflitti. Lo stile di leadership definisce molto le relazioni di collaborazione o competizione interna.

Il suicidio è un caso estremo di malessere in cui si è persa la speranza e ci segnala il senso di grande solitudine del lavoratore: l’impossibilità di potersi esprimere con gli altri di poter chiedere aiuto, di condividere un sentimento di depressione.

Mi pare che in alcune proposte di intervento per migliorare il benessere organizzativo ci sia la proposta di portare a galla il dolore affettivo – ad es. legato ai demansionamenti – in azienda. Quale è il ruolo dell’emozione nei luoghi di lavoro? E cos’è l’intelligenza emozionale?

RG: Il ruolo delle emozioni è fortemente comunicativo e produttore o sabotatore di energia per le persone e per i team. Le emozioni positive costituiscono la base di quella fiducia necessaria alla collaborazione e alla creatività che promuove innovazione. Il senso di perdita che le persone provano, ad es. durante riorganizzazioni, è dato dalla perdita del ruolo e del team di appartenenza. Anche se si mantiene il posto di lavoro si vive la perdita dell’identità lavorativa (quasi totalizzante per gli uomini) e si sperimenta la sindrome dei sopravvissuti (alla prima ondata di uscite di personale) col pensiero che la volta successiva non si avrà la stessa fortuna.

L’intelligenza emozionale è l’emozione compresa mentre la si prova. Ad es. se l’emozione della paura (di perdere il lavoro) fosse espressa da qualcuno del gruppo di lavoro tutti i suoi membri se ne avvantaggerebbero nel sentirsi meno soli. Inoltre, la condivisione della paura ne abbasserebbe l’ intensità per tutti, mettendo a disposizione maggior energia da destinare alla costruttività, anzichè alla difesa.

In conclusione per spingere le aziende a considerare e a attuare strategie che portino al benessere organizzativo, cosa è necessario che accada? Bisogna sensibilizzare i lavoratori? O i datori di lavoro? O addirittura si deve arrivare a qualche nuova legge?

RG: Abbiamo abbastanza leggi, ma poca informazione sui vantaggi sociali ed economici del benessere organizzativo. Ogni anno ci sono premi per le aziende che promuovono benessere, ma per alcuni è ancora un argomento frivolo. Oggi abbiamo molti dati e best practice a supporto e dobbiamo solo aumentarne la diffusione sia per i datori di lavori che per le organizzazioni sindacali, perché la sostenibilità del lavoro andrà in questa direzione.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività

Lo stress dimenticato: breve inchiesta attraverso le carenze della valutazione del rischio stress lavoro correlato

Parlare del rischio stress è come parlare di un illustre sconosciuto. Tutti lo conoscono, ne discutono, tutti concordano sulla sua onnipresenza nel mondo del lavoro. Ma poi molte aziende evitano la valutazione o ne sfiorano soltanto i rischi con contromisure all’acqua di rose, convinti che in realtà lo stress sia qualcosa di altri, sia un “clima aziendale” da cambiare solo con una finestra aperta.

Il problema è che lo stress correlato all’attività lavorativo è un reale pericolo per i lavoratori e per l’azienda.

Per l’azienda è come un tarlo che rode da dentro. Non è solo la causa di assenteismo/malattia, è anche un forte freno alla produttività, specialmente se gonfiata da una faticosa rincorsa alla produttività dei competitors. Un freno che, senza prevenzione, prima o poi si farà sentire e non sarà più disinseribile senza grandi e dolorosi cambiamenti.

E per il lavoratore il rischio stress è un cattivo compagno che – in condizioni snervanti dal punto di vista organizzativo e/o relazionale – danneggia il fisico e la psiche. A volte lo stress si insinua nel lavoratore come una sconfitta da nascondere, una battaglia persa.

In un’azienda in cui la valutazione non c’è o le misure di prevenzione sono solo apparenti, questo tarlo si rinforza diffondendosi sempre più. Diventa sempre più un modus vivendi. E quando una malattia non può più essere riconosciuta perché vissuta come normalità, non c’è più niente da fare.

Proprio per alzare l’attenzione sulla falsa prevenzione dello stress nel mondo del lavoro, ho deciso di dedicare un po’ di spazio di questo blog a questo tema. Magari parlando di valutazioni da fare o fatte male, di indagini della magistratura, delle conseguenze reali su lavoratori e aziende e delle ricerche che hanno messo in questi anni, dopo che il D.Lgs. 81/2008 ha aumentato l’attenzione sui rischi psicosociali nel mondo del lavoro, il “dito nella piaga”.

