Covid e smart working 04: qual è il futuro del lavoro agile?

Una intervista per conoscere il futuro dello smart working e l’impatto della tecnologia e della digitalizzazione sul mondo del lavoro. Le risposte e le riflessioni di Marco Carlomagno, segretario della FLP.

Nei mesi scorsi ci siamo soffermati, in “IndagineSicurezza”, sul lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, specialmente in considerazione della fase emergenziale connessa all’emergenza COVID-19. E abbiamo ricordato, attraverso le parole di vari rappresentanti del Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI) che hanno elaborato sul tema delle vere e proprie linee guida, che il lavoro a distanza è molto di più di un’attività idonea ad affrontare le emergenze che toccano anche il mondo del lavoro. È un modello organizzativo, un “mutamento copernicano” con cui confrontarsi per il presente e per il futuro.

Ora che la fase emergenziale si è conclusa, è bene chiedersi quale sarà il futuro del lavoro agile. E, più in generale, qual è l’impatto della tecnologia e della digitalizzazione sul mondo del lavoro. Anche perché, a breve, l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) lancerà una nuova campagna per un futuro digitale sicuro e sano, con particolare attenzione ai rischi psicosociali ed ergonomici emergenti.

Per poter affrontare questi temi, con particolare riferimento al comparto della funzione pubblica, per il giornale PuntoSicuro ho intervistato Marco Carlomagno, giornalista, segretario della FLP (Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche), docente e, quando l’intervista è stata realizzata (marzo 2022), componente del Gruppo di monitoraggio della “Sperimentazione del lavoro agile” della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’intervista è stata realizzata per PuntoSicuro e pubblicata nell’articolo “Quali sono i vantaggi dell’integrazione digitale nel mondo del lavoro?”.  

Buona lettura…

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Lei si è occupato spesso di lavoro agile e la pandemia ha portato ad un enorme sviluppo di questa modalità lavorativa. Cosa pensa di questa forma di modernizzazione del mondo del lavoro? Quali sono gli aspetti positivi, anche dal punto di vista della produttività aziendale?

Marco Carlomagno: Il lavoro agile emergenziale, resosi necessario al fine di prevenire il contagio, ancorché più vicino al telelavoro che al lavoro agile previsto dalla Legge 81/2017, ha sicuramente permesso una accelerazione nel campo della modernizzazione dei processi e nella digitalizzazione di molti di essi.

Molte Amministrazioni, ma direi anche gran parte del tessuto produttivo del nostro Paese, in questi anni hanno dovuto fare i conti con la necessità di adottare nuovi modelli organizzativi, non solo per una scelta interna, quanto per far fronte alle richieste che provenivano dalla società e dal mondo esterno.

Bisogna dire che se ci sono state da una parte esperienze di innovazione e di capacità di organizzazione e di lavoro più adeguate ai bisogni del Paese, le imprese italiane e le Pubbliche Amministrazioni, che sono tante e diverse sia per complessità organizzativa che per compiti, nel loro complesso segnano ancora grandi difficoltà ad adeguarsi ai nuovi modelli organizzativi e alle modifiche richieste.

Ma questa è comunque una necessità ineludibile: il cambio di paradigma è sempre più necessario e la pandemia ha dimostrato, pur nella sua eccezionalità, come la produttività possa aumentare e i servizi possano essere erogati meglio e con maggiore tempestività e fruibilità, con modalità organizzative e tecnologiche diverse rispetto al passato.

L’implementazione del lavoro agile è stata una formidabile occasione, pur nei limiti derivanti da un’applicazione improvvisata e da sistemi organizzativi digitali non sempre al passo con i tempi, per dimostrare come i cambiamenti organizzativi, una nuova organizzazione del lavoro più orizzontale e meno gerarchico-piramidale, con la piena responsabilizzazione degli addetti ed il riconoscimento dell’autonomia, sono un valore aggiunto.

La sfida della modernizzazione necessita di ripensare l’assetto burocratico, basato sulla mera proceduralizzazione degli atti e sulla cultura dell’adempimento, privilegiando l’organizzazione per obiettivi e per risultati.

Qual è il futuro del lavoro agile? Tornerà ad essere una modalità di lavoro marginale o rimarrà una risorsa importante in ogni ambito lavorativo? Quali errori si sono commessi o si stanno commettendo riguardo allo sviluppo del lavoro agile?

M.C.: Il futuro del lavoroè agile, nella sua articolazione prevista dalla L. 81/2017 (organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro), ben differente dal telelavoro o lavoro da casa.