La prima ricerca di cui vorrei parlare è un’indagine condotta dall’Associazione Bruno Trentin in stretta collaborazione con le organizzazioni sindacali e promossa dalla CGIL Nazionale e dalla FIOM CGIL – con il finanziamento del FAPI (Fondo Formazione Piccole e Medie Imprese) – per comprendere come è affrontato il rischio stress lavoro correlato nelle aziende metalmeccaniche. I risultati dell’indagine, raccolti nel volume “Il rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico” sono stati presentati il 31 marzo 2015 a Roma durante la giornata di studio e confronto dal titolo “ Rischi psicosociali in Italia ed in Europa: quali percorsi per la tutela dei lavoratori?”.

Per comprendere i risultati di questa interessante ricerca e avere un quadro realistico di come si affronta lo stress lavorativo nelle aziende del comparto metalmeccanico, ho realizzato un intervista – pubblicata sul quotidiano online PuntoSicuro del 9 giugno 2015 – al ricercatore Daniele Di Nunzio (Associazione Bruno Trentin – IRES – Istituto di Ricerche Economiche e Sociali– Osservatorio Salute e Sicurezza).

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto

 

 


 

 

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Partiamo dalla storia di questa ricerca sul rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico. Da quali esigenze e problematiche è nata? Chi ha coinvolto?

Daniele Di Nunzio: Negli ultimi dieci anni le leggi e gli accordi tra le parti sociali hanno rafforzato gli obblighi per la tutela della salute dei lavoratori dando sempre maggiore importanza all’integrità della salute psico-fisica e, di conseguenza, alla prevenzione dei rischi psicosociali. In particolare, il decreto legislativo 81/2008 impone a tutte le imprese l’obbligo di effettuare la valutazione del rischio stress correlato al lavoro, secondo quanto previsto dalle indicazioni della Commissione consultiva permanente emanate alla fine del 2010.

L’Associazione Bruno Trentin, in collaborazione con la CGIL nazionale e la FIOM CGIL, con un finanziamento del Fapi, ha condotto una ricerca per capire lo stato della valutazione del rischio stress: se è effettuata, come è effettuata, quali sono i risultati.

La ricerca è stata condotta nelle aziende metalmeccaniche, ascoltando il parere dei Rappresentanti dei Lavoratori per Sicurezza, attraverso un questionario.

Perché ha riguardato in particolare il settore metalmeccanico? Quanto è presente in questo settore il rischio stress lavoro correlato?

DDN: Nel settore industriale i rischi per la salute dei lavoratori sono molti. I  rischi più noti sono quelli di tipo fisico, come i danni muscolo-scheletrici, o di tipo chimico, così come il rischio di subire un incidente.  Però esistono anche dei rischi che sono propri dell’organizzazione del lavoro, molto diffusi, meno visibili, rispetto ai quali l’attenzione è minore. I fattori che mettono una forte pressione sul lavoratore sono tanti, come i ritmi serrati, la catena di montaggio, il lavoro ripetitivo, i turni e la tendenza alla produzione continua. Questi fattori possono comportare dei danni alla salute psicologica e anche un maggiore rischio di incidenti, quindi mettono in pericolo la salute del singolo ma anche quella di una comunità di lavoratori e lavoratrici.

Veniamo ai risultati partendo innanzitutto dai ritardi delle aziende nel valutare i rischi stress lavoro correlati. Qual è la situazione nel comparto metalmeccanico? In quante aziende la valutazione è stata effettivamente fatta?

DDN: La ricerca mostra l’esistenza di numerose difficoltà per la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Le criticità maggiori e più diffuse sono: il fatto che la valutazione non viene effettuata, le mancanze nell’applicazione delle norme, lo scarso coinvolgimento degli Rls, la scarsa efficacia nell’individuazione dei rischi, la scarsa capacità di programmare delle adeguate misure di intervento per migliorare le condizioni di lavoro.

Dei 185 casi analizzati, solo in 59 la valutazione è stata conclusa al momento della rilevazione. Dall’analisi di questi 59 casi sappiamo che solo in 8 aziende sono stati evidenziati dei rischi “medi” o “alti” dall’analisi degli eventi sentinella (ossia fattori quali l’indice infortunistico o l’assenza per malattia). In 22 casi i fattori di contesto o contenuto (come l’ambiente di lavoro, l’orario e i turni) hanno indicato un rischio “medio” o “alto”. Solo in 14 casi è stata indicata la necessità di misure di intervento per contrastare il rischio stress lavoro-correlato e migliorare le condizioni di lavoro.

Dunque, in un contesto con così tanti pericoli, come quello metalmeccanico, nella maggioranza dei casi la valutazione dei rischi non è riuscita a fare emergere i problemi reali per la salute psicologica dei lavoratori. E’ dunque utile fermarsi a riflettere su qual è il funzionamento del sistema di gestione dei rischi e della valutazione dei rischi, per comprenderne le criticità e migliorarne l’efficacia.

Se vogliamo approfondire l’analisi, i dati della ricerca ci mostrano che a tre anni dall’emanazione delle indicazioni della Commissione Consultiva ancora un’azienda su tre non ha iniziato a valutare il rischio stress lavoro-correlato secondo quanto previsto dalla nuova regolamentazione. Se consideriamo un periodo di tempo più lungo, un’azienda su cinque non ha mai svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato a partire almeno dal 2008, per cui numerosi lavoratori sono stati esclusi dalla prevenzione obbligatoria su questo rischio.

Che differenza c’è nei dati in relazione alla grandezza delle aziende?

DDN: Nelle piccole aziende sono molte le difficoltà per la tutela della salute dei lavoratori, tra cui: le difficoltà economiche che ostacolano la messa in atto di interventi preventivi e migliorativi delle condizioni di lavoro, la minore presenza di figure specializzate sui temi della salute e sicurezza, il fatto che le aziende più piccole lavorano più spesso in appalto o comunque sono più facilmente in balia del mercato e delle commesse esterne, una minore opportunità di  programmazione a lungo termine del lavoro.

Però dalla ricerca emerge un dato interessante: per quanto riguarda la valutazione specifica del rischio stress lavoro-correlato, il coinvolgimento degli Rls è avvenuto in misura maggiore nelle aziende più piccole (con meno di 50 addetti). In ipotesi, nei contesti più piccoli gli Rls hanno un rapporto più diretto con la dirigenza e possono assumere un ruolo più operativo mentre nei contesti più grandi si impone uno stile più tecnocratico e formale che ostacola la partecipazione.

La ricerca ha coinvolto in particolare i Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza delle varie aziende… Qual è il livello di coinvolgimento riscontrato, laddove la valutazione del rischio è stata fatta? In che percentuale sono stati formati sul rischio stress?

DDN: Il sindacato ha un ruolo fondamentale nel sistema di gestione dei rischi. La ricerca mostra che quando gli Rls sono coinvolti nella gestione del rischio stress emergono meglio i problemi e le soluzioni. È scarsa anche l’attenzione verso la percezione “soggettiva” dei lavoratori e questo dimostra come ci sia ancora troppa confusione rispetto ai temi della salute psicologica. I lavoratori dovrebbero essere i primi a essere coinvolti nei percorsi di tutela delle loro condizioni di salute, visto che l’analisi dei rischi legati allo stress non può certo prescindere dall’ascolto del loro punto di vista. Certamente i fattori oggettivi sono importanti ma non possono riuscire a individuare tutti i problemi presenti per la salute psicologica, perché questa non può essere ridotta a un calcolo matematico, perché l’articolazione dei fattori di rischio è complessa e perché, di certo, il primo fattore di benessere è quello di sentirsi partecipi della vita aziendale.

Riguardo al ruolo degli Rls, la ricerca mostra che il rispetto formale della normativa ha portato le aziende a osservare alcuni obblighi minimi, come la visione del Dvr per gli Rls e la loro formazione, ma nella sostanza non ha favorito un ruolo attivo e partecipativo degli Rls.

L’analisi evidenzia alcuni problemi: un Rls su quattro non è stato consultato su come impostare la valutazione preliminare; nella metà dei casi gli Rls non sono stati coinvolti o lo sono stati in maniera marginale; si afferma il ricorso a consulenze esterne private, mentre il coinvolgimento di  esperti delle istituzioni pubbliche e di quelli delle organizzazioni sindacali e datoriali è scarsissimo se non nullo.

Da cosa nasce la carenza di coinvolgimento degli RLS nelle valutazioni dei rischi? Perché in Italia è ancora carente l’idea che la partecipazione di tutti alla cultura della sicurezza possa essere un elemento vincente  per l’efficacia delle attività di prevenzione?

DDN: Negli ultimi anni in Italia, non solo nel settore metalmeccanico, la competizione delle aziende è stata fondata soprattutto sull’abbassamento del costo del lavoro, con una scarsa attenzione ai fattori propri dell’innovazione e della valorizzazione del personale. Così, si è affermata una spirale di dequalificazione dei processi produttivi che si traduce in una minore competitività sui mercati globali e, anche, in peggiori condizioni per i lavoratori. In molte imprese italiane manca la capacità di puntare davvero sulla qualità della produzione, di valorizzare ogni singolo aspetto del ciclo produttivo, a partire dall’innovazione dei processi, dal lavoro quotidiano delle persone, dalla facoltà di creare un clima cooperativo. Ad esempio, la ricerca mostra che Il coinvolgimento degli Rls è avvenuto nella maggior parte dei casi nei contesti aziendali con uno stile di gestione del rischio più collaborativo, mentre laddove lo stile è più conflittuale ci sono degli ostacoli al coinvolgimento degli Rls. La cultura della sicurezza è indissolubilmente legata al valore che si da alle persone e al loro lavoro, così come è in stretto rapporto alla democrazia interna di un contesto aziendale.