Non penso ovviamente che il lavoro agile sia l’unica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa per tutte le realtà organizzative e produttive.

È evidente che alcune attività sono ancora tendenzialmente da svolgere in presenza, almeno con gli attuali livelli di digitalizzazione dei processi, o per specifiche lavorazioni.

Ma l’obiettivo a cui tendere è quello di implementare le dotazioni tecnologiche delle amministrazioni pubbliche e delle imprese e rivisitare le lavorazioni, in un’ottica integrata capace di produrre semplificazione amministrativa, velocizzazione delle decisioni e dell’emanazione degli atti, modernizzando tecnologicamente sempre più anche i settori produttivi e del terziario.

Penso a regime a modelli organizzativi che coniughino in modo armonico il lavoro agile con quello in presenza, che comunque è utile non solo per fornire servizi non diversamente erogabili, ma anche per permettere momenti di condivisione e di scambio professionale.

Quello che contesto è l’approccio pregiudiziale sull’efficienza e la produttività della prestazione lavorativa in modalità agile rispetto a quella in presenza, che costituisce oggettivamente un passo indietro nell’organizzazione del lavoro e dei servizi, oltre che incidere in modo pesante su tutti gli strumenti di conciliazione vita-lavoro.

Già nel 2018 una ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ribadiva i vantaggi economico-sociali dei modelli di lavoro agile: incremento di produttività del lavoratore (+15%), riduzione del tasso di assenteismo (-20%), miglioramento dell’equilibrio fra lavoro e vita privata (+80%). Valori notevolmente migliorati negli ultimi due anni, come risulta dai report di tante università e istituti di ricerca pubblici e privati.

Ritengo inoltre assolutamente sbagliato continuare sulla materia a ipotizzare soluzioni centralistiche, calate dall’alto, uguali per tutti, prevedendo addirittura per legge il numero massimo di giornate autorizzabili in lavoro agile, o imponendo il principio della prevalenza del lavoro in presenza rispetto a quello agile per ogni singolo lavoratore, a prescindere dall’attività che svolge e dalle caratteristiche di quella prestazione lavorativa. In Italia l’eccesso di normazione, primaria o secondaria, non ha risparmiato neanche questo importante fattore di innovazione. Il combinato disposto di tale azione, unitamente alla resistenza di imprese (soprattutto PMI), e delle singole pubbliche amministrazioni a individuare in modo analitico le attività che si possono svolgere a distanza, comporta un oggettivo ostacolo al decollo stabile del lavoro agile nel nostro Paese.

La stipula dei nuovi Contratti di lavoro del pubblico impiego, insieme alle migliori esperienze contrattuali definite in questi mesi nel mondo delle aziende e del terziario, costituiscono invece, a mio modo di vedere, la strada da seguire, basata sulla massima flessibilità dello strumento, la piena responsabilizzazione degli attori interessati, la valorizzazione delle autonomie professionali e del senso di responsabilità degli addetti. 

L’evoluzione tecnologica sta trasformando il mondo del lavoro. Qual è la sua opinione sulla diffusione della tecnologia e della digitalizzazione in materia di salute e sicurezza e in materia di formazione?

M.C.: Preliminarmente bisogna rilevare che siamo ancora in ritardo, molte zone sono ancora alle prese con infrastrutture tecnologiche arcaiche e il “digital divide” spezza in due, se non in tre aree, il nostro Paese.

Il gap infrastrutturale e anche tecnologico deve essere assolutamente colmato nei confronti anche dei nostri competitor internazionali. Basti considerare che l’Italia si posiziona al 25° posto della classifica stilata nell’ultima edizione del Desi (Digital Economy and Society Index) – l’indice che misura il progresso degli Stati membri dell’UE verso un’economia e una società digitale.

Il PNRR che investe nella digitalizzazione ingenti risorse deve essere l’occasione per cambiare passo.

La digitalizzazione è un fattore non solo per aumentare la produttività, rendere servizi più efficienti e fruibili, ma è soprattutto un importante ausilio a rendere i nostri cicli produttivi più sicuri in un momento in cui le morti sul lavoro sono ancora una triste realtà e scontiamo ancora danni ambientali devastanti causati da decenni di produzioni industriali altamente inquinanti e nocive.

L’innovazione non servirà solo a rendere più competitivo il nostro Paese, ma anche a renderlo più sicuro. Il paradigma Industria 4.0 dovrà quindi garantire maggiore competitività, innovazione e diversificazione produttiva, ma anche sicurezza sui posti di lavoro e difesa dell’ambiente.

Per non parlare poi dei benefici e delle ricadute positive di quel pezzo di innovazione digitale che è il lavoro agile e a distanza sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sul traffico e le emissioni che asfissiano le nostre aree metropolitane, sui risparmi derivanti dai minori spostamenti per raggiungere fisicamente il posto di lavoro, tanto importanti in un momento in cui la crisi energetica sta portando alle stelle i costi della benzina, del gasolio e delle altre risorse energetiche.

È indubbio che la digitalizzazione e l’innovazione tecnologica necessitino di un forte e strutturato piano di formazione con procedure diffuse e mirate che siano in grado di poter accompagnare in tutto il percorso lavorativo la crescita professionale e l’acquisizione di nuove competenze del personale. La formazione, invece che essere un mero adempimento formale, come troppo spesso avviene oggi, deve diventare uno dei principali “asset” delle politiche di sviluppo del personale e delle risorse umane; con adeguati finanziamenti, lo scambio di esperienze con il lavoro privato, pubblico e quello dell’Università e della ricerca, tali da creare un interscambio ormai ineludibile per avvicinare mondi separati ma assolutamente interconnessi.

Nella riorganizzazione lavorativa successiva alla fine delle emergenze pandemiche non c’è il rischio di un ritorno al passato? Si continueranno a cogliere tutti i benefici offerti dalla società digitale e dalla tecnologia?

M.C.: La pandemia ci ha dato modo di realizzare che un cambiamento prima ritenuto impensabile è invece possibile. Le circostanze critiche che stiamo vivendo hanno valorizzato l’uso della tecnologia, anche in rapporto ad alcuni esiti negativi che meritano una riflessione accurata e consapevole.

In linea generale, tuttavia, è caduta l’ipervalutazione della presenza fisica come condizione necessaria al buon esito di un processo decisionale. Ancora una volta, le riunioni rappresentano un terreno d’indagine significativo. Pensiamo all’epoca pre-pandemica e alle sue riunioni di lavoro inutili, interminabili, per cui si muovevano persone da luoghi geograficamente distanti, con un enorme dispendio di risorse in termini di trasporti, tempo investito in spostamenti, consultazione di documenti cartacei difficili da trasportare, consultare, condividere.

L’unico modo per rendere strutturale il passaggio alle forme ibride e agili di lavoro, riunioni in testa, è cambiando i processi. Il micropotere manageriale non deve più essere contemplato: questo modello è diventato obsoleto. Alcuni manager hanno ammesso che nei paradigmi gerarchici tradizionali i vertici dirigenziali non avevano chiaro di cosa si occupassero i dipendenti e gli altri membri del team. Ecco perché così spesso indicazioni e decisioni risultavano carenti o inefficaci: l’attenzione era spostata sul controllo del singolo, e non sul risultato delle diverse mansioni e dell’efficacia generale del processo. Rendere il cambiamento strutturale significa passare dall’ottica dell’adempimento a quella degli obiettivi. Il lavoro agile nella sua veste matura richiede formazione, sia nell’utilizzo delle tecnologie sia nel cambiamento di paradigmi culturali, attestati ma non più funzionali.

L’epoca del “si è sempre fatto così” è finita: l’introduzione di nuove tecnologie specificamente dedicate al lavoro agile deve entrare in sinergia con processi orizzontali di governance e di gestione dei team di lavoro. Per questo è necessario affidarsi a professionisti specializzati nella cultura dell’engagement. Servono competenze di project management e di team work. Occorre investire nei giovani, valorizzandone la preparazione e le competenze.

In questo, ci sostiene l’esempio di aziende e amministrazioni pubbliche internazionali forti, con una potente capacità reputazionale. 

Le nuove tecnologie nel pubblico impiego: l’impatto, le resistenze e i vantaggi

Qual è l’impatto della diffusione del lavoro a distanza e delle nuove tecnologie nel comparto del pubblico impiego?

M.C.: Nel pubblico impiego il lavoro agile è stato adottato soprattutto per fronteggiare la pandemia; in una situazione di assoluta arretratezza previgente su tale istituto, è stato di fatto un lavoro da remoto, svolto in gran parte con le dotazioni delle lavoratrici e dei lavoratori e con modelli organizzativi e lavorativi che nulla hanno a che vedere con le forme di lavoro agile come dovrebbero essere intese a regime.

Numerose sono state comunque le esperienze positive, non solo nella capacità di erogare servizi e prestazioni a cittadini e imprese, quanto anche a limitare l’estendersi della pandemia e a produrre notevoli vantaggi nel campo della conciliazione vita -lavoro.

Pensiamo alle esperienze dell’Agenzia delle Entrate e dello stesso INPS che seppure dopo una fase iniziale di forte difficoltà dovuta all’enorme aggravio aggiuntivo di attività e di servizi da rendere in remoto nei diversi settori relativi alla cassa integrazione in deroga e ai cosiddetti ristori, comunque ha gestito ed evaso milioni di richieste, pur a fronte di procedimenti nuovi che prevedevano il concorso di più Enti (vedi Regioni).

In generale, come dimostrano i dati rilevabili dal monitoraggio effettuato dal Ministero per la Pubblica Amministrazione a fine 2020, soprattutto nelle Amministrazioni centrali il lavoro da remoto ha interessato percentuali di personale che complessivamente sfiorano il 70 per cento degli addetti, senza che questo abbia comportato un blocco delle attività e neanche un loro rallentamento.

La resistenza più forte verso questo processo che, partendo dall’emergenza sanitaria, ha permesso di poter sperimentare la possibilità di una reale modifica organizzativa e tecnologica delle nostre Amministrazioni è venuta dai settori più arretrati tecnologicamente, che in questi anni non hanno investito in tale direzione, come l’amministrazione della giustizia, sia civile che penale, sia amministrativa che tributaria.

Non a caso le inefficienze del nostro sistema giudiziario trovano la loro radice non solo negli interessi corporativi di alcune parti degli operatori del settore, che hanno costruito rendite di posizione sui ritardi e le inefficienze del sistema, ma anche nella mancata predisposizione di tutti quegli strumenti che pure potevano permettere la digitalizzazione di molti processi lavorativi.

Si è fatto comunque molto per modernizzare le PA e, tuttavia, si sarebbe potuto fare di più se non ci fossimo trovati di fronte al brusco dietro front di questi mesi, con il rientro in presenza di tutti i lavoratori pubblici, voluto dall’attuale Ministro per la Pubblica Amministrazione che da sempre si oppone al lavoro agile. Ora tutti i detrattori del lavoro agile, la burocrazia feudale che vuole che nulla cambi, sicuramente avranno una ragione in più per ostacolare e opporsi al cambiamento, frenando su tutte le innovazioni che erano state progettate e in molti casi già attuate nella direzione della digitalizzazione.

Il rischio che le sue azioni rallenteranno nel nostro Paese i processi di modernizzazione e di innovazione purtroppo esiste, perché nel nostro Paese i pregiudizi nei confronti del lavoro pubblico sono ancora radicati e vi è un problema evidente di “vision” della classe dirigente.

Non si può contemporaneamente mettere in campo un piano di digitalizzazione del Paese e allo stesso tempo avallare azioni in netta controtendenza che non tengono conto degli impatti che le politiche di diffusione del lavoro agile hanno sul territorio: impatti in termini di maggiore sostenibilità ambientale, maggiore produttività, maggiore equità e sostenibilità sociale e maggiore sostenibilità istituzionale che sono poi tra quelli promossi nell’ambito dell’Agenda 2030.

Nel 2023 la “digitalizzazione” sarà il tema centrale della campagna europea per favorire ambienti di lavoro sani e sicuri. Cosa deve ancora essere realizzato per una rivoluzione digitale? Quale dovrebbe essere il rapporto del mondo del lavoro con la tecnologia e la digitalizzazione?

M.C.: Una vera rivoluzione digitale passa per gli interventi infrastrutturali quali quelli della banda larga su tutto il territorio nazionale, le dotazioni informatiche delle Amministrazioni in termini di numero e di qualità, la digitalizzazione dei processi in gran parte ancora cartacei, la creazione e l’interoperabilità delle banche dati.

A questo si deve accompagnare un processo di modifica organizzativa che adegui gli assetti alle nuove tecnologie e alle nuove forme di lavoro.

Bisogna accorciare i livelli di responsabilità, diminuire l’eccessiva gerarchizzazione delle strutture, che in questi anni è servita solo a permettere il proliferare di ben remunerate posizioni di vertice aumentando i livelli di burocrazia e la deresponsabilizzazione degli addetti.

Bisogna privilegiare un’organizzazione più orizzontale e meno verticale, in cui aumentino i livelli di responsabilità, il lavoro per team. In cui si premino le innovazioni, le proposte, si valorizzino i tanti talenti presenti.

Valorizzare la dirigenza, aumentandone i profili di managerialità e di capacità di gestire processi e dinamiche organizzative, e il lavoro pubblico, mediante un sistema di valutazione basato sui risultati e non sugli adempimenti o sulla mera presenza, riconoscendo il diritto alla carriera, a mettersi in gioco e a migliorare il proprio ruolo nell’organizzazione. Valori oggi del tutto disconosciuti dalla sconsiderata politica di questi decenni basata sulla denigrazione del lavoro pubblico, sul blocco dei salari, delle carriere, dei riconoscimenti professionali.

È necessario anche ridisegnare la mappa dei processi lavorativi e le professionalità necessarie, prevedendo un massiccio inserimento mirato di nuova forza lavoro con la riconversione e la riqualificazione di quella oggi presente, mediante processi di formazione diffusa e permanente.

Elemento essenziale, inoltre, per raggiungere una completa integrazione digitale risulta l’adozione di un cambio di paradigma che consenta il superamento dei timori e delle inerzie della direzione aziendale in merito allo sviluppo di organizzazioni digital e green.

Lo studio “La nuova era del lavoro da remoto: tendenze della forza lavoro distribuita” condotto da Vanson Bourne, evidenzia come l’adozione del lavoro da remoto non abbia avuto impatti negativi sulla produttività e sui rapporti tra i componenti dei team di lavoro. Il 67% degli intervistati rileva un incremento, o una invarianza, del tasso di produttività; mentre il 76% afferma che i rapporti interpersonali sono migliorati, quantomeno con alcuni dei colleghi ed il 14% sostiene un miglioramento dei rapporti con la totalità dei colleghi.

La stessa analisi riporta inoltre come l’adozione del lavoro da remoto stia gradualmente livellando la concorrenza tra imprese, consentendo ad organizzazioni e settori in precedenza svantaggiati di ridurre il distacco e trovare nuove opportunità per innovare e aprirsi ad una maggiore partecipazione. Il 77% degli intervistati afferma infatti che le proprie capacità di lavoro da remoto sono state sottoutilizzate e le organizzazioni aziendali più piccole, che hanno effettuato un passaggio al lavoro da remoto, confermano che le proprie doti di adattabilità consentano di competere maggiormente con le imprese più grandi.

L’integrazione digitale fornisce quindi maggiori opportunità di sviluppare servizi e business.

E, come risulta ormai dai principali istituti di ricerca, la possibilità di lavorare da remoto rappresenta per una buona parte degli intervistati, un prerequisito (e non più un benefit) fondamentale per le prossime esperienze lavorative. Questo dato dovrebbe sensibilizzare nuovamente le organizzazioni aziendali ad una modifica dell’obsoleto paradigma lavorativo ancora vigente, affinché, tramite lo sviluppo di modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da remoto, vi siano maggiori opportunità di attrarre i migliori talenti.

Senza dubbio, sarà necessario non perdere l’occasione di valorizzare le esperienze maturate in questi due anni di crisi epidemiologica, al fine di produrre un cambiamento del paradigma lavorativo, da fondarsi su nuovi e differenti modelli organizzativi e culturali, che consentano di predisporre un lavoro secondo obiettivi comuni e di accrescere sempre più i legami di fiducia e responsabilità tra aziende, amministrazioni pubbliche e lavoratori.  

Intervista di Tiziano Menduto

Gli altri post sul tema:

“Covid e smart working 01: criticità e prospettive future”;

“Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione”;

“Covid e smart working 03: i vantaggi della riduzione degli infortuni in itinere”.

Covid e smart working 02: valutazione dei rischi e prevenzione

Una breve indagine attraverso alcune interviste e approfondimenti sulla diffusione dello smart working e telelavoro in tempi di pandemia. L’intervista all’Ing. Alessandro Negrini e all’Ing. Serenella Corbetta del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.


Come raccontato in un precedente post, il lavoro a distanza, declinato come smart working o come telelavoro, non è solo una conseguenza della pandemia e dell’emergenza COVID-19. Il modello organizzativo del lavoro a distanza è molto di più: è una nuova prospettiva, un “mutamento copernicano” con cui il mondo del lavoro deve confrontarsi per il presente e per il futuro. E non solo in riferimento alla scelta, o meno, di adottarlo, ma anche in relazione alle nuove strategie di prevenzione e alle corrette prassi di valutazione dei rischi di una realtà che la normativa attuale fatica ancora a riconoscere e gestire adeguatamente, almeno per quanto riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Per cercare di conoscere meglio questo mondo ho già segnalato il documento, pubblicato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI), dal titolo “Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working” e a cura di Gaetano Fede, Stefano Bergagnin e del Gruppo Tematico Temporaneo – GTT “Smart working e lavori in solitudine” del CNI. E ho presentato – nel post “Covid e smart working 01: criticità e prospettive future” – una intervista ad alcuni dei suoi autori, gli ingegneri Gaetano Fede e Stefano Bergagnin.

Se in quella intervista mi sono soffermato sulle caratteristiche del lavoro agile e sulle carenze normative, nell’intervista che presento oggi- con due componenti del GTT “Smart working e lavori in solitudine”, gli ingegneri Alessandro Negrini e Serenella Corbetta – affronto alcuni aspetti più operativi relativi allo smart working.

Ricordo che l’intervista è stata realizzata e pubblicata per PuntoSicuro nell’articolo “Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”.  


Possiamo dare qualche consiglio alle aziende che si trovano a dover valutare i rischi dello smart working anche in relazione all’attuale contesto emergenziale?

Ing. Alessandro Negrini: Come molti strumenti innovativi legati all’organizzazione d’impresa, anche il lavoro agile richiede una solida pianificazione fondata su quelli che possiamo considerare i tre pilastri di qualsiasi processo di sviluppo destinato al successo: una comunicazione efficace, una formazione graduale (quanto continua nel tempo) e l’accesso a nuove tecnologie scalabili con cui poter prendere confidenza via via che si procede lungo la curva d’apprendimento.

Il primo consiglio, quindi, è di agire in modo ponderato nonostante l’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria: lo smart working impone di definire chiaramente a priori sia gli obiettivi che le risorse destinate ad alimentare quello che sarà un cambiamento strutturale, importante e – soprattutto – articolato nel tempo. Questo per non confondere la flessibilità con l’improvvisazione.

Quali sono i rischi più sottovalutati o meno conosciuti nel lavoro a distanza e nello smart working in particolare?

Ing. Alessandro Negrini: Parlando di sicurezza occupazionale in genere, i rischi psicosociali sono spesso trattati alla stregua di una tematica di secondo piano: forse perché è complicato parlare in modo oggettivo di questioni spesso legate alla sfera emotiva, personale. La remotizzazione del lavoro, tuttavia, accentua molte di queste criticità e ci pone davanti alla necessità di affrontarle in modo aperto proprio attraverso la comunicazione e la formazione.

Più nello specifico, una valida gestione dei rischi psicosociali dovrebbe poter stabilire precisi confini tra “pubblico” e “privato” sia in termini di orari che di strumenti di comunicazione anche e soprattutto in funzione delle specifiche necessità individuali: ciò equivale a riconoscere – innanzitutto – che, se anche lo smart working impone un ampio ricorso alla digitalizzazione, questo non implica necessariamente l’estraniamento, l’isolamento o la frustrazione. Si può lavorare (e si deve) in modo agile favorendo un’interazione sociale più ricca ed equilibrata che affianchi il principio d’inclusione a quello della creazione di un mero valore economico.

Certo è che il primo radicale cambiamento di prospettiva (un mutamento copernicano, in un certo senso) prescinde dalle scelte tecnologiche e si fonda, anzi, sulle persone stesse: sullo svecchiamento di una mentalità aziendale che, troppo spesso, considera lo stress (nelle sue varie espressioni) come una componente strutturale dell’attività lavorativa in sé. In questo dobbiamo riconoscere che molti dei problemi associati al lavoro agile (parliamo, fra l’altro, di tecnostress, di burnout, di ansia da controllo/ micro-management) sono gli stessi punti dolenti che, mal gestiti, portano una parte delle aziende ad uscire dal mercato perché insistono tout court nel rifiutare nuovi approcci alla gestione d’impresa sulla base di un equivoco di fondo: la convinzione che un’attività lavorativa bilanciata e “a misura d’uomo” costituisca un’utopia, al pari di un modello organizzativo (come lo smart working) focalizzato sulla qualità del risultato anziché su logore metriche di stampo quantitativo.

Nelle linee di indirizzo si parla di “boundary”, di confine tra spazio lavorativo e spazio domestico. Quali sono i problemi connessi alla gestione degli spazi lavorativi negli ambienti privati e nelle abitazioni?

Ing. Alessandro Negrini: : Nel momento in cui l’impresa diviene “liquida“, i confini fisici dello spazio lavorativo tradizionale si fanno indistinti e, soprattutto, non consentono più di ragionare secondo i vecchi criteri che permettevano di definire un’attribuzione diretta di responsabilità (es. incidente in sede o in itinere, vigilanza di terzi o autonoma ecc.) oltre a stabilire un’implicita compartimentazione tra sfera lavorativa e dimensione privata (fisicamente collocate in luoghi diversi).

Il lavoro agile mette in discussione questi stessi confini e, al contempo, impone di concordarne di nuovi con l’impresa, offrendo – a mio avviso – la preziosa opportunità di superare la standardizzazione tipica dei modelli tradizionali, per focalizzarsi finalmente sugli elementi che davvero possono favorire il benessere individuale dei lavoratori in base alle loro specifiche esigenze di vita.

La gestione dei rischi che interessano i lavoratori agili assume, d’altronde, un’ottica di ampio respiro improntata ad una diversa concezione di welfare, tenendo in conto che la frequente sovrapposizione tra ambiente privato e ambiente di lavoro induce a trasferire le abitudini personali (salutari e non) anche al contesto professionale. Questa tendenza impone la necessità di individuare le fonti di rischio per la salute psico-fisica dei lavoratori secondo una prospettiva a lungo termine e, a mio parere, con un approccio che definirei “olistico” cioè teso a superare la logica dei “compartimenti stagni” menzionata poco fa.

In questo, stimo di rilievo gli esperimenti promossi negli scorsi mesi da alcune imprese che hanno varato programmi di miglioramento della salute aziendale volti a garantire ai propri dipendenti in smart working tutta una serie di iniziative (es. formazione nutrizionale e sugli effetti nocivi del fumo, attività fisica ed educazione posturale on-line ecc.) che ne migliorassero lo stile di vita nonostante la nuova sfida costituita dalla remotizzazione emergenziale. Le implicazioni anche a livello di welfare sociale (es. il contributo alla diffusione di una cultura della salute, l’opportunità di un invecchiamento attivo ecc.) sono evidenti, quanto interessanti.

Come affrontare la valutazione dei rischi nel lavoro agile? Come operare una valutazione in “luoghi di lavoro e in condizioni non controllabili e non monitorabili” direttamente?

Ing. Serenella Corbetta: Ai sensi del D.Lgs. 81/2008, il Datore di lavoro è tenuto alla verifica della conformità dell’ambiente di lavoro ma per quanto concerne i lavoratori agili e la loro prestazione di lavoro “anywhere”, appare evidente la quasi impossibilità di verificare lo stato di tutti i luoghi di lavoro privati in cui operano i lavoratori agili o i luoghi all’aperto.

E’ pertanto utile ricorrere a strumenti di autocontrollo con ausilio di check list compilate dal lavoratore, che deve essere evidentemente reso partecipe e consapevole della valutazione.

La check list deve essere di facile comprensione identificando in primis il luogo prevalente dello svolgimento dell’attività e declinando poi i potenziali rischi da analizzare, contribuendo così ad innalzare il grado di consapevolezza del lavoratore: indicativamente le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, degli spazi di lavoro, degli arredi, del rischio elettrico, incendio , dei fattori organizzativi , di conciliazione spazi vita lavoro, del lavoro in solitario, delle modalità organizzative.

Questa check list sarà poi utile a definire l’informativa – richiesta sempre dall’art. 22 della L. 81/2017- ai lavoratori stessi sui rischi generali e specifici dell’attività lavorativa in modalità agile.

Nella prima parte dell’intervista abbiamo accennato alla riduzione degli infortuni in itinere, ma ci sono esempi di infortuni durante le attività di smartworking?

Ing. Serenella Corbetta: Nel settembre scorso, l’INAIL è stata sollecitata da una richiesta di indennizzo per una lavoratrice caduta dalle scale, mentre effettuava una telefonata di lavoro e svolgeva la sua attività in modalità agile. Alcuni chiarimenti sull’infortunio in smartworking si ricavano dalla circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017, dove è precisato che il lavoratore agile è tutelato non solo per gli infortuni collegati al rischio proprio dell’attività lavorativa, ma anche per quelli connessi alle attività prodromiche e/o accessorie purché strumentali allo svolgimento delle mansioni del profilo professionale del lavoratore.

E’ necessario ricordare che l’art. 22 della Legge 81/2017- attuale normativa sul lavoro agile – prevede espressamente che il datore di lavoro garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori che svolgono l’attività in modalità agile.

Anche in questo caso riteniamo importante, da un lato una check list redatta secondo i suggerimenti che abbiamo prima elencato e dall’altro disciplinare nell’accordo le modalità e i luoghi dove il lavoratore potrà svolgere l’attività lavorativa, con una adeguata e dettagliata informativa sui rischi.

Diciamo qualcosa anche sullo stress lavoro correlato nello smart working. Spesso si è parla di tecnostress e di diritto alla disconnessione. Sono temi che avete affrontato anche nelle linee di indirizzo?

Ing. Serenella Corbetta: Certo, il documento da ampio spazio al diritto della disconnessione, ovvero “il diritto del lavoratore a non essere raggiungibile o contattabile, rispondendo al telefono o alle mail (disconnessione tecnica) ovvero il diritto a concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso rispetto al lavoro (disconnessione intellettuale) recuperando le proprie energie psico- fisiche”.

Il lavoratore agile è particolarmente esposto all’intensificazione dei ritmi (iper connessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero) all’isolamento e alla connotazione labile dei confini tra spazi/tempi lavorativi e non lavorativi, variabili in parte compensati dall’autonomia nella gestione del tempo.

È il Datore di lavoro che deve evitare che il lavoratore agile, che svolge la propria attività lavorativa da remoto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici, sia sottoposto a stress da eccesso di lavoro o tecno stress disciplinando lo speculare “dovere di disconnessione” nel quadro della nuova organizzazione del lavoro.

Veniamo, infine, a un altro importante argomento trattato nelle linee di indirizzo: la formazione. Che tipo di formazione necessita per uno smart worker?

Ing. Serenella Corbetta: La formazione è certamente un elemento cardine per il miglioramento della consapevolezza dei rischi dello smart worker e deve essere finalizzata ad un cambiamento effettivo degli atteggiamenti e dei comportamenti dei lavoratori che devono acquisire la consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei contesti in cui lavorano. La formazione è l’unico strumento a disposizione delle aziende per tutelare i lavoratori agili aumentando le loro conoscenze e competenze in merito alla sicurezza in ambienti completamente diversi dal tradizionale ufficio aziendale ed è fondamentale per l’azienda che non può garantire il continuo monitoraggio dei luoghi di lavoro.

Ricordiamo che nell’informativa INAIL sullo smart workingil lavoratore è tenuto ad adottare un comportamento coscienzioso e prudente, escludendo luoghi che lo esporrebbero a rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici della propria attività svolta in luoghi chiusi”.

La prestazione all’aperto comporta rischi di cui il lavoratore potrebbe non avere la percezione: rischio furto, rapina, aggressione, per citarne alcuni di cui il lavoratore deve essere conscio nella scelta del luogo dove operare la propria prestazione.

Il dipendente ha l’obbligo di osservare le direttive aziendale e collaborare all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte dal Datore di Lavoro utilizzando gli strumenti tecnologici in sua dotazione, in conformità alle policy aziendali, per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali (art. 22 comma 2 lg 81/2017). La violazione degli obblighi di collaborazione, oltre alla rilevanza disciplinare, potrebbe determinare una limitazione di responsabilità in capo al datore di lavoro.

È pertanto implicito nel disposto normativo l’obiettivo di rendere consapevoli e partecipi i lavoratori all’attuazione delle misure di sicurezza predisposte e solo un valido percorso formativo ad hoc, può permettere il raggiungimento dell’obiettivo.

Parliamo di una riprogettazione del processo formativo dello smart worker, dando certamente spazio alla formazione sui rischi tradizionali, ma pensando anche a percorsi di autoformazione guidati dal Rspp o da formatori qualificati, che declinino diversi momenti di autovalutazione delle proprie condizioni lavorative anche tramite interviste e somministrazioni di check list, training on the job o mentoring.

È necessario poi una grande attenzione ai nuovi contenuti di digital divide, diritto al distacco, problem solving e capacità di gestire il cambiamento. Riteniamo che l’aggiornamento formativo dello smart worker, partendo dal percorso tracciato dall’Accordo Stato Regione del 21/12/2011 che prevede 6 ore nel quinquennio, debba essere declinato con un monte ore annuale, esplicitato nell’accordo individuale con il lavoratore che diviene parte attiva del processo stesso con lavori a progetto che stimolino la capacità di acquisire competenze, riconoscere fonti attendibili, identificare i propri indicatori di perfomance.

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Smart working e lavoro a distanza: criticità, vantaggi e prospettive future”

Link all’articolo originale di PuntoSicuro ” Smart working: come gestire la valutazione dei rischi e la formazione?”

Intervista di Tiziano Menduto