Qual è il giudizio generale che è stato riscontrato sulla presenza e sulla gestione del rischio stress nelle aziende metalmeccaniche?

DDN: Solo il 30,8% degli Rls ritiene che la valutazione abbia fatto emergere i problemi principali legati al rischio stress in azienda e addirittura solo il 9% di loro ritiene che siano state affrontate delle problematiche ritenute importanti per la valutazione dello stress.

Non stupisce dunque che la maggioranza degli Rls (il 61,2%) non sia soddisfatta di come è stata condotta la valutazione nelle aziende e la valutazione del rischio sarebbe stata più efficace nell’individuare le problematiche realmente presenti nei luoghi di lavoro se il coinvolgimento degli Rls e dei lavoratori fosse stato maggiore, al contrario di quanto è accaduto.

Quali sono le possibili soluzioni per arrivare ad un’adeguata valutazione e gestione del rischio?

DDN: La soluzione migliore è certamente quella di rispettare le leggi e, anche, lo spirito che è alla base delle normative, partendo da quanto previsto dagli orientamenti europei in materia che prevedono la creazioni di sistemi di gestione del rischio fondati sulla cooperazione tra tutti gli attori. Per questo, è molto utile la creazioni di gruppi specifici di lavoro su questi temi a livello aziendale, capaci di favorire il coinvolgimento e la partecipazione degli Rls, dei lavoratori e anche dei medici, delle Asl, di esperti. In particolare, dalla ricerca emerge che le aziende in cui i fattori di contenuto e di contesto hanno portato all’individuazione di un rischio «medio» o «alto» sono quelle in cui c’è stato il coinvolgimento maggiore dell’RLS. Allo stesso modo la necessità del ricorso a misure correttive o interventi migliorativi emerge con maggiore frequenza nelle in cui è stata indagata la percezione dei lavoratori e l’RLS è stato coinvolto nel processo di valutazione.

Al di là delle scelte aziendali, tra gli RLS c’è sufficiente attenzione al tema dello stress e dei rischio psicosociali?

DDN: Negli ultimi anni l’attenzione a questi temi è andata crescendo. Lo stress correlato al lavoro è un problema che permea ogni aspetto della vita aziendale, di conseguenza per gli Rls occuparsi di questi temi significa occuparsi dell’organizzazione complessiva e delle condizioni generali del lavoro. Sicuramente i problemi per la salute psicologica nelle aziende sono meno considerati rispetto ad altri, però questo non significa che non siano importanti per i lavoratori che, ogni giorno, si confrontano con i problemi dovuti ai ritmi, agli orari, al carico di lavoro e di responsabilità che possono avere. E gli Rls dunque si confrontano necessariamente con questi problemi che riguardano la vita quotidiana dei lavoratori e lo fanno con una consapevolezza sempre crescente che deve essere alimentata con una formazione continua. Certamente sono problemi complessi e per questo gli Rls necessitano di avere degli strumenti adeguati, in termini di formazione ma anche di supporto da parte dell’azienda e, anche, delle organizzazioni sindacali, che devono riuscire a valorizzare il loro ruolo e a coordinare il loro lavoro in maniera sempre più efficace.

Quali sono in definitiva le principali conclusioni a cui arriva la ricerca?

DDN: Secondo i risultati della nostra ricerca, successivamente all’entrata in vigore delle indicazioni della Commissione Consultiva permanente è aumentato il numero di aziende che hanno svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato, per cui le indicazioni potrebbero avere contribuito ad aumentare l’attenzione a questi rischi. Quindi qualche passo in avanti è stato fatto ma la strada è ancora lunga. È necessario migliorare dal punto di vista normativo gli obblighi per la valutazione del rischio ma, soprattutto, bisogna superare qualsiasi approccio formale e non sostanziale a questi problemi, evitando anche il rischio di una burocratizzazione della valutazione che si ferma alla sola misurazione del dato oggettivo. In generale, è necessario favorire l’affermazione di una cultura della sicurezza fondata sulla cooperazione, sul dialogo, sulla democrazia aziendale, valorizzando il ruolo degli Rls e la partecipazione dei lavoratori, che sono i veri protagonisti di questi processi e devono avere un ruolo attivo e propositivo.

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Rischio stress: i ritardi e le carenze delle valutazioni dei rischi